Nella società pluralistica di oggi, il cristianesimo cattolico è una delle tante voci sull’amore. Sanremo evidentemente ha una visione tutta sua, magari costruita proprio in contrapposizione polemica nei confronti del “sistema religioso cattolico” che avrebbe imposto uno schema ingabbiante sull’amore e sul sesso. Nonostante che si faccia cantare a Orietta Berti l’amore che dura – “l’amore che mi dai è quello che vorrei” e “da quando mi hai detto ti amo, da allora niente è cambiato” - oppure Ornella Vanoni sull’amore incondizionato, anche attraverso queste due bravissime artiste, per la loro veneranda età, il messaggio passa chiaro e diritto, senza equivoci: “quella cosa lì, è roba del passato remoto”. Sanremo, invece, vuole parlare alle giovani generazioni e lo fa con i giovani cantanti, scegliendo Achille Lauro per proiettarsi nel futuro, con una proposta che suona come il refrain della canzone vincitrice dei Maneskin: “Siamo fuori di testa, diversi da loro”.
D’altronde, è vero, nello spazio di esperienza “posta in essere” da Gesù di Nazareth, e il suo Dio, è impossibile riconoscere arbitrarietà nell’amore (anche nell’amore sessuale) e, dunque, nel godimento e nel piacere. Nella Lettera a Diogneto, i cristiani sono presentati come gente normale che mangiano come gli altri, vestono come gli altri e con gli altri hanno tutto in comune “eccetto il talamo”. E si sa quanto Gesù stesso scandalizzò i discepoli quando dichiarò “indissolubile” il matrimonio tra un uomo e una donna
Dio è amore, questo è l’annuncio del Vangelo e non viceversa. L’amore è dio non è il cristianesimo, magari è il messaggio che Achille Lauro ha voluto comunicare, e che Sanremo ha sposato, organizzando la sua presenza stabile per tutte le cinque serate. Lasciamo sullo sfondo la domanda “su chi ha sfruttato chi” e prendiamo atto di ciò che è apparso sulla scena del teatro Ariston: diversamente dagli Achei che conquistarono Troia grazie al cavallo di Ulisse, Achille entra senza alcuna astuzia a Sanremo, accolto anche con la marcia nuziale come una sposa.
Da qui l’interrogativo in un ipotetico dibattito pubblico, in un confronto ad “armi pari” tra gli attori dell’attuale scena del mondo: chi può stabilire cos’è amore?
Per un credente è Dio che stabilisce chi è amore e dice d’essere proprio Lui (Dio è amore), autocomunicandosi agli uomini nell’evento di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio morto per amore, cioè per manifestare com’è Dio dall’eterno, amore così, come lo vedi sulla croce di Colui che dona la vita, spingendo il gesto del dono fino alla morte. Non è, dunque, l’amore (il cui significato ognuno elaborerebbe da sé) a essere dio. Perciò, il dio che benedice “chi se ne frega, chi è, chi è incompreso e chi gode” – secondo la notizia liberante di chi è” tutti e nessuno” ma anche “peccato e peccatore” -, è un dio fatto a propria immagine e somiglianza: è il dio di Achille ed è lo stesso io di Lauro (cioè “grazia e benedizione”). Achille Lauro nuota comodamente nello sconfinato oceano delle braccia di Narciso e si ubriaca con Bacco.
Il Dio del Vangelo vuole salvare tutti gli uomini, cioè vuole far splendere in ogni uomo la pienezza dell’umanità, in una vita traboccante e perciò mostra “come” fare per incamminarsi sulla via della verità che è questa vita eterna già nel tempo. Invece, Achille Lauro non vuole sapere il “come” da Dio, forse perché vive in un tempo che da un secolo ha annunciato la “morte di Dio”, con Nietzsche e ancor prima con Leopardi (secondo Emanuele Severino). Invoca però la salvezza, in Solo noi canta: «No, non chiedermi come, come, no/ Salvami te, salvami te/ Salvami te, salvami te». A chi si rivolge? Lacrime di sangue sono apparse sul viso del cantante che conclude con un monologo, una lettera del mondo all'umanità: «scostante, aliena, trafitta, io so come ti senti, sono qui trafitto nei tuoi preconcetti, aiutami, perché ne ho bisogno, come si ha bisogno dell’abbraccio di una madre. Non dimenticare chi eri. Tu sopravvivevi perché ti bastava un abbraccio. Io sarò lì per guardarti amare di nuovo».
E come non concordare! Una umanità che finalmente ritorni ad amare può salvare tutti e ciascuno. E ritorna ancora l’interrogativo: come deve essere l’amore perché l’amore sia come deve?
Adesso che è già passato, Sanremo è accaduto ed è tale com’è stato. Non poteva essere diversamente. Si osservi però che Sanremo ha già molti volti: non è solo Amadeus e Fiorello e tutti gli altri, come Zatlan, campione di successo che è stato proposto ai giovani quale modello di riscatto, perché “tutti ce la possono fare”: occorre solo avere disciplina e il coraggio di un impegno per raggiungere la meta, solo apparentemente impossibile di una umanità bella e buona e realizzata.
Così attraverso tanti ospiti, lo spettacolo sanremese pretende interrogare, stimola la riflessione, quella sorta di “dialogo interiore” che sarà performante per tanti ragazzi e giovani che lo hanno seguito attraverso i social e se ne sono entusiasmati. La questione allora è delicata, in una società pluralistica, nella quale questo spettacolo non potrà inevitabilmente essere “neutrale” rispetto ai tanti pensieri in circolazione. Certo, nella selezione delle canzoni si sarà tenuto conto della varietà dei punti di vista, dell’urgenza di mettere “in gioco” prospettive culturali e mondi diversi. Tuttavia, quando il “contenitore globale” è stato riempito e offerto al pubblico, Sanremo si sviluppa “secondo scaletta”, di cronometro (tempi contingentati); ma anche seguendo quella “misura interiore” del Messaggio che si è deciso di trasmettere: messaggio con la “M” maiuscola, perché sarà la somma di tutti i singoli messaggi che, tra monologhi e performance di artisti, deve passare. Chi decide il Messaggio? Per esempio, quest’anno – mi pare- è stato la battaglia contro la misoginia e la valorizzazione delle donne per il nostro futuro. Ed è evidente, lapalissiano, il Messaggio oppure è solo quella parata accettabile allo scopo di veicolare ben altri messaggi (subliminali) con la velocità spaventosa di un virus (letale), senza chiaro riferimento alla Covid-19 e alle sue varianti.
Il rischio è che le canzoni stesse diventino strumentali alle performance degli artisti e non viceversa, come pure sembra apparire. E’ questo è accaduto con Achille Lauro, per la sua bravura e le sue provocazioni di “folle creativo”, ma soprattutto perché, programmaticamente, gli si è dedicato tutto il tempo-spazio necessario per sviluppare in progressione il suo unico discorso sull’amore “senza generi”, dunque “libero” anche dai molteplici generi pur accumulati nella lista LGBTQ come nuova grammatica dell’umano: grammatica ovviamente indigeribile per il mondo cattolico, ma – spero di intuire bene- nemmeno per il mondo gender, arcobalenicamente variegato.
La Pop-Theology- “carità intellettuale al servizio della gioia del Vangelo” - ha il dovere di avviare quel doveroso vaglio critico, per aiutare la gente comune (cristiana o non cristiana che sia) a comprendere meglio il Vangelo di Gesù perché non venga “rifiutato” o “deriso” o “banalizzato” semplicemente perché si pretende “negare” tante forme del suo mascheramento (cattolico e non). Nel Manifesto della Pop-Theology in dieci punti è scritto al n. 5: «Pop-Theology non è citare una canzonetta del cantante, ma piuttosto rispondere criticamente a interrogativi che interpellano il vissuto popolare della fede cristiana».
Da questo versante, oltre ogni doverosa indignazione per tanta gente che si è sentita ferita per linguaggio e icone blasfeme, Sanremo va considerato, perché è un evento nazional popolare che quest’anno ha coinvolto molto di più i giovanissimi. E vanno ascoltate le canzoni proposte: in esse, infatti, passano messaggi per la vita, emozioni che cambiano i sentimenti e i modi di pensare; perché quelle parole e quelle note “bombardano”, attraverso l’ascolto, i miliardi di neuroni e di connessioni neuronali di cui è costituito il cervello, sede misteriosa dell’elaborazione di nessi che incidono nella coscienza di ognuno. Non volerlo riconoscere- tanto più che su questo possiamo appellarci agli scienziati e ai loro studi sull’ “informazione rilevante” della nuova fisica, la meccanica quantistica- significa mettersi “le banane davanti agli occhi” e perdere così di vista la realtà reale, la condizione effettiva di giovani in crescita non solo fisicamente, ma psicologicamente e spiritualmente.
Dal punto di vista dell’indagine teologica, pertanto, non si dovrà necessariamente insistere nella ricerca quantitativa: se e quanto volte viene citato Dio nei testi proposti (cosa per altro da farsi, per necessità) o se Amadeus mostra di credere davvero, in quel segno di croce all’inizio del Festival che non sarebbe dunque scaramanzia pura, ma qualcosa di più, anche se viene spiegato con il segno di croce dei calciatori all’inizio partita. Si tratta invece di recuperare quella dimensione interiore che interessa la fede e il Vangelo: l’umano dell’uomo alla ricerca di sé; quell’umanità che si sforza di dirsi con parole sempre inadeguate; quei cuori feriti per amori perduti e che confessano perché “si poteva e doveva fare di più” (Arisa); in particolare, la relazione umana di affetto e di amare che resiste e si intensifica anche nella morte, come nella canzone vincitrice delle nuove proposte, Polvere da Sparo di Gaudiano: “e mi brucai il cuore perché non ti ho detto quanto ti abbia amato… se mi guardo allo specchio io vedo te”.
La pandemia ha interrotto di colpo i nostri movimenti globalizzati. Tutto fermo, e tutto chiuso e un immenso disagio psico-dinamico ha attraversato le persone, per quel bisogno di comunicare “corporalmente”, di socializzare proprio degli umani. La bellezza collaterale di questo “disastro umano” (che è né da valutare solo in termini di crisi economica, ovviamente) è che bel mezzo di questa paralisi ci si rende conto che la frenesia di un tempo ci aveva fatto perdere i sapori e i profumi delle esperienze essenziali della vita, il senso stesso della quotidianità da cui si fuggiva: senza considerare che – così facendo- si ci stava perdendo nelle cose più belle e più care, i nostri affetti, la nostra capacità di amare e soprattutto di ricevere amore.
Quando, come e perché si resta umani? Con quali parole e con quali poesie si esalta la bellezza e la perfezione dell’umanità? Con l’amore che è bello finché dura (Verdone) o con l’amore incondizionato, cantato dalla splendida (seppur anziana) Vanoni? Sanremo resta uno spettacolo da “godersi” appunto, da/per tutti coloro che cercano le parole giuste per ricostruire la grammatica semplice della propria umanità. È una ipotesi di lavoro promettente per il futuro.