La necessità di sostituire la carne suscitò creatività e attenzioni prodotti alternativi. Dietro la cucina di magro non c’è uno sguardo mortificato, ma una curiosità che valorizza.
C’era una volta il burro: il buon vecchio, caro burro.
E, incomprensibilmente, faceva schifo un po’ a tutti.
Non chiedetemi come mai: apparentemente, non ci sono spiegazioni; neppure abbiamo ragione di credere che il burro prodotto anticamente fosse di chissà quale deteriore qualità.
Probabilmente, era una banale questione di gusto: l’uomo medievale preferiva il sapore del lardo (o, eventualmente, della meno pregiata soccia, che veniva ricavata da pecore e buoi messi all’ingrasso).
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Il burro, una cosa da barbari
Ma il burro… nah: era il condimento dei poveri. Giusto i pastori, i contadini e quelli che non potevano permettersi di meglio si rassegnavano a consumarlo quotidianamente. Oltretutto, il burro era erede di una diffidenza secolare che, nella tarda antichità, lo aveva etichettato come il condimento non solo dei poveri, ma anche dei barbari.
Lo definisce così Plinio, facendone cenno nella sua Naturalis Historia; rincara il concetto Strabone, scrivendo – piuttosto esterrefatto – che i montanari che vivono sui Pirenei erano abituati a usare il burro come condimento. Cosa evidentemente sconvolgente per un Romano, che del burro faceva semmai un uso cosmetico e medicamentoso. Pare che la gente se lo spalmasse sulla pelle per nutrirla; lo si usava anche come base per pomate e unguenti. Ma metterlo nel piatto per poi mangiarlo… naaah.
Utilizzato dai barbari, schifato dai Romani, nel momento in cui le due culture si fondono il burro finisce col disgustare un po’ tutti, vittima di quella globale diffidenza che gli uomini medievali sembravano avere, del resto, nei confronti di tutti i prodotti della caseificazione.
In compenso, un uomo altomedievale non avrebbe avuto bisogno di pensarci su due volte se gli aveste chiesto qual era il condimento preferito per i suoi piatti. Il burro era robaccia indubbiamente, ma invece il lardo…!
Niente lardo in Quaresima
“Che il lardo sia la delizia dei Franchi è quasi superfluo dirlo”, scriveva nel VI secolo il medico Antimo nel suo De observatione ciborum. E rincarava: “sento dire addirittura che loro sono abituati a mangiarlo crudo, e trasecolo nel sentire che essi considerano il lardo un tale rimedio che non hanno bisogno di altre medicine”. Antimo era un medico proveniente dalla Grecia e forse proprio questo dettaglio gli permetteva di stupirsi ancora di quella passione collettiva per il lardo che ormai stava rapidamente diventando imperante in tutta Europa. Basti pensare che persino la dieta dei monaci, solitamente così severa nei confronti dei cibi di origine animale, pur limitando il consumo di carne utilizzava quotidianamente il lardo come base per la cottura di legumi e ortaggi.
A patto che non si fosse in Quaresima, va da sé.
Le regole dell’astinenza quaresimale, fattesi via via più stringenti nei primi secoli di Storia cristiana, imponevano a tutti i fedeli un’astensione rigorosa dal consumo di cibi di origine animale. Non si trattava solamente d’astenersi dalla carne, ma da tutti gli alimenti che la carne aveva prodotto: per diversi secoli, anche le uova e i latticini (e per un certo periodo, persino il pesce!) caddero sotto la mannaia inflessibile della Quaresima.
Va da sé che il lardo, grasso e succulento, rientrava a pieno titolo tra gli alimenti proibiti. Ma allora che fare, e con che condire il cibo, se il condimento per eccellenza è vietato nei dì di magro?
Le olive non bastano
Evidentemente, ci si cerca un altro condimento.
E qui, qualsiasi persona sana di mente suggerirebbe “olio! Olio!”. Sennonché, sorprendentemente, manco l’olio piaceva un granché, a ‘sti strani medievali.
Certo: c’erano delle zone nelle quali gli uliveti erano parte stessa del paesaggio e la popolazione non disdegnava affatto quel frutto della terra. Ma al di fuori di quelle zone, fra l’altro abbastanza ristrette, la gente non era abituata a consumare l’olio d’oliva. Il suo sapore caratteristico e marcato era sgradito alla maggior parte dei palati, che giustappunto apprezzavano invece le note dolci e delicate del buon lardo. E se è il lardo di Colonnata la tua pietra di paragone, è pure comprensibile che il sapore di un cucchiaino d’olio extravergine possa sembrarti decisamente troppo marcato. Per buono che sia, non è quello che stavi cercando.
Per non parlare poi dell’altro problema, di natura squisitamente pratica. Quand’anche tutta la Cristianità avesse improvvisamente iniziato ad ardere di passione per l’olio extravergine, certamente sarebbe stato problematico produrne quantità tali da soddisfare l’intero fabbisogno europeo.
E allora?
Cinquanta sfumature di olio
E allora, i cuochi iniziano a sperimentare. E si lanciano, anzitutto, nella creazione di oli vegetali diversi da quello d’oliva, in una lavorazione che era sostanzialmente sconosciuta agli Antichi Romani e che nel Medioevo, invece, fa boom.
Nei pressi di Torino, esiste ancor oggi una piccola azienda che produce oli di questo tipo. In un’occasione, ho avuto modo di visitarla e mi si è spalancato un mondo che assolutamente non conoscevo. Se non avete mai assaggiato l’olio di nocciole, di mandorle, di pistacchio: beh, andate in un negozio specializzato e concedetevi questo sfizio niente affatto quaresimale. Il sapore, delicatissimo, è completamente diverso rispetto a quello che ci viene in mente quando qualcuno dice “olio”.
Non mi stupisce che potesse piacere tanto a chi disprezzava il sapore forte dell’oliva. Non mi stupisce che potesse sembrare un sostituto accettabile per gli amanti del lardo rimasti orfani del loro condimento.
In Piemonte, in Borgogna, in Lorena e nella Castiglia interna, è soprattutto l’olio di noce a dare gusto ai piatti quaresimali, affiancato ad altri tipi di oli vegetali fabbricati a partire dagli ingredienti più svariati. L’olio d’oliva si consuma solamente in quelle zone in cui gli uliveti erano diffusi, e cioè la Francia meridionale, la penisola iberica e buona parte dell’Italia (senza che peraltro risulti, da quelle aree, una attività di esportazione particolarmente significativa. Vale a dire: in Nord Europa, non è che non usassero olio d’oliva perché non ce l’avevano; non avevano proprio interesse a utilizzarlo).
Anche uova e latticini nei periodi di magro
Ma l’olio di noci, per quanto buono, richiede una lavorazione assai lunga e laboriosa. Oltretutto, non si conserva molto a lungo. Le bottigliette di liquido dorato restavano, insomma, privilegio per pochi ricchi, che neppure potevano usarle per tutti gli scopi: questo tipo di olio è ottimo per condire, ma non rende un granché in frittura.
E allora?
E allora, se il lardo è vietato, l’oliva fa schifo e la noce non rende per tutte le preparazioni, bisognerà pur ripiegare su qualche altro grasso per accompagnare ‘sto benedetto cibo da portare in tavola.
Restava giustappunto il burro, il buon caro e vecchio burro. Quello che disgustava un po’ tutti, ma che tutto sommato continuava a essere prodotto e consumato, dai poveri.
A onor del vero, tra i detrattori del burro non c’erano solamente i cuochi di corte. C’erano anche e soprattutto le gerarchie di Santa Madre Chiesa, che vietavano in Quaresima il consumo di qualsiasi alimento di origine animale, uova e latticini inclusi.
Ma, col passar del tempo, queste norme così rigide cominciano pian piano ad essere allentate. Dapprima con concessioni limitate a quelle diocesi in cui era oggettivamente difficile reperire altri condimenti a buon mercato; poi, con concessioni che via via s’allargano ad abbracciare tutta la Cattolicità. E così, pian piano, la Chiesa consente ai suoi fedeli di introdurre uova e latticini nella loro dieta per i periodi di magro. La prima decisione in tal senso viene presa dal 1365 dai padri conciliari riunitisi ad Angers; per tutto il corso del secolo seguente, le diocesi fanno a gara per concedere ai loro fedeli questa libertà maggiore sul lato culinario.
La torre del burro
Fra l’altro – diciamolo – questa libertà maggiore non si guadagnava gratuitamente. I fedeli che avessero voluto approfittare della possibilità che veniva concessa loro avrebbero dovuto commutare la mancata penitenza con altro tipo di mortificazione. Ad esempio, elemosine sostanziose, naturalmente da indirizzare nelle casse diocesane. Una tradizione forse leggendaria, ma comunque antica e dunque indicativa della situazione, vuole che la “torre del burro” che ancor oggi s’ammira nella cattedrale di Rouen sia stata costruita coi proventi delle offerte di quei fedeli che s’erano “comprati” in tal modo la possibilità di consumare latticini in Quaresima.
Entro il XV secolo, è ormai pacifico per tutta la Cattolicità che, sì, uova e latticini possono integrarsi in una dieta di magro. E così, il burro, fino a quel momento confinato nelle catapecchie povere dei villici, fa per la prima volta il suo timido ingresso nelle cucine della gente che conta.
I primi a sperimentarlo sono gli aristocratici dell’Europa centro-settentrionale. Quelli che l’olio d’oliva non riuscivano a farselo andar giù manco volendo, e ai quali adesso non sembrava vero di poter finalmente ricominciare a mangiare fritti. Ma entro la fine del secolo, il burro ha fatto il suo ingresso anche in quelle regioni tradizionalmente affezionate all’olio d’oliva, come la nostra Italia.
Dalla tavola dei poveri alle prelibatezze degli chef
Con un mutamento lento ma inesorabile, i gusti stavano pian piano cambiando. Sulle tavole dei potenti, il burro restava sì un ripiego, utilizzato perlopiù per friggere e comunque caratterizzato da tutti quei connotati umili che s’accompagnavano in quei secoli alla cucina quaresimale. Eppure, il Quattrocento non s’era ancora chiuso che già Maestro Martino, gastronomo lombardo, si rendeva conto che, tutto sommato, il burro rendeva ancor meglio dell’olio nell’accompagnare la pasta col cacio. E per tutto il corso del secolo a venire, qua e là in giro per i palazzi dell’Europa, cuochi ardimentosi cominciano pian piano a proporre il burro come condimento prelibato, e non più come base per le fritture “perché purtroppo non c’è niente di meglio”.
E, dagli e dagli, alla fine il gusto cambia.
Il secolo XVII è quello del trionfo. Liberato ormai dalle catene che lo stringevano nella gabbia dei cibi di magro, il burro saporito fa il suo ingresso trionfale nel regno della carne succulenta. Le salsine magre e speziate che erano tanto care al gusto Rinascimentale lasciano spazio a condimenti grassi e burrosi fatti apposta per sposarsi al sapore pieno degli arrosti.
Insomma: disprezzato per secoli, entrato in cucina senza troppa convinzione come ripiego imposto dalla Quaresima, il burro finì col diventare una prelibatezza senza la quale non esisterebbero molte delle nostre ghiottonerie più amate.
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Magro non vuol dire solo penitenza
Per citare le parole di Massimo Montanari, dai cui studi sparsi ho tratto le informazioni per questo articolo,
Tutto ciò mostra con chiarezza che la “cucina di magro” non era necessariamente una cucina di penitenza. Al contrario: la necessità di sostituire la carne produsse, non paradossalmente, attenzioni gastronomiche nuove, volte alla valorizzazione di prodotti alternativi.
E, non so voi, ma io amo alla follia queste conseguenze impreviste che nascono, come per un meraviglioso effetto domino, dai più piccoli e impensati fatterelli della Storia.
Venti secoli di Storia cristiana – venti secoli di Quaresima – ne hanno provocate un bel po’ di queste conseguenze, che ancor oggi influenzano il nostro modo di stare a tavola. E quest’anno penso che ve ne racconterò alcune – una alla settimana – in ognuno di questi venerdì di magro che ci separano dalla domenica di Pasqua.
QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA UNA PENNA SPUNTATA