Di Francesca Centofanti
Ogni volta che inizia la quaresima, un memoriale mi risale su. Sono quei momenti gravidi di Cielo, che mi tengono aggrappata alla Chiesa e a Cristo. Istanti in cui ho potuto assaggiare a grandi morsi la concretezza, la presenza, l'esistenza di Dio. Ed avere la certezza di non essere stata fregata. Mai.
Era febbraio, il 1996.
Mancavano 5 mesi al mio matrimonio. Avevo scelto il vestito, trovato la chiesa, la location, la casa in affitto, insomma tutto programmato - non alla perfezione, perché io sono una pasticciona "sciallara" antiperfezionista, ma era davvero tutto programmato.
Dopo 5 anni di fidanzamento non è che c'è tanto da pensarci su. Va un po' da sé che se ci si vuole bene, ci si stima brave persone, ci si piace un po' in ogni senso, ci si, ci si, ci si.... a forza di ci si, alla fine ci si sposa.
E in quei "ci si" io ci ero caduta dentro, con tutte le scarpe. Le cose stavano semplicemente accadendo. Ed io non me ne accorgevo. Appariva tutto così naturale, consequenziale.
La mia terribile paura di rimanere da sola era nascosta ben bene sotto cumuli di insicurezza, di "a livello fisico ci prendiamo", di "è un bravissimo ragazzo, cosa potrei volere di più", di "sono cinque anni che stiamo insieme". Sommersa da tutti questi ragionevoli motivi, il pensiero di chiudere quella storia non mi aveva mai neanche lontanamente sfiorato. Nonostante tutto, stavo bene. Anzi, mi reputavo già fin troppo fortunata, dopo un'adolescenza incasinata come la mia, ad aver trovato un ragazzo per bene che voleva sposare proprio me. Io, che meritavo di certo nulla di più.
E invece arriva la missione.
La missione a San Lorenzo in Damaso - ancora mi chiedo come mi sia venuto in mente di accettare quell'invito (alcuni di questi sì, li capisci solo a follia compiuta).
Nel frattempo mi ero allontanata un po' dalla Chiesa, perché nel fidanzamento con una persona che non frequenta, se sei fragile, il più delle volte non sei tu a trascinare dentro lui, ma lui che tira lentamente fuori te. Un'uscita di scena apparentemente indolore.
Ma in quell'attimo mi scappò un sì. Solo dopo capii come e perché.
L'incontro era a Piazza di Spagna, sabato sera. Il Sabato Sera. Non so se ricordiamo di cosa si tratta.
Nei Sabato sera della Roma di 25 anni fa c'erano gli assembramenti più meravigliosi del mondo (sinceramente, in quel frangente, un po' di deserto da Covid non lo avrei disprezzato).
Il nostro gruppo di giovani si affaccia timidamente in uno dei pub della zona. José, il presbitero che ci guida, si avvicina al proprietario e gli bisbiglia qualcosa nell'orecchio (tipo: "puoi abbassare la musica, perché c'è una ragazza che vorrebbe parlare un attimo" - l'ho saputo solo dopo, grazie a Dio).
Le luci erano basse e non potevano notare il rossore tendente al violaceo delle mie guance roventi. Ma il silenzio era assordante. E la mia voce, da sola, rimbalzava da una parete all'altra del pub (mi avevano gentilmente prestato anche un microfono, sicuri di farmi un favore, mentre io me li sarei letteralmente magnati - in gergo romano vuol dire che mi avevano fatto un po' alterare).
Non ricordo niente di ciò che dissi.
Ricordo solo di aver capito lì, in quell'istante, dentro quella apparente follia, mentre parlavo, che non potevo più fare a meno di Cristo. Che se ero ancora viva, se ero lì a raccontare a quegli sconosciuti la mia felicità (che fino all'attimo prima neanche io avevo capito di avere), era perché Qualcuno mi aveva salvata. Da tante cose, umanamente troppe per non dirle. Anche dalla morte. Salvata.
E da quella sera, in quel pub, tutto ha cambiato forma, profumo, sapore.
Tornata a casa, guardavo i miei genitori. Il loro matrimonio. E adesso che toccava a me, li osservavo assetata. Guardavo il loro andare oltre. Il loro essere felici, nonostante. Il loro amarsi anche quando non c'era niente di amabile. Il loro perdonarsi.
E dopo quella sera, tutto mi fu chiaro.
I miei genitori non erano supereroi, non avevano trovato l'anima gemella. Non gli aveva, semplicemente, detto bene con il partner.
No.
Loro avevano fatto una scelta. Ben precisa: avevano deciso di sposarsi in tre: Giuliana, Antonio e Cristo.
Ecco. Io, uscita da quel pub, ho capito che volevo quello. Nient'altro.
All'improvviso tutto mi era chiarissimo. Ma avevo una paura terribile.
La mia paura, la solitudine.
Ma poi, ancora, arriva una parola. Isacco. Il monte Moria.
Mi fido.
Ho tutto da perdere (oltre alla figuraccia di mandare tutto all'aria) e il nulla che mi attende. Ma ho una certezza nel cuore: un desiderio profondo. Condividere la mia vita con qualcuno che capisca quell'amore folle che provo per Dio.
E immolo questo Isacco, il mio matrimonio, con le mani tremanti, ma certe. Lascio tutte le mie sicurezze. E mi sento finalmente, per la prima volta libera. Non ho più paura di rimanere sola.
Dal mio monte Moria scendo. Ma a braccetto con Cristo, sostenuta.
E poi, in un attimo, arriva il centuplo. Mio marito. Il nostro amore imperfetto, sorretto da Dio. I figli. E tutto si compone.
E ogni quaresima, mi risale su questo memoriale.
Ho mandato all'aria un matrimonio, dopo una serata al pub, ma Dio quel sì lo ha preso sul serio e ci ha fatto delle cose davvero meravigliose.