Un’amica mi telefona e mi dice di aver cancellato le notifiche di un amico comune da Facebook per non farsi il sangue amaro, e di essere anche intimamente arrabbiata con un secondo amico comune: la ragione è essa pure comune a entrambi i casi, ed è il Covid-19, ovvero le appassionate fazioni che la pandemia e la sua gestione politica hanno prodotto nella comunità. «Temo che tutto questo possa portare a un logorio dei rapporti e a un raffreddamento degli affetti», le dico mestamente. È quello che teme anche lei.
Mica bisogna voler fare la guerra, per ritrovarsi a farla: anche le due Guerre Mondiali che hanno sfregiato il Secolo Breve ce lo ricordano, ciascuna a modo suo; così nessuno di noi vorrebbe ridursi a tagliare i ponti con amici (magari di vecchia data), a chiudere rapporti – eppure è cosa che sta già accadendo, attorno a noi e anche rispetto a noi.
Siamo tutti persone perbene, come si suol dire: da una parte c’è chi pretende di tenere alla libertà più che alla vita (e mille storie eroiche sono state scritte su questa tonalità); dall’altra c’è chi propugna la nobiltà dell’abnegazione per il bene comune (altro accordo dominante di altrettante epopee). Miriadi di sfumature imporrebbero altrettanti distinguo in ciascuno dei due discorsi, ma quel che accomuna i partigiani dell’una e dell’altra fazione è l’impotenza davanti alla pandemia. Proprio ciò che suggerirebbe solidarietà e coesione, ma gli uni esorcizzano l’ineluttabile nell’esercizio dell’ipocondria; gli altri con quello della negazione.
Questo è chiaramente solo uno spaccato di uno scenario grande e variegato: la stessa espressione comune “siamo tutti sulla stessa barca” vale fino a un certo punto, come ha efficacemente ricordato un gesuita spagnolo sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica:
Fra le «tante altre situazioni di cui non sappiamo nulla» – cui Lobo Arranz accenna sommariamente nel prosieguo – c’è poi quella che distingue tra chi vive in famiglia e chi sta solo, o magari si vede il carico di un’assistenza sanitaria a persona fragile e/o invalida centuplicato dalle chiusure sociali e dagli ingorghi sanitari. I single e le coppie senza figli guarderanno sospirando a chi ha “la casa piena di amore” fanciullesco; viceversa quanti non riescono neanche a svolgere il proprio telelavoro (oppure sono in cassa integrazione o peggio ancora) invidiano chi perlomeno non ha l’onere di portare il pane sulla tavola dei bambini. La verità – in due utili proverbi – è che «solo la cucchiara conosce il tegame», e che «l’erba del vicino è sempre più verde».
Comunque se c’è una cosa che proprio non deve destare stupore essa è appunto la dinamica delle fazioni e delle accuse incrociate: è ovvio che, nei momenti di forte stress, le persone come le società vedano emergere tratti caratteriali normalmente composti sotto lo stucco del contratto sociale e delle credenze dichiarate (le quali possono rivelarsi non molto radicate nella struttura della personalità). Constatando i riverberi ecclesiali di questa evidenza, papa Francesco aveva concluso la sua omelia nella Pentecoste 2020 con questa invocazione:
E nel Regina Cœli di quello stesso giorno il Papa pronunciava forse per la prima volta quel refrain che di lì in poi avrebbe ribadito a ogni piè sospinto:
Con questa osservazione il Pontefice scardinava il Leitmotiv del voto generale – “tornare alla normalità” –, ricordando che una pandemia non esprime, in sé e direttamente, un giudizio di Dio sull’umanità, ma sprona quest’ultima a una decisione, letteralmente a un giudizio, su quell’interconnessione che filosoficamente si è sempre chiamata “cosmo” (che significa “mondo ordinato”, non semplicemente “mondo”).
La Chiesa è certamente una “societas perfecta”, ma nel senso che dispone di tutti i mezzi necessari a conseguire i propri fini – non quasi che i suoi membri siano tutti arrivati (anzi, fintanto che peregrinano in hac lacrymarum valle nessuno è arrivato) –: in essa si rispecchiano però molte delle dinamiche comuni a tutta la società secolare, anche relativamente alla pandemia. La più evidente, forse anche la più preoccupante, è quella che ha comportato una certa flessione nella prassi sacramentale.
Pochi giorni prima il Cardinale aveva risposto alle domande di Debora Donnini per Vatican News, e questo è ciò che ha detto quando la giornalista le ha chiesto di fare il punto sull’impatto della pandemia sul vissuto ecclesiale in Italia:
Riportavo queste parole tra gli appunti e le note che tengo sul mio blog, chiosandole più o meno così:
Devo dire che su questo specifico punto padre Lobo Arranz mi ha aiutato a compiere delle utili sfumature, laddove scrive:
Insomma non siamo tutti uguali – un’altra ovvietà, ma che spesso diamo per scontata al punto da dimenticarla – e i corollari ecclesiali delle restrizioni pandemiche saranno piovuti sia su molte spalle forti e salde sia su tante altre che (non sempre con colpa) rischiano seriamente di restare compromesse. Le stesse comunità, e non solo le persone, non possono essere misurate tutte sul medesimo metro.
Un aspetto quotidiano, e anzi eminentemente universale, della vita umana presenta sorprendenti e insospettate analogie con la crisi ecclesiale a cui facevamo cenno nel paragrafo precedente: quello che riguarda la pratica sessuale (in senso ampio, ma con particolare attenzione all’attività genitale) – che consideriamo qui nell’accezione socio-psicologica, più che in quella morale.
Mentre infatti andare in parrocchia implica uscire di casa e incontrare degli estranei potenzialmente infetti, avere rapporti sessuali con il proprio partner non dovrebbe essere ritenuto più rischioso che condividerci la mensa e il bagno: eppure non sono soltanto i single (quelli individuati dai DPCM come “privi di affetti stabili”) ad aver patito duramente la segregazione da quarantena pandemica. Eleonora Stopani ha riportato su ipsico.it i risultati di diversi sondaggi e studi:
Stando ai dati degli studi citati, sembrerebbe che il 95% dei non-conviventi abbia visto letteralmente azzerarsi la propria vita sessuale, e fino a questo punto si potrebbe pensare alle difficoltà tecnico/logistiche:
Percentuali interessanti, che anche nell’àmbito dei preparativi di un sinodo della Chiesa in Italia andrebbero confrontate – foss’anche solo per scrupolo… – con quelle risultanti da questionari adeguatamente concepiti e somministrati (da professionisti della demoscopia, s’intende): o che cosa significa insistere tanto sulla “liturgia dei corpi” se quando poi spunta una pista così interessante (e così cattolica, in quanto trasversale a tutta la società) non la si fruga con interesse e simpatia? Che si tratti di sacramenti o di sesso – due realtà vicinissime per l’altezza dei loro sensi e per i fraintendimenti che le infestano –, res nostra agitur.
Non abbiamo ancora finito di imparare quanto l’adozione indiscriminata di una mentalità aziendale (almeno in termini di brand e fatturato)nuoccia alla Chiesa, anche se ne sappiamo già parecchio: la lezione su cui però come Chiesa fatichiamo tanto è quella che le aziende serie offrono quando sondano il mercato per capire la clientela. E non – si badi bene – per dare alla clientela quello che essa vuole (o crede di volere), bensì per studiare strategie efficaci di fidelizzazione verso il proprio prodotto (utile o meno che sia alla clientela).
Buona parte dei dati raccolti e discussi dalla psicologa dell’Ipsico vengono infatti da ricerche promosse dalla Durex, leader nel mercato dei preservativi (e dei lubrificanti, e dei “sex toys”):
A noi sembra che siano almeno tre le osservazioni importanti da fare:
Chiaramente queste tre osservazioni potrebbero facilmente essere impugnate da Durex, che facilmente rovescerebbe “contro la Chiesa” le critiche sottese ad esse: non sarebbe un problema, e anzi costituirebbe una conferma della stretta analogia tra la vita sacramentale e quella sessuale (ove l’una e l’altra siano intese iuxta propria principia).
Il filosofo francese Paul Ricœur si era lungamente confrontato con l’opera di Sigmund Freud proprio in virtù dell’intuizione che molte delle aporie e delle aberrazioni della psicanalisi freudiana si debbano al fraintendimento per cui tutta la vita parlerebbe di sesso. È invece vero il contrario, osservava Ricœur: tutto il sesso parla della vita (ovvero ne è – diremmo con categorie teologiche – un “sacramento naturale”), e proprio per questo non dovremmo stupirci di trovare convergenze tra la vita sacramentale e la vita sessuale delle persone. Tanto più quando tali convergenze si dànno in un contesto sperimentale che per ipotesi avremmo scartato: potevamo pensare cioè che non si andasse più molto in parrocchia per non incontrare gente “di fuori”, ma scopriamo che una crisi analoga (se non altro per entità) è vissuta tra persone che vivono sotto lo stesso tetto e che dormono perfino nello stesso letto. Che cosa succede dunque?
Verso il finire del suo articolo, padre Lobo Arranz scrive:
Ecco, questi sono spunti su cui a sua volta Durex farebbe bene a interrogarsi: forse la gente non fa più l’amore perché è minata in quella disponibilità alla progettualità che chiamiamo “fiducia” – e non c’è gel che lenisca tale aridità, né pillola tanto afrodisiaca da infondere il desiderio di desiderare.
Certamente anche Durex si chiederà «se davvero abbia scelto la strada giusta», ma essendo un’azienda con una mission e un core business già dati non è pensabile che chiuda baracca e burattini in seguito a un’indagine di mercato. Un’analoga ispezione nella Chiesa si chiamerebbe sociologicamente “momento di coscienza collettiva”, o – più ecclesialmente – “sinodo”, e poiché anche lì la mission e il core business sono già dati e immodificabili, sarà tutto il resto a dover essere discusso e sottoposto a riflessione.
“La comunicazione”, si dirà subito. Sì, certo, anche la comunicazione, ma se torniamo per un attimo alla terza osservazione che facevamo sopra possiamo approfondire un aspetto: quel “Let’s not get back to normal” che Durex ha impostato come slogan non è solo geniale in quanto funziona, ma viceversa funziona bene da claim perché risponde alle intime speranze delle persone, le quali ne restano affascinate perché in un istante scoprono di desiderare una cosa ben più di quanto desiderino quella che fino a un attimo prima pensavano di volere (“tornare alla normalità”). Scrive infatti padre Lobo Arranz:
Insomma, si stava davvero tanto meglio – ce lo si chieda per le comunità ecclesiali e insieme per le comunità coniugali – prima?
Ora però qualcuno potrebbe obiettare: abbiamo fatto psicologia, sociologia, sessuologia… ma dov’è la spiritualità? Perché l’articolo prometteva di parlare dei “postumi spirituali” della pandemia? È un’obiezione che il gesuita de La Civiltà Cattolica pare avvertire vivamente, visto che fin dalle prime mosse del suo articolo tiene a premettere:
Durex farebbe bene a riflettere su queste problematiche, ma per l’azienda sarebbe molto difficile farlo da cima a fondo; la Chiesa invece non dovrebbe lasciarsi sorpassare su quell’intuizione – “non torniamo alla normalità!” – perché il sottotesto di quell’annuncio è una buona notizia.