Il 33º viaggio apostolico di papa Francesco, da poco conclusosi con il rientro a Roma dall’Iraq, è stato accolto dai media occidentali un po’ come il seme della celeberrima parabola di Gesù (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15):
È dato sperare, evidentemente, che ancora e sempre sussistano i semi silenziosi che cadono sulla terra buona – «gli occhi dei poveri piangono altrove» (De André) – e che portano frutto secondo l’intenzione del Grande Seminatore. Tali frutti si manifesteranno solo nel tempo, dunque alla data odierna non si possono formulare se non voti e auspicî.
Neppure Pietro ha bisogno di apologie, mentre è pienamente sensato chiedersi – a consuntivo di un’impresa apostolica evidentemente importante – quale sia stato lo stile evangelico scelto dal successore del Principe degli Apostoli. Abbiamo quindi trovato interessante e utile raccogliere i passi in cui Francesco ha parlato di Gesù in Iraq, per provare ad abbozzare “la cristologia del viaggio in Iraq”.
Sorvoliamo (è il caso di dirlo) sul colloquio coi giornalisti all’andata, da quanto lo stesso è stato poco più di un cordiale ma formale saluto. Il primo importante evento pubblico è stato l’incontro con le Autorità di Stato e col Corpo diplomatico accreditato in Iraq. Lì si trova una diffusa introduzione teologica e religiosa – in un Paese occidentale l’avrebbero forse giudicata “lesiva della laicità secolare” – al cui culmine Francesco presenta sinteticamente sé stesso, la propria missione e dunque il proprio Mandante:
“Vengo come pellegrino”, ha detto – non come capo di Stato o come leader religioso –, e “a chiedere perdono”; ma “in nome di Cristo”, definito “principe della pace”. La citazione esplicita di Is 9,5 sfrigola come la miccia di una bomba che racchiude tutta la deflagrante pretesa dell’annuncio cristiano:
Era difficile pensare di dire di più alle autorità civili, sociali e diplomatiche di un Paese di cristianizzazione remotissima, sì, ma in entrambi i sensi della parola (specie dopo le scorribande dei tagliagole dell’Isis). Parlando invece con il “piccolo resto” del “vero Israele” pellegrino in Iraq, Francesco ha sbottonato più generosamente la pettorina che gli serrava il cuore:
“Testimoniare l’amore di Cristo ovunque e in ogni tempo” è il compito principale dei cristiani e della Chiesa, dice Francesco; ciò avviene anzitutto condividendo le gioie e le sofferenze di tutti, soprattutto dei membri più esposti del Popolo di Dio.
In questo discorso “a porte chiuse” la cristologia di Francesco si declina più nella testimonianza ecclesiale che nella dogmatica – che resta sottesa ma (considerato il contesto) data per assodata. Il sottotesto è quello di una cristianità frammentata e pervasa (per quanto consenta l’esiguità delle forze lo consenta) da reciproche rivalità: il Papa ricorda che il superamento di quelle antiche contese è la profezia di cui l’Iraq – come angolo prossimo di mondo – ha bisogno.
Tornando sui confratelli nell’episcopato, invece, il discorso nuovamente tracima dall’ecclesiologia alla cristologia: il vescovo dev’essere per tutto il popolo – e a cominciare dal presbiterio – «segno visibile di Gesù Buon Pastore, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro». La missione di Cristo nel mondo è anzitutto servizio, dono, riscatto incondizionato: quando i suoi discepoli a loro volta vivono come il loro Maestro vengono riempiti di una Gioia che invita gli uomini a interrogarsi e li attrae.
L’indomani Francesco si è recato da Baghdad alla Piana di Ur, dove – contestualmente all’Incontro Interreligioso del 6 marzo – si è registrato l’unico discorso del viaggio apostolico in cui non è mai risuonato apertamente il nome di Gesù Cristo.
Francesco ha scelto invece di impostare il suo discorso tutto su Abramo, in una “composizione circolare” che partiva da Gen 15 e che lì tornava a concludere. Una scelta quasi obbligata, dato il contesto spaziale (oltre alla circostanza). La scelta di Abramo e il poetico e reiterato riferimento alle stelle (citate 11 volte nel discorso) pone però il tema in chiave di promessa e di profezia:
Il telaio del Papa era naturalmente fornito dalla Lettera ai Romani (anche citata nella lettera) e dalla Lettera agli Ebrei – entrambi testi che additano Abramo come destinatario della promessa che si compie in Cristo.
Da un lato Francesco “non poteva” impostare un discorso del tipo “voi siete tutti in un vicolo cieco, i veri figli di Abramo siamo noi” (perché falso e quindi infruttuoso); dall’altro è stata interessante la sua scelta di svolgere nel futuro le profezie messianiche (anche Is 2 qui riportata). Una scelta intelligentemente profetica perché Francesco non ha additato a quelle persone il Messia come un personaggio storico, del passato, ma come il Destino che sta davanti a loro e a cui tutti gli uomini sono destinati: collaborare perché si compiano le profezie messianiche significa precisamente disporsi a vedere l’adempimento della promessa fatta ad Abramo.
Di Gesù il Papa avrebbe parlato del resto, e con abbondanza, quello stesso giorno, di ritorno a Baghdad, durante l’omelia pronunciata nella Cattedrale Caldea dedicata a San Giuseppe. Commentando Sap. 6,6 – «gli ultimi meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore» – Francesco ha continuato a parlare della progressione manifestata nell’economia divina e culminante in Gesù:
Qui la cristologia diventa manifesto di teologia politica improntata alla mitezza: che le promesse di Dio non siano vane Francesco lo attesta alla comunità (ecco il “confermare nella fede”) proprio a partire dalle storie di resilienza, di resistenza, di confessione, di conversione che egli – Pietro – ha potuto vedere passando in quella porzione del Popolo di Dio.
Gesù è detto “la Sapienza in persona” – titolo cristologico tra i più alti – ma ciò significa che vivere secondo quella Sapienza significa vivere con Cristo e anzi lasciarsi inabitare da Cristo, ed è così che – a immagine di Cristo – si diventa testimoni di Dio e, così, beati.
La confessione del nome di Gesù non è mai una mera questione di idee, di convincimenti, ma opera una concreta trasfigurazione della vita che supera d’un balzo i falsi dilemmi mondani – “mi conviene? non mi conviene?” – per approdare a un sublime “questa vita è bellissima”.
L’indomani – domenica mattina – papa Francesco si è recato tra le macerie di Mosul per una Preghiera di Suffragio per le vittime della Guerra. Il luogo scelto è stato la Piazza della Chiesa, sui cui lati sorgevano quattro chiese cristiane di diverse confessioni (tutte attualmente danneggiate o semidistrutte): da una parte dunque si era evidentemente in un contesto cristiano, dall’altra l’allocuzione avveniva da una piazza, luogo pubblico e “profano” per eccellenza. Francesco ha qui scelto di non parlare ai soli cristiani o dei soli cristiani, ma di coinvolgere tutti – come si addiceva alla piazza – nella preghiera al Dio di Gesù Cristo – come si addiceva alle chiese.
Tre frasi che potrebbero suonare (peraltro senza esserlo davvero) ovvie fuori da un Paese coperto dalle cicatrici dell’islamismo, ma che in una roccaforte mondiale dell’Islam Sciita significano un fermo invito a operare una revisione radicale dell’esegesi di alcune note Sure del Corano. È stato uno dei momenti in cui Francesco si è “spinto” di più nei confronti dei suoi ospiti.
In quello stesso giorno domenicale Francesco si è recato a visitare la comunità di Qaraqosh, una delle città a più forte maggioranza cristiana (perfino ora che la stessa è più che dimezzata): il contesto era dunque quello di una comunità confessionale cristiana, in cui Francesco era riconosciuto e accolto come Pietro, ma pure quello di una comunità cittadina devastata e che stenta a rimettersi in piedi.
A costoro Francesco ha annunciato l’Evangelo di Gesù che è il Dio-con-noi, e lo ha fatto raccogliendo dall’assemblea i segni della presenza e dell’azione del Risorto: se perdonare è infatti necessario per restare cristiani, ciò è pure impossibile senza lo Spirito di Cristo.
Nel medesimo contesto è stata recitata anche la preghiera mariana del mezzogiorno, e questo ha offerto a Francesco l’occasione per una digressione mariologica:
Il momento più apertamente kerygmatico della visita apostolica del Papa in Iraq è stato indubbiamente toccato nella messa domenicale (quale momento più “kairologicamente” appropriato?), quando a partire da 1Cor 1,24 – «Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» – Francesco ha ricordato con la massima schiettezza che nulla di tutto quanto si era detto e considerato fino ad allora era possibile senza Cristo. E non “senza la sua dottrina” o “senza il suo esempio”, senza “la sua ispirazione” (intesa “da influencer”):
Il cristianesimo, come risuona da questo annuncio, è un evento carismatico e apocalittico benché perfettamente inserito nella realtà mondana («come è l’anima nel corpo», secondo l’anonimo A Diogneto): la Risurrezione di Cristo è il perno che rende stabile per sempre ogni umana fragilità, purché questa si lasci pervadere dallo Spirito che Dio desidera diffondere attraverso la storia su ogni creatura.
Lungo il viaggio di rientro a Roma, i giornalisti non si sono attardati a porre questioni teologiche, ma rispondendo al libanese Imad Abdul Karim Atrach (Sky News Arabia) Francesco ha svolto una considerazione che chiamava in causa anche il portato dogmatico della sua visita:
Da una parte il progresso nel dialogo tra cristiani e musulmani: prima il documento di Abu Dhabi, ora l’incontro con al-Sistani. Dall’altra – e il Papa iscrive quello in questo – il progresso nella coscienza degli stessi discepoli di Gesù. Impossibile affermare apoditticamente che le guerre di religione siano estranee ai cristiani, e il pensiero va a storie ben più recenti delle crociate medievali. Impossibile affermare senza sfumature che “noi cristiani porgiamo l’altra guancia, i musulmani no”: i cristiani hanno ricevuto questi insegnamenti salutari mentre altri no (ma ciò li rende semmai ancora più colpevoli quando non li vivono), e non di rado capita che si sforzino di vivere bene perfino coloro che non hanno riconosciuto in Gesù il Maestro e il Messia.
Uno storico del cristianesimo ha giustamente deprecato la distrazione e la superficialità con cui i media occidentali (specie quelli statunitensi conservatori, che con l’Iraq avrebbero un enorme merito geopolitico) hanno osservato e narrato il pellegrinaggio apostolico di Francesco sui passi di Abramo.
Lo stesso personaggio ha però avuto il torto di porre il magistero iracheno di Francesco in discontinuità con la lezione di Ratisbona di Benedetto XVI – laddove un noto giornalista italiano aveva paradossalmente profetato addirittura in anticipo che quello sarebbe stato il prosieguo di questa. Basta tornare all’affermazione centrale di quella chiacchierata e (colpevolmente) trascurata lectio per capirlo:
Quel che certi storici sembrano non voler capire è che la vera opzione ermeneutica, nella storia del cristianesimo, non si dà tra “uguaglianza” e “differenza”: Benedetto XVI si era infatti voluto custode della riforma nella continuità, non di uno sterile ripetersi dell’identico (mentre lo zelo di costoro nell’evidenziare fratture – effettive o presunte – li fa sembrare sacerdoti della discontinuità). Ed è difficile – oltre che contrario a tutte le evidenze – pensare che questa possa essere la via della pace (e del suo Principe).