Era il giugno del 2015 e mi trovavo nel mezzo del turbinìo di eventi e conferenze per la Disney di cui ero il direttore della comunicazione. Quel pomeriggio, mi concessi dieci minuti per prendere un panino in un bar di Milano, mentre sfrecciavo da un impegno all’altro. Un uomo si avvicinò, offrendomi la cartolina promozionale di un libro. Mi colpì il titolo: parlava di coincidenze. Distrattamente, lo ringraziai, infilando la cartolina in qualche meandro della mia borsa. Una settimana dopo, mi ritrovai a Giffoni, in provincia di Salerno, per gestire lanci cinematografici e televisivi presso l’omonimo festival per ragazzi e, poiché vi partecipava mio figlio, decisi di passare anch'io il weekend sulla costiera amalfitana.
La mia vita era sulla soglia di un cambio epocale, ma non sapevo di trovarmi ad un passo dal coup de thèâtre che mi avrebbe ribaltato come un calzino. Stavo “macinando” decine di e-mail sdraiata sotto l’ombrellone della suggestiva terrazza di un hotel di Maiori, quando il cielo si fece plumbeo e tutti i bagnanti si misero in fila per raggiungere l’ascensore che collegava la terrazza al piano terra dell’hotel, meravigliosamente abbarbicato sulla costa. Avevo due alternative per rientrare: salire cinquecento gradini o prendere quel minuscolo ascensore che scorreva all’interno di uno dei bellissimi faraglioni fra i quali era incastonato l’hotel. Visto il cielo minaccioso, scelsi di mettermi in coda per l’ascensore e, arrivato il mio turno, vi salii con altre tre donne, guarda caso tutte di lingua inglese. Fu una coincidenza che io fossi bilingue, forse una “fortuna nella sfortuna” per quelle ragazze, anche se, da cristiana quale oggi sono, ho imparato che fortuna e sfortuna non esistono: esiste solo la divina provvidenza.
Improvvisamente la luce si spense e l’ascensore si bloccò a metà dell’altezza del faraglione. Eccomi lì: in meno di mezz’ora ero passata da una pila di noiosissime e-mail a tre giovani donne in preda al panico. Al lume del mio cellulare, chiamai la sorveglianza. Mi rispose un uomo dal grande cuore, Gennaro*, il quale, a più riprese, tentò tutte le possibili soluzioni previste dal protocollo per metterci in salvo. Nulla da fare: il primo motore era saltato e, malauguratamente, anche il motore di scorta era fuori servizio. Le urla delle mie compagne si facevano sempre più laceranti, consumando l’ormai esigua quantità di ossigeno dell’abitacolo.
Dopo circa sette minuti, eravamo tutte a terra, accovacciate l’una accanto all’altra, sudatissime e boccheggianti. In quel momento accadde qualcosa che non dimenticherò mai. Gennaro si era allontanato dal citofono in cerca di aiuto ed io mi sentivo sola in quella situazione surreale. Ricordo di essermi sentita “fuori dal mondo”: era come se osservassi la realtà dalla poltrona di un cinema. Mi sentii pervasa da una calma ancor più surreale della situazione stessa. Un pensiero assai razionale mi trapassò la mente: se Gennaro non avesse escogitato una soluzione al volo, avremmo avuto al massimo dieci minuti di vita. Sperai che non fosse ricorso ai pompieri poiché era un sabato e la strada serpeggiante della costiera avrebbe richiesto un tempo infinito, ben più lungo della manciata di minuti che ci restavano da vivere. Infine, sentii una voce interiore deflagrare dentro di me: “No, non ho vissuto e sofferto fino ad oggi per morire come un ratto”.
Caro lettore, vorrei poterti dire che in quel momento pregai, ma non fu così. Quello che udii, qualche istante dopo, fu un rumore assordante di catene. Un tonfo dopo l’altro: Gennaro ci stava calando giù, manovrando con la forza delle sue mani l’argano di quella trappola infernale e, mentre le tre sventurate urlavano “We’re falling! Stiamo precipitando!”, dentro di me mi sentivo tranquillissima, certa che tra qualche minuto avrei avvertito gli spifferi della brezza marina. Con un tremendo tonfo finale, giungemmo al piano terra. Un secondo dopo, facendo leva con una tenaglia sulle ante scorrevoli** (anch’esse bloccate), Gennaro ci liberò. “We’re alive! Siamo vive!”.
Ci abbracciammo tutti come sopravvissuti che euforicamente celebrano la gioia di vivere. Strinsi subito amicizia con Gennaro che mi confidò di essersi catapultato giù dai cinquecento gradini "come se in quell’ascensore ci fosse mia figlia". Quell’ascensore avrebbe potuto condurmi all’inferno, o quanto meno porre fine alla vita di una donna che da più di vent’anni si era allontanata da Gesù, una donna che non sapeva più pregare, neanche a un passo dalla morte. Ma Gesù non si era mai allontanato da me e, come scoprii alcune “coincidenze” dopo, Qualcuno era entrato in scena per salvarci, sovvertendo metaforicamente il fine ultimo di quell’ascensore che, da maledetta trappola per topi, si era trasformato in strumento benedetto portatore di vita per ricondurmi a Gesù. Nei giorni successivi, avrei scoperto che Santa Gemma si celava dietro quel fortuito salvataggio. Quel giorno Gemma mi convertì in ascensore, ed io - cieca o forse troppo distratta - me ne accorsi solo dopo, quando ebbi modo di rendermi conto che si trattava di una “chiamata”. Tramite l’evento scioccante dell’ascensore, Gemma mi aveva chiamato, in modo dolce e poderoso, come è nel suo stile. La storia continua e tu, caro lettore che ami le emozioni forti, trattieni il respiro fino al prossimo articolo…
*nome di fantasia
**questo episodio mi ha sempre richiamato il film “Sliding Doors” (1998) di Peter Howitt
Hai qualche storia legata a Santa Gemma Galgani? Scrivimi pure a questo indirizzo, la leggerò con piacere: fabiola_bertinotti@libero.it