Leggendo la breve descrizione di questo profilo professionale, astro nascente dei lavori del futuro, non ho potuto che provare una sorta di sconsolata tristezza. Transitoria, per carità, perché ho in tasca l'antidoto.
Sì perché, a voler ben guardare e senza essere troppo iperbolici, si tratta di veleno. O almeno di una colossale fregatura: sentite come viene presentata la necessità di questa nuova figura e ditemi se non vi si stringe subito un magone in gola.
O non vi tornano in mente, per chi lo ha letto, le pagine di Wallace nel suo Una cosa divertente che non farò mai più ( libro nato da un incarico "redazionale" per cui lo scrittore, ospite di una lussuosa crociera per benestanti americani, racconta la disperante ossessione di tutto il personale per "coccolare" il cliente)
Futuri Chief Happiness Officer alla lettura, eccovi serviti:
Allora, per carità, è bellissimo lavorare in un ambiente gradevole, in un clima costruttivo e disteso (o teso il giusto), dove ci si sente apprezzati per i propri talenti e si vedono riconosciuti i propri meriti.
Già mi immagino distese di open space luminosissimi costellati di zone pennichella a loro volta punteggiate di poltrone a sacco.
Luce naturale che piove da finestre sempre pulite, frasi motivanti, e mai per nessun motivo la scritta appesa con nastro da pacco, che recita "è guasto".
Abbandonata la cornice militare entro la quale si è formata la cultura manageriale , ecco che i capi, camicia slacciata o polo informale, non fanno che chiederci - dandoci del tu - cosa ne pensiamo, qual è la nostra idea in proposito, come vediamo il futuro del business.
Coffee break senza coffee ma solo orzo e ginseng ; superfood alle macchinette, acque arricchite di minerali e vitamine.
Obiettivi ambiziosi, risorse e spazi a nostra disposizione per inseguire intuizioni. Bellissimo, non vedrei l'ora, se fossi ancora neolaureata a rischio stage "per fare curriculum" di entrare in una realtà così e di "lasciare il segno".
Invece ora no, mi provoca un reflusso di tristezza e ribellione. Non rimpiango affatto i mordaci anni duemila tutto sfide da vincere e impossible is nothing.
Il problema è che la ricerca della felicità data in outsourcing o affidata agli esperti, tradotta in competenze e meta competenze è una felicità impossibile, una contraddizione in termini. Non fa che precipitare ulteriormente l'autostima se persino la cosa più importante della mia esistenza deve essere gestita o "implementata" da qualche esperto.
La felicità è per definizione fuori mercato, non può essere prodotta né prescritta (non lo si dice più, ma va conquistata e incontrata!)
Una cosa in qualche modo è vera, però: il benessere personale, prodromo di una certa piacevolezza del vivere, nasce dalla disciplina. Ma la felicità quella vera scaturisce dal significato chiaro e certo di agire per uno scopo e che questo sia all'altezza del nostro essere. E nasce dalla durezza, dalla fatica, dalla pazienza, da una sequenza di fallimenti che non ci schiacciano, di frustrazioni a cui non lasciamo avere la meglio.
Se penso a qualcuno felice la seconda persona che mi viene in mente è San Francesco e la sua folle descrizione di cosa sia questa cosa strana e inafferrabile che tutti cerchiamo finché abbiamo fiato in gola e che lui chiama letizia, anticipo di una beatitudine che questo world non è abbastanza wide per contenerla tutta (e allora la cerca sul web).
Dico la seconda persona perché la prima è mio figlio che non vede, non parla, non sa stare seduto né imparerà mai, non riesce a liberarsi nemmeno del fastidio di una mosca sul viso eppure è felice. Non sarà nell'organico di nessuna azienda, perché non è "produttivo"; a meno che non consideriamo tale la nostra famiglia: un'impresa, a tratti eroica come sono tutte le famiglie, più ancora di questi tempi.
Se potessimo fare un bilancio del suo contributo in termini di felicità familiare (ma sospetto un effetto alone molto più ampio, intorno a noi) direi che diventerebbe subito, per merito indiscusso, il nostro socio di maggioranza. Nessuno come lui riporta armonia, voglia di ridere, gioia di stare insieme; nessuno ci ricorda con più autorità e indiscusso carisma che la cosa più importante è lasciarsi amare e ricambiare come si può.
Ci sono aziende vere, gruppi internazionali addirittura, che hanno messo così al centro la persona e il suo valore indisponibile e la necessità di lavorare per ognuno, qualsiasi sia il suo livello intellettivo o motorio, che di persone con disabilità gravi ne assumono 5 volte il numero imposto per legge. E fanno profitto, non beneficienza.
Esiste già da decenni ampia letteratura - e sua versione ridotta in Power point, sull'importanza decisiva della chiarezza di uno scopo, nel lavoro, di un obiettivo alto e condiviso, di una visione, di ideali da perseguire insieme.
C'era già anche il consulente esperto di cultura d'impresa e di qualità del clima interno.
Mancava (ci mancava?) il manager della felicità ed è un'evoluzione tragicomica, se male intesa. Così come lo sono i life coach.
La nostra radicale insoddisfazione di esseri umani dalla natura tanto larga perché capace di infinito non sarà mai placata da una serie di accorgimenti ambientali: più creatività qua, meno pressione di là, via la competizione agguerrita, si faccia entrare la cooperatività.
Siamo fatti in modo complesso, noi uomini; non ci basta che funzioni, deve essere vero. Ciò che ci basta è solo la totalità, persino nel lavoro.
In questo Leopardi è ancora una vera avanguardia, altro che scienza della felicità. Viva la noia, se dice la verità su di noi.
Vogliamo la verità, vogliamo che la vita, per quanto ostile, dura, piena di incertezze, abbia un senso.
Non ci servono esperti ergonomi delle sensazioni.
Per essere felici, seppur parzialmente, anche nel lavoro serve che esso sia obbedienza alla nostra dimenticata vocazione di quasi creatori, artefici almeno. Che ci permetta di esercitare quella strana somiglianza che sappiamo intrattenere con Dio in persona.
Il lavoro, dunque, non va solo organizzato e reso gradevole. Va riconosciuto come bisogno, va offerto come soccorso, implorato come il pane, creato da zero se manca.
Che poi, a vedere i dati tragici della povertà che avanza per focolai virulentissimi e che ha portato il numero di italiani in povertà assoluta a 5 milioni, ciò che serve innanzitutto è la dignità di un lavoro, per quanto umile, che permetta a tutti di sfamare e custodire le proprie famiglie.
La felicità che il manager dovrebbe promuovere è forse alla fine un piacere un po' più articolato, un cocktail di reazioni chimiche più complesso ma pur sempre materiale. Più che manager sarebbe un ergonomo delle sensazioni.
Mentre essa deve essere propria del lavoro stesso, per la sua bellezza intrinseca o per ciò che viviamo nel cuore come suo significato, anche fossimo costretti ad un lavoro orribile.
Immagino Teresa di Calcutta quando ci mise ore a ripulire un povero moribondo raccolto ai margini della strada. Era un lavoro in sé disgustoso ma per ciò che serviva era alto e nobile come l'incoronazione di un re la notte di Natale.