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«Perché Achille Lauro è blasfemo e Troisi no?»

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 16/03/21
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Non è quest'anno la prima volta che in merito al Festival di Sanremo si solleva l'accusa di blasfemia, e accanto a tutte le considerazioni psico-sociali se ne possono porre altre, di natura più schiettamente spirituale ed ecclesiale.

Il Festival di Sanremo è ormai alle nostre spalle da una settimana: il luccichio delle paillettes è finito sotto la cenere di un pallido ricordo e alcune delle canzoni in gara sono scivolate per direttissima nel dimenticatoio, mentre altre si sono imposte nelle orecchie della gente meglio di quanto abbiano fatto nella classifica sanremese. 

Non accennano a scemare, invece, le polemiche – altro ingrediente fondamentale della kermesse canora –, tra le quali quest’anno hanno giganteggiato quelle connesse con le performance di Achille Lauro, cui ha dato man forte in una serata anche il co-conduttore Fiorello. Cose già viste, in parte, ma quest’anno si sono scomodati anche gli esorcisti cattolici

L’osservazione più piana e “laica” che si possa fare in merito – né questa è la prima volta che la si propone – è che quando qualcuno cerca di provocare sensazioni forti e pensieri profondi è per lui una carta facile da giocarsi il ricorso alla simbolica cristiana. 

C’è sicuramente molto di vero in questa ovvietà, ma i cristiani possono utilmente interrogarsi su cosa provoca in loro essere spiritualmente “saccheggiati”: non ci sarà anche, nell’amarezza e nello sdegno, una goccia di quel segreto compiacimento di chi, scoprendosi derubato, trova nel furto stesso una conferma del valore e della desiderabilità delle sue cose (alle quali magari teneva ormai meno di quanto abbiano mostrato i ladri)? 

Forse solleticano anche queste segrete corde le petizioni che ancora in questi giorni – dunque decisamente fuori tempo massimo in ordine a una qualsivoglia incidenza pratica – associazioni cattoliche promuovono. È una riflessione su questo tenore quella offerta nei giorni scorsi da un sacerdote che sta su Facebook con lo pseudonimo “Scherzi da prete”:

Come si vede, la riflessione del sacerdote si articola su più piani: almeno 

    Come mai? Raccogliamo volentieri le domande del sacerdote, insieme con il suo invito a sviluppare una riflessione. Quella di noi credenti a considerare “roba nostra” il bagaglio religioso è una tendenza atavica all’esperienza religiosa, e almeno nell’ultimo mezzo secolo molti studî sul rapporto “fede-religione” hanno sviscerato abbondantemente il tema: in sintesi, il rischio è che il passo da “roba nostra” a una mentalità settaria e violenta tipo “Cosa Nostra” sia fin troppo breve. Per questo l’invito alla prudenza e alla riflessione è quanto mai opportuno. 

    Ricordo di aver sentito mons. Bruno Forte, una volta, citare questa frase assai audace (mi pare che la attribuisse a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, ma non ci giurerei): «La bestemmia del povero che soffre è una litania alle orecchie di Dio». Un orecchio teologico corre subito a Gedeone, a Giobbe e ai tanti giusti sofferenti che nel loro schietto dialogo con l’Eterno dicono parole che normalmente sono e restano proscritte per la comunità dei fedeli: massimo epigono della “bestemmia religiosa” è senza dubbio Cristo stesso che – urlando il Salmo 21 sulla Croce – dà voce per ogni tempo ai sentimenti dell’uomo che vive «nelle tenebre e nell’ombra di morte». Di quel grido al contempo infraumano e sovrumano – in tal senso “pontificale” – Von Balthasar potè infatti scrivere: «Il grido dell’ora nona riecheggia per l’eternità nel grembo del Padre». 

    Mi tornano alla mente alcune vignette di un mio amico, giovane prete per la diocesi di Sulmona-Valva, al cui talento artistico anche il sopra ricordato mons. Forte è più volte ricorso: le vignette da lui commissionate sono tuttavia assai meno “problematiche” di altre che fin dai tempi del seminario don Oliviero Liberatore ha composto, spesso e volentieri castigando vizî clericali o coinvolgendo Cristo, la Madonna e i Santi in siparietti decisamente sopra le righe. 

    Poiché queste vignette le conservo da anni come cosa cara, e non le ho mai trovate irriguardose pur riconoscendole “forti”, ho pensato di ragionare con lui del quid che rende blasfema una vignetta (o una qualsivoglia altra produzione estetica). Insomma, perché le sue vignette non sono blasfeme – al punto da attrarre la benevola attenzione dei Vescovi – mentre le gag di Achille Lauro e Fiorello lo sono? Questa è la riflessione di don Liberatore: 

    Se il valore delle riflessioni di don Oliviero viene dal fatto che oltre a essere un bravo vignettista è pure un coscienzioso sacerdote cattolico, ho però raccolto pure il parere di un vignettista almeno altrettanto bravo che è un laico e che della sua arte sta cercando di fare una vera professione. Anche a “Salesalato” (questo il suo nom de plume) ho quindi chiesto una riflessione personale sull’argomento, anche a partire dalle vignette più “al limite” che ha disegnato, quelle sulla cui pubblicazione egli stesso ha indugiato: perché – gli ho chiesto – alle fine hai trovato che queste tue non fossero blasfeme, mentre altre di altri autori sì? 

    Entrambi i miei amici vignettisti, quindi, ritengono che la blasfemia – quando non è quella marchiana e grossolana di Serse Cosmi che rivendica il “diritto a bestemmiare” in campo in quanto «siamo in un paese laico» (cose che alcuni dicono anche in Francia) – sia il risultato di una confidenza inappropriata. O per il contesto o per l’intenzione o per il momento… o perché tra le persone in gioco (l’artista, il Santo e la Comunità) non c’è davvero quella confidenza che potrebbe ben ospitare – e sostenere e collocare – un momento distensivo. 

    La difficoltà del definire il concetto di bestemmia sta nel fatto che in esso si combinano delicati equilibri tra fattori soggettivi e fattori oggettivi, né si potrebbe ottenere una definizione soddisfacente escludendo o minimizzando uno dei due àmbiti.

    Un imbarazzo del genere vale anche per un altro concetto, vitale per l’esperienza di fede e per le dinamiche ecclesiali: quello di eresia. Tutti i credenti hanno il concetto di eresia e molti saprebbero anche indicare (perfino con una certa correttezza di fondo) le eresie più evidenti che fin dagli inizi della vicenda cristiana hanno tarlato le dottrine dei discepoli di Gesù… definire però in astratto, quasi con formalità matematica, che cosa sia una eresia è impresa tale da invitare anche le menti più eccelse della Tradizione cristiana… non a “desistere”, ma a un prudente passo di lato. Tertulliano aveva scritto il suo La prescrizione degli eretici per illustrare come si diventi tali, e Agostino si proponeva di completare il lavoro dedicando il secondo libro del suo Sulle eresie alla questione di cosa renda eretico un credente… ma non riuscì mai a scrivere quel libro. 

    A Quodvultdeus, però, che gli aveva chiesto un manuale sulla materia da applicare pastoralmente, Agostino rispose infatti così: 

    Troppo era esperto, Agostino, di quanto l’uomo – ogni uomo – fosse e sia un viator, cioè un pellegrino sulla via di casa (lo cantò anche Joan Osborne: «Just a stranger on the bus / tryin’ to make his way home» – a proposito, è blasfema Joan Osborne?) e di quanto la stessa Chiesa sia un “corpus permixtum”, pervaso da innumerevoli osmosi tra buoni e cattivi, tra bene e male… Intervenire con un taglio netto è talvolta necessario, sul piano pastorale, ma sempre molto rischioso, perché quando il marchio di eretico (o di blasfemo) venisse assegnato impropriamente si rischierebbe di perdere direttamente chi ne venga colpito e indirettamente chi sia stato ispirato dalle sue esternazioni. 

    La posta in gioco dunque non potrebbe essere più alta, e vale la pena – proprio per fare una salutare tara al nostro giudizio teologico – chiederci se e quanto, difendendo i “diritti di Dio” non lamentiamo piuttosto di non essere presi sul serio noi, e riveriti e rispettati. Preoccupazione che, nei discepoli del Crocifisso-Risorto, sarebbe se non propriamente blasfema sicuramente sciocca e triste. 

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