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Sono Serena Di ed ero una vera radical chic

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MIENMIUAIF - MIA MOGLIE ED IO - pubblicato il 16/03/21
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"Di" non è il suo vero cognome, è più una speranza e un bisogno: essere Di qualcuno, appartenere a Dio. Da ex radical chic, conquistata alla fede senza indottrinamento, ci raccomanda di volere bene sul serio ai radical chic che ancora non hanno avuto occasione di pentirsi. In uscita la sua prima opera per i tipi di Berica, nella ormai cult collana UOMOVIVO.

Serena Di è una ragazza italiana che al momento si trova a Boston con il marito e una piccola e vivace bimba, ma per oltre dieci anni si è divisa tra studi televisivi e radiofonici, redazioni di quotidiani e riviste, agenzie pubblicitarie, set cinematografici, sottoscala, salotti, open space, brainstorming e interminabili file agli aperisushi. È appena uscito nella collana UOMOVIVO il suo “Confessioni di una Radical Chic pentita”, un resoconto dettagliato e tragicomico di quegli anni, ma anche una storia d’amore e di speranza, un viaggio che parte con la ricerca delle luci della ribalta e arriva fino all’incontro con Dio. Oppure, per dirla con Costanza Miriano nella prefazione: “un concentrato di intuizioni fulminanti sulla questione femminile e sulla ancora più importante questione centrale, la ritenzione idrica”.

Non sono la cugina di Melissa P., se è questo che intendi. Serena è il mio vero nome, Di è l’iniziale del mio cognome e di quello di mio marito. Quando ho iniziato a scrivere delle mie esperienze, della me del passato e di una certa spocchia che mi portavo dietro, del pentimento e del ritorno alla fede, ho avvertito la necessità di rappresentarmi come una persona diversa, che non vuol dire perfetta, ma nuova, perché alla fine l’incontro con Dio chiede questo alle nostre vite, di trasformarsi. 

Il nome vuole simboleggiare questa rinascita e gioca un po’ sul doppio senso di appartenenza. Sussurriamo spesso con sospetto “figlio di”, “parente di”, e così via, ma in questo “Di” c’è anche un desiderio di appartenenza a Dio. Nessuno pseudonimo o bisogno di anonimato, quindi, piuttosto una dichiarazione di intenti.

Certo, ed è il messaggio a cui tengo di più. Viviamo in un’epoca di divisioni, i media e i social media sono intrisi di parole d’odio e l’ultima cosa che volevo era rappresentare l’umanità attraverso fazioni opposte. Non sono un censore, il libro non è un pamphlet contro qualcuno, né l’ho scritto per giudicare qualcuno. Non ho la pretesa di semplificare la complessità della vita in credenti buoni e non-credenti cattivi, come ai tempi era stato insegnato a me: credenti stupidi e ignoranti, non-credenti intelligenti e colti. Al di là delle ironie (e non sarcasmo) ho rispolverato l’antica, e ormai banale, etichetta coniata dallo scrittore Tom Wolfe, per descrivere il mio atteggiamento nei confronti della fede, allo scopo di promuovere un invito alla fraternità e ricordare al lettore che chi ama Dio non ha nemici.

L’indottrinamento è una pratica odiosa e triste, a sentire la parola pensiamo subito a quello religioso che quando viene messo in atto è il peggiore di tutti. Nessuno di noi vorrebbe essere amato a forza, perché vorrebbe esserlo Dio? Ma c’è un altro tipo di indottrinamento, più sottile e come hai detto molto comune, che vuole far passare il messaggio che la fede sia un rimedio per gente senza speranza, una pratica idiota, utile al massimo per combattere ansia e depressione, una panacea per stressati, un oppio dei popoli e i fedeli un ammasso di ebeti, di sfigati, di retrogradi quando va bene.

Questo è il tipo di indottrinamento che ho subito, in principio da una professoressa delle scuole medie che ci ripeteva continuamente che la cultura era solo di sinistra e la religione una consuetudine oscurantista. Nonostante fossi cresciuta in una famiglia di insegnati con idee di sinistra i miei genitori non si erano mai sognati di esprimersi in quel modo, né con me né con i loro alunni, e questo mi ha turbata. Ma intendiamoci, non è a lei che voglio dare la colpa per il mio allontanamento dalla fede, non è stata che una goccia nel mare e alla fine Dio ci lascia liberi di seguire la strada che più ci piace, anche quella che va nella direzione opposta alla sua.

Basta leggere i giornali, guardare la tv, fare un giro sui social, controllare pagine satiriche da milioni di follower e seguire i personaggi “giusti” per rendersi conto che c’è un enorme problema di comunicazione e di percezione della fede. Io poi che ho lavorato per anni nel mondo dello spettacolo e dello showbiz posso confermare che c’è un diffuso pregiudizio verso i credenti che fanno parte di questo ambiente. Da giovane studentessa di cinema e fotografia ho incontrato, tra i tanti, il compianto fotografo di moda Giovanni Gastel, e mi sono da subito innamorata dei suoi lavori. Non sapevo fosse credente ma penso che se lo avessi saputo all’epoca, ideologizzata com’ero, probabilmente avrei apprezzato meno le sue opere. Ho letto recentemente una vecchia intervista che ha rilasciato alla Stampa qualche anno fa dove senza imbarazzi, parlando di una grazia ricevuta da Padre Pio, ha affermato:

Le sue parole riassumono tutto.

Ebbene sì, non aveva il cavallo ma una Toyota e non distingueva la differenza tra un radicchio e un cavolo rosso. Questo ragazzo, che come me lavorava nel mondo dello showbiz, ma dall’altra parte dell’oceano, e non si vergognava della propria fede ma sopportava e sorrideva alle fatiche della vita con la decina al polso, ha messo per primo scompiglio nelle mie certezze, pian piano, esclusivamente con il suo esempio, senza mai indottrinarmi o forzarmi a pregare o andare a Messa.

Scrivendo mi sono resa conto che la storia del mio rapporto con la fede era anche e soprattutto una storia familiare, iniziata con mia nonna Elvira che mi aveva insegnato la preghiera all’angelo custode e mi aveva regalato il primo rosario. Per anni non mi sono mai sognata di pregarlo. Volevo essere libera eppure ero ingabbiata in un solido dogmatismo, fortemente ideologizzato, avevo tutto ma nulla era mai abbastanza, ero focalizzata sulla celebrazione continua del sé, ossessionata dalla competizione smodata, dai primi posti ma a fine giornata rimavo da sola con il mio senso di vuoto. In un mondo che crea fenomeni nuovi ogni giorno e dove il genio del mercoledì diventa il cretino del venerdì, come diceva anche Gastel, chi si convince che il gioco è la vita ne finisce stritolato.

Non sono certo diventata una santa. Sono una donna, una ragazza come tante, una moglie, una madre che lavora, che coltiva i suoi sogni e cerca di far stare tutto insieme a fine giornata, spesso non riuscendoci. Come il resto del mondo in questo momento soffro per la pandemia e a giudicare dalla mia ricrescita anche per la chiusura dei parrucchieri, ma nonostante dei giorni sia difficile rivolgersi a Dio continuo a cercare il suo volto.

Avere fede in un mondo che l’ha completamente smarrita. Se ci pensi è un pensiero rivoluzionario, ci vuole una buona dose di follia per essere credenti oggi, e aggiungerei anche uno spirito da bambini, bisogna farsi piccoli in un mondo che ci vuole sempre grandi e arroganti.

Trovate “Confessioni di una Radical Chic pentita” in formato cartaceo e ebook sul sito di Berica Editrice, Amazon e nei principali store online, oppure ordinandolo in libreria.

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