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Avere un padre da festeggiare

UOMO ANZIANO
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Paola Belletti - pubblicato il 19/03/21
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Ripenso oggi, che posso ancora godere della sua presenza, all'amore per mio padre quando ero bambina, alla tenerezza dei piccoli regali preparati per la festa del papà, all'attesa che rientrasse a casa, ogni sera, dopo il lavoro.

All'asilo (ora scuola dell'infanzia) iniziavamo a lavorarci settimane prima; mi ricordo la colla bianca rimasta sulle dita e tra le parti delle mollette di legno che dovevamo assemblare a forma di posacenere (il fumo ancora non era tanto stigmatizzato, erano gli anni Settanta), di reggi pipa, di portacarte.

Sento l'odore di vinavil e anche la consistenza del pennello che usavamo, previa raccomandazione della nostra suora-maestra, per stenderne un velo che poi diventava sempre troppa e allora la suora ci rimproverava.

La mia, titolare del Fiore Azzurro, si chiamava Arnalda ed era la più severa. Avrei voluto finire nel fiore Rosso con la mia amica Greta e suor Adalgisa che sorrideva sempre, cantava, dava carezze. La mia urlava invece, non sempre immagino, ma l'ho memorizzata così. Soprattutto per quella volta che mi cacciò dall'aula perché avevo sbagliato ancora le cornicette e mi ricordo i singhiozzi che mi scuotevano tutta e non riuscivo a fermare. La copertina del quaderno che mi scagliò dietro era marrone bruciato. Ma quella volta venne proprio suor Adalgisa a consolarmi. Il Fiore Rosso mi restò comunque inaccessibile.

Ai primi di marzo ad ogni modo si iniziava il lavoretto per la Festa del Papà. Sarebbe poi stato confezionato in carta lucida trasparente, chiuso con nastri rossi arricciati, corredato di biglietto punteggiato e colorato da noi.

Ero scarsa coi lavoretti, mi distraevo, pensavo ad altro; anche al mio papà. Bello, con i baffi, pochi capelli ma ricci come i miei; per era fortissimo, il più forte. La fronte quasi sempre corrugata, di poche parole e invece è buono, il mio papà. Impacciato nel mostrare un affetto, senza condizioni ma con molte aspettative, che gli usciva da sotto i baffi, dagli occhi, dalla presa forte della sua mano.

Ero un po' incline al patetico, fin da bambina. Mi ricordo che, di mia spontanea volontà, avevo iniziato a scrivere in un quaderno piccolo a righe dei pensieri e delle poesie; una era proprio per lui, il mio papà. Fossi nata dopo il duemila forse avrei aperto un blog se non fossi stata risucchiata, come capita alle mie figlie adolescenti, da profili da seguire, followers da sperare di avere, piccole coreografie da ripetere e postare su TikTok. Invece scrivevo a penna e meglio di adesso ché ormai ragiono direttamente digitando sulla tastiera.

Pensando a mio papà e a quanto gli volessi bene ho messo su quella paginetta infantile e scadente tutto il mio sentimento. E ho trasformando in ode il mio piccolo patire: ma quando torna il papà dal lavoro?

Mi mancava, lo aspettavo con ansia, ed era un momento bellissimo appena rientrava a casa: scendeva dall'auto, guadagnava il vialetto di ingresso e si lasciava arrampicare su fino al collo; a volte ero già in pigiama. Sosteneva me con un braccio e mio fratello più piccolo con l'altro. Gli altri due li salutava a voce, una pacca bonaria sulle spalle che si stavano arrotondando di muscoli o una carezza sui capelli.

Stanco. Rincasava strac mort, come dicevamo noi, cremonesi di nascita, bresciani d'adozione. Imprenditore da quando si licenziò da quell'azienda americana che lo cercò negli elenchi dei periti industriali freschi di diploma, e da Casalmaggiore lo spedì a Roma, lavorava minimo 12 ore al giorno, spesso 14.

E a casa, mia mamma, con 4 figli di età ravvicinata e nessuna patente di guida e nemmeno il telefono a disposizione, con mamma e papà lontani quando un discreto viaggio in corriera, aveva di che inventarsi e trovare modi per arrivare a sera senza crollare. Ce la facevano, con maggiore o minore contegno ma a sera si arrivava e si era spesso contenti, in fondo al cuore sempre, nonostante qualche dramma.

C'era spesso la minestra nei piatti, la sera: di verdure, col brodo, con spinaci e patate e riso. Adoravo il passato di verdura; mi godevo con tutta la lentezza possibile la fusione del parmigiano con la verdura e quelle gocce verdi, lucide, di olio d'oliva le inseguivo col cucchiaio. I miei si esasperavano della mia lentezza e dello scarso appetito. Guardavo gli altri, ascoltavo i discorsi, dicevo la mia, raccontavo di scuola, riferivamo litigi tra fratelli ancora un po' accesi.

Mio papà tornava tardi ed era stanco ma felice di vederci; io, unica femmina, conquistavo più dolcezza degli altri, lo so.

Volevo ripagarlo. E allora nei miei componimenti raccontavo la sua fatica, il suo coraggio, mitizzavo il suo lavoro: per me l'odore degli pneumatici ha un che di epico anche adesso che è uscito dal settore da decenni e io dall'infanzia altrettanto.

Che bello avere un padre. Che bello che sia impacciato nel dire cosa occupa tutto il suo cuore e cercare, noi, di intuirlo da ciò che fa, dalla sua fedeltà a tutto, ai gesti, anche forse a qualche piccola mania, agli impegni; dalla repulsione per gli azzardi e le scelte furbe; dalla passione per il lavoro fatto di fatica, intelligenza, perseveranza.

Ha anche dei difetti, mio papà, e assomigliano a quelli di mio marito.

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