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I nostri quattro anni con Benedetta affetta da patologie gravissime

FAMIGLIA PITACCOLO,
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Silvia Lucchetti - pubblicato il 02/03/21
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La testimonianza di una coppia di sposi con tre figli che ha accolto in affido una bambina di due anni. Benedetta non vedeva, non camminava, non parlava, ma ha aperto il cuore della loro famiglia e di tutte le persone che l’hanno incontrata.Oggi vi raccontiamo la storia di una bambina, Benedetta, affidata ad Elena e Andrea che sono stati i suoi genitori fino alla sua nascita al Cielo. Quando ho chiesto ad Elena se lei e il marito fossero disponibili a donare la loro testimonianza l’ho fatto sulla scia di una mia domanda. Dopo aver letto un post su Facebook scritto da Elena nel quale condivideva la gioia donata da questa figlia mi sono chiesta: chi era Benedetta?

Una bambina affetta da anencefalia parziale e idrocefalia complessa, che non vede, non parla, non cammina, cosa può donare? Cosa può dire al mondo? Cosa può fare? Forse qualcuno risponderebbe poco e niente. E invece Benedetta ha aperto il cuore di un’intera famiglia e quello di tutte le persone che ha incontrato.

Dal personale medico che si è occupato di lei quando i genitori l’hanno abbandonata in ospedale, ai fratelli che ha trovato quando è arrivata in casa di Elena e Andrea, ai giovani della parrocchia che passavano ore nella sua stanza e l’hanno accompagnata con canti e preghiere il giorno della sua morte.

Ecco cosa mi hanno raccontato, ringraziandoli con tutto il cuore del dono grande che ci hanno fatto.

Cari Elena e Andrea, presentatevi

Ciao, siamo Elena e Andrea sposi da 20 anni, ora ne abbiamo 44 entrambi. Ci siamo incontrati e fidanzati a 16 anni. Abbiamo avuto la Grazia di conoscere due grandi amici del Signore, don Bosco e don Oreste Benzi. Vissuti in tempi diversi ma entrambi tanto innamorati del Signore da donare la loro vita a Lui.

Come è iniziata la vostra storia di coppia e di famiglia?

Ci siamo messi insieme a 16 anni, eravamo giovani. I nostri figli ricordano sempre che con mio marito non siamo stati fidanzati proprio 8 anni ma un po’ di meno, perché abbiamo avuto una pausa dove abbiamo cercato di capire se stare insieme era quello che il Signore voleva da noi. In quel periodo abbiamo avuto modo di scoprire e sperimentare il bisogno dell’altro, la mancanza, il desiderio di stare con quella persona, è stato un momento fondamentale per tutto ciò che poi è avvenuto. Abbiamo lavorato tanto su di noi durante il fidanzamento e non sono mancate le litigate, ma alla fine tornavamo sempre lì nella sete dell’altro (questo ci ha aiutato a conoscerci in profondità) e nella sete di Dio. Quando ci siamo sposati il 2 dicembre del 2000 è stato un dire di sì all’altro, ma soprattutto un dire di Sì al progetto che il Signore aveva su di noi anche se ancora non lo conoscevamo. Dopo il matrimonio dovevamo andare un mese in Bolivia con i salesiani, ci eravamo formati, preparati, ma il diavolo ci ha messo lo zampino, o almeno così credevamo allora. Oggi sappiamo che Dio aveva altri piani per noi.

Quando è nata la vostra esperienza come famiglia affidataria?

Siamo stati subito grati al Signore per il dono della maternità, e tre mesi dopo l’arrivo di Sara, la nostra prima figlia, abbiamo iniziato un corso di conoscenza dell’affido familiare: accogliere un bimbo per un periodo intanto che la sua famiglia si ristabilisce. Così abbiamo iniziato il percorso con il consultorio di Latisana. È stato un momento importante per prepararci come famiglia ad accogliere e per conoscere in profondità i nostri punti di forza e i nostri limiti, sia come coppia sia come singoli. Dopo la nascita del nostro secondo figlio Marco sono arrivati i primi affidi: famiglie che avevano bisogno durante il giorno di un aiuto. L’arrivo nel 2008 di nostra figlia Chiara è stato un dono grande.

Come è iniziata la vostra esperienza con la Comunità Papa Giovanni XXIII?

Avevamo una buona collaborazione con il consultorio di Latisana ma ci mancava qualcosa. Volevamo mettere Gesù totalmente nella nostra vita, non solo affido ma fede. La domanda che ci ponevamo di fronte a una richiesta era: “se io fossi in quella situazione cosa vorrei per mio figlio?” se la risposta era “una famiglia”, il nostro era un sì. Ma in tutto questo mancava qualcuno: il Signore. Abbiamo cercato e cercato, ma alla fine è stato Dio che ci ama tanto ad indicarci la nostra strada attraverso i padrini di battesimo di Marco e Chiara. Entrambi facevano parte dell’associazione Comunità Papa Giovanni XIII. Grazie a loro abbiamo conosciuto Don Oreste Benzi e capito che quello era il vestito che il Signore ci aveva donato.

benzi

Don Oreste Benzi

Quale senso ha per voi questa frase di don Bosco? “In ogni ragazzo, anche il più disperato, vi è un punto accessibile al bene”

È una frase che fin da giovani ci ha colpito. Anche nel ragazzo più difficile, in ogni persona, c’è il Signore. A noi sta la capacità di vederlo o meno… ma c’è. Non sono gli altri a fare la differenza ma la nostra capacità di saper vedere. E su questo dobbiamo lavorare tanto. Al tempo di don Bosco un chierico chiese a un ragazzo, Bartolomeo Garelli, se volesse servire la S.Messa. Lui rispose che non era in grado di farlo e il chierico lo mandò via malamente. Don Bosco lo fermò e dopo un po’ di domande alle quali il ragazzo rispose di no, Don Bosco gli chiese:  “Sai fischiare?”, il ragazzo rispose di sì e da quel sì nacque il loro rapporto. Don Bosco ha modificato la domanda, ha chiesto a quel ragazzo quello che lui poteva dare. Quante volte non lo facciamo e sbagliamo.

Come è entrata Benedetta nella vostra vita?

In maniera del tutto inaspettata, ma si sa, il Signore ha strade misteriose. Abbiamo conosciuto in questo percorso persone che le volevano bene e che stavano cercando per lei una famiglia. Benedetta una bimba speciale, con poche e incerte aspettative di vita soffriva di anencefalia parziale e idrocefalia complessa. Paroloni difficili che possono spaventare. Benedetta non vedeva, non parlava, non camminava, mangiava attraverso un tubicino (la Peg), stava in posizione sdraiata per la caratteristica forma schiacciata della sua testa. Una bambina stupenda ai nostri occhi. Non perfetta (ma chi di noi lo è?) ma fino a quando avrebbe lottato per vivere noi ci saremmo stati per lei.

Quando è arrivata la richiesta per una bambina di Roma di due anni, abbandonata dai genitori e gravemente malata, con mio marito abbiamo riflettuto. E Andrea si è ricordato che durante il corso per l’affido, quando ci chiesero che tipologia di bambino pensavamo di accogliere, così, istintivamente, rispondemmo una bambina piccola, perché avevamo una figlia di tre mesi e ci era venuto spontaneo dire così. Perciò, di fronte ai dubbi se accogliere o meno questa richiesta, mio marito mi ricordò che in quell’occasione non specificammo sana o malata, ma solo bimba piccola e che Benedetta lo era. Abbiamo compreso così che se avessimo risposto no sarebbe stato solo per paura. E perciò accettammo.

Il giorno che l’abbiamo conosciuta, siamo andati con mio marito presso l’Ospedale Gemelli di Roma dove la piccola era ricoverata. Ci accolse l’equipe che la seguiva insieme al primario. I dottori si misero di fronte a noi ed iniziarono ad elencarci i gravi problemi di salute di Benedetta, una patologia dopo l’altra, una sfilza di nomi e problemi. Mi sentii sopraffatta e ad un certo punto interruppi il medico e dissi: “se state cercando degli infermieri noi non lo siamo, ma se state cercando una famiglia eccoci qua”. Il dottore chiuse la cartellina, guardò i colleghi, me e mio marito e disse: “abbiamo trovato la famiglia per Benedetta”.


GIACOMO MARIA ACETI,
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Cosa ha rappresentato per voi e i vostri figli la sua presenza nella vostra famiglia?

Nei 4 anni che ha vissuto con noi è stata un ricettacolo di vita. I nostri figli Sara (11) Marco(9) Chiara (4) non vedevano le imperfezioni ma le volevano bene. Mio figlio Marco ad un amico che gli chiese: “Quando guarirà?”. Rispose: “non è mica ammalata, lei è così”. Con lei abbiamo sperimentato l’accoglienza della vita. Noi abbiamo detto il nostro Sì al Signore e Lui ha mandato nella nostra vita Benedetta. A ogni suo compleanno davo un bacino a Benny, e le dicevo che quello era il bacio della sua mamma biologica. Abbiamo pregato tante volte per lei e ancora oggi lo facciamo. Quanto amore e dolore deve aver provato questa mamma e forse prova ancora oggi. Alle volte è così facile puntare il dito, quasi uccidere con le parole le persone. Penso al caso di Giovannino che qualche anno fa, come Benedetta, è stato abbandonato alla nascita. I genitori sono stati “dilaniati” da mille commenti duri, cattivi che hanno solo aggiunto dolore sopra ad altro dolore.

Benedetta aveva la sua missione da compiere per noi e per chi la incontrava, alle volte dolcemente, alle volte più bruscamente. Ci sembrava quasi scegliesse le persone alle quali mostrare la sua sofferenza. A noi genitori era dato di vedere tutto e non sempre è stato facile. La cosa più difficile è l’impotenza di fronte alla sofferenza, mamma mia quanto è dura da vivere, quanto male fa. Don Oreste Benzi diceva che per stare in piedi bisogna stare in ginocchio. Quanto è vero, per riuscire a stare sotto la croce, accanto alla sofferenza, bisogna stare in ginocchio. Ci sono volte che non riesci neppure a pregare, e allora sgrani il rosario che hai in tasca per ricordare che in Lui tutto si trasforma.

È stata una grazia avere il sostegno delle nostre famiglie, dei datori di lavoro che hanno sempre permesso ad Andrea di stare a casa quando c’era bisogno, dei fratelli della comunità Papa Giovanni con cui confrontarci e cercare di ricapitolare tutto in Lui anche quando a noi veniva difficile, la nostra comunità parrocchiale di Muzzana che fin da subito grazie al nostro sacerdote e ai catechisti hanno accolto Benedetta preparando i giovani e i ragazzi al suo arrivo, e poi tanti amici che hanno pregato per noi, anche quando non ne eravamo capaci.

I giovani sono stati la carezza più grande che il Signore ci ha donato, era una sorpresa vederli venire a casa nostra e stare con Benedetta. Di fronte a una disabilità grave non si sono fermati o spaventati. Quando doveva arrivare Benedetta a casa nostra qualcuno ci diceva: “vi castrate la vita”, noi eravamo consapevoli che le cose non sarebbero state facili. La differenza l’ha fatta in positivo la società accanto a noi. Una comunità accogliente, una comunità che ti accompagna e non ti abbandona, fa ed è la differenza.

Come avete vissuto gli ultimi momenti della vita di Benedetta?

Nel dicembre del 2015 ricorreva il nostro 15° anniversario di matrimonio, e abbiamo fatto una festa per ringraziare il Signore e tutti quelli che in quel tempo ci stavano aiutando e pregavano per noi. Benedetta già non stava bene e da li è stato un continuo peggioramento, la stabilità che fino a quel momento c’era stata ormai era persa. Il 16 gennaio, giorno del suo compleanno, non avevo voglia di festeggiare ma i miei figli organizzarono tutto dicendo: “Finché Benedetta c’è, noi facciamo festa con lei”. È stato un giorno difficile per me ma anche pieno di tanta Grazia. Abbiamo avuto la casa zeppa di amici, nonni e zii il giorno intero, e la sera i nostri amati giovani tutti a festeggiare rendendo lode a Dio per la sua esistenza. Il 7 Febbraio 2016 ricorreva la giornata per la vita e Benedetta è morta. Ha aspettato che tutti i fratelli la salutassero e alle 22.30 fra le mie braccia si è lasciata andare. Eravamo a casa grazie ai medici che ci seguivano e che volevano tanto bene a Benny. Non nego che domenica mattina quando ho sentito il medico e ho capito che non mancava molto mi sono un po’ arrabbiata: “come, nella giornata per la vita io devo veder morire mia figlia?”. Mi sembrava un brutto scherzo del Signore. I giorni dopo ho capito: “chi più di Benedetta poteva testimoniare l’accoglienza della vita?”.



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Accoglienza di sua mamma che le ha dato il dono più grande mettendola al mondo, accoglienza di tutte le persone che l’hanno curata e amata quando era in ospedale. Benedetta ha anche incontrato Papa Ratzinger che si è fermato a lungo con lei e l’ha segnata in fronte con il segno della croce, dicendo: “Tu sarai Benedetta per sempre” (Il blog degli amici di Papa Ratzinger)

BENEDETTA E PAPA BENEDETTO XVI,

Famiglia Pitaccolo

L’accoglienza nella nostra famiglia (mamma, papà, fratelli, nonni, zii). L’accoglienza della vita nelle cose belle accadute, l’accoglienza della sofferenza anche nella morte vissuta nella pienezza di quello che stava avvenendo.
L’ho capito i giorni dopo perché la nostra casa era un via vai di gente, amici e giovani che ci hanno accompagnato in questo viaggio. Le chitarre suonavano, i ragazzi cantavano e pregavano di fronte al corpo di una bambina di 6 anni morta. Era possibile solo perché il Signore ha vinto la morte e lì si celebrava la vita, la vita in tutte le sue forme.

Alla luce della vostra esperienza con Benedetta quanto è stata illuminante per voi la frase di don Benzi: “Il coraggio non sta nel non avere paura ma nel vincere la paura per un amore più grande”

Chi non ha paura? Noi l’abbiamo avuta tante volte, tante volte ci sono tremate le gambe per Benedetta, ma anche per altri figli di pancia e non, a tutti i genitori prima o poi tremano le gambe. Aver paura per la strada sbagliata che può prendere un figlio, paura per un’operazione rischiosa, paura per mille cose. La paura è paura, fa mancare il respiro e sembra che tutto stia crollando, ma don Oreste diceva che non dobbiamo non aver paura ma “(…) vincere la paura per un Amore più grande”. L’Amore più grande cos’è? E’ l’amore che il Signore ha per noi. A Lui abbiamo affidato la nostra vita il giorno che ci siamo sposati, anche se ancora non sapevamo cosa volesse da noi. Da giovani ci hanno sempre detto che il Signore vuole la nostra felicità, che non significa senza far fatica o senza aver paura, ma contenti e sereni nel cuore perché certi del Suo amore.

Cosa vi sentireste di dire a quelle coppie che sentono di essere disponibili ad accogliere bambini in affido?

Quello che noi ci sentiamo di dire a tutti è di non aver paura di vivere e di dire a Dio il proprio piccolo sì. Lì dove si è in quel momento: lavoro, scuola, famiglia. Alle mamme che aspettano un figlio e hanno paura posso dire che non sono sole, di chiedere aiuto. Di contattare l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII se mai dovessero decidere di non riuscire ad accompagnare il proprio figlio nella strada che avrà. Diciamo loro: donategli la vita, perché il Signore non lascia nessuno solo. A chi sente il desiderio di accogliere: coraggio, non fermatevi di fronte alla paura ma vincetela per un Amore più grande, e se desiderate un confronto con noi siamo qua.

FRATELLI PITACCOLO,

Famiglia Pitaccolo

Cosa vi ha lasciato in dono Benedetta?

Durante la vita di Benedetta abbiamo imparato la bellezza e la sorpresa nel vedere la provvidenza vissuta come dono di Dio, come Sua carezza. Morta Benedetta ci siamo spostati in una casa più grande, dovevamo venire con Benny e per me mamma non è stato facile trasferirmici senza di lei. Eppure il Signore ci ha amato tanto da farci sentire tangibilmente la Sua presenza. Andrea ha sempre detto: “questa non è una casa ma un progetto”… non sapevamo quale. Ora siamo una famiglia piena con tre figli nostri – Sara, Marco e Chiara –  e tre bimbi accolti. Benedetta ha aperto il cuore di tutta la famiglia, ci ha modellato, e di fronte alla necessità di risposte per bimbi così complessi – proprio per tutto quello che abbiamo vissuto con lei – non possiamo dire di no.



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