Spesso le pose spirituali sono lungi dal riflettere una vita interiore autenticamente avanzata, ma soprattutto tradiscono (all’occhio di una guida esperta) una profonda fragilità personale. Ne risulta che non di rado chi pensa con risentimento alle “pecorelle smarrite” è una di loro, e perfino delle più difficili da raggiungere. Ma anche per lui/lei non c’è da disperare.
La “posizione romana”
“Posso pregare in posizione romana?”: la bizzarra domanda fu rivolta al padre Gianfranco Ghirlanda, che ce la riferì nei corridoi della Gregoriana tra una lezione e l’altra, da un anonimo sacerdote al quale il giurista gesuita aveva predicato gli Esercizi Spirituali. «Beh – rispose conciliante il gesuita – sì… penso di sì…». Poi però non riuscì a trattenere la curiosità e chiese: «Ma scusi, eh: ma qual è la “posizione romana”?». «È questa!», rispose prontamente il sacerdote (il quale sembrava non aspettare altro che potersi esibire in quella posa): ginocchia ferme sull’inginocchiatoio, femori, colonna vertebrale e testa rigidamente allineati lungo un’immaginaria linea verticale, braccia aderenti al torace e mani giunte, le dita rigorosamente congiunte (non conserte!). «Ah… – Ghirlanda ci raccontò di aver replicato – beh, sì, faccia un po’ lei…».
Quel che però chiunque avrebbe voluto ribattere – se non fosse stato davanti a una persona da accompagnare e non davanti a un elaborato da correggere – sarebbe stato: «Ma che è ’sta “posizione romana”? Te la sei inventata adesso per metterti in mostra come “quello della posizione romana”? Perché non esiste alcuna “posizione romana”, o almeno non risulta a me, che a Roma da decenni studio, insegno, e anzitutto prego!». E chiunque – a cominciare da Ghirlanda – evita di replicare così, perché così si verrebbe soltanto a un futile scontro: soltanto un ego immaturo si rapporterebbe così a un ego evidentemente bisognoso di accompagnamento verso la maturità – e le immaturità degli accompagnatori hanno per definizione un peso specifico graviore rispetto a quelle degli accompagnati.
Poi magari quel tale si era veramente convinto dell’esistenza della “posizione romana”, e va’ a sapere che cosa significasse per lui quella posa in un contesto di preghiera: concentrazione? fedeltà all’impegno preso? desiderio di perfezione? E ancora: va’ a sapere che cosa sperava di ricevere da Ghirlanda chiedendo quella conferma che da fuori sembrava superficiale e vanesia: approvazione? stima? attenzione? amicizia? Salvaguardando la buona fede del sacerdote, si deve riconoscere che questi ideali sono tutti buoni: resta da vedere se il mezzo scelto – ossia la “posizione romana” (ma anche i beni che il prete sperava di poter conseguire praticandola e rendendone partecipe il gesuita) – era adeguato a ottenerli.
La “faccia da sottaceto”
Per qualche strano motivo infatti molti sembrano convinti che la profondità della propria esperienza di fede debba essere inversamente proporzionale all’ilarità del loro volto, cioè che – viceversa – più sono severi, duri, oppositivi e respingenti… più stanno progredendo nel cammino di perfezione. Papa Francesco ha più volte stigmatizzato la “faccia da sottaceto” ostentata da molti che sublimano in una presunta vita di preghiera la ragione della propria impopolarità e intrattabilità, ma in quei memorabili auguri alla Curia Romana tracciò un’accurata diagnosi della “dodicesima malattia della curia”:
La malattia della faccia funerea, ossia delle persone burbere e arcigne, le quali ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia, di severità e trattare gli altri – soprattutto quelli ritenuti inferiori – con rigidità, durezza e arroganza. In realtà, la severità teatrale e il pessimismo sterile[12] sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé. L’apostolo deve sforzarsi di essere una persona cortese, serena, entusiasta e allegra che trasmette gioia ovunque si trova. Un cuore pieno di Dio è un cuore felice che irradia e contagia con la gioia tutti coloro che sono intorno a sé: lo si vede subito! Non perdiamo dunque quello spirito gioioso, pieno di humour, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili[13]. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo! Ci farà molto bene recitare spesso la preghiera di san Thomas More[14]: io la prego tutti i giorni, mi fa bene.
Al centro del breve periodo si trova il manifesto della vita apostolica, che se è tenuta alla gravità non lo è meno alla gioia (e se un cristiano non ha colto questo apparente paradosso ha probabilmente ancora molta strada da percorrere): la cosa bella è che però nelle prime righe della diagnosi Francesco non si limita a fare il fustigatore, anzi a ben leggere non fustiga affatto. Comprende e anzi vuole soccorrere, come a dire: «Voi pensate di aver staccato tutti di un pezzo, ma se non vedete nessuno è solo perché siete fuori strada, riprendetevi».
Certo l’espressione “severità teatrale” fa ripensare un poco alla domanda “posso pregare in posizione romana?”, ma un bravo pastore guarda con tenerezza anche questi “giovani pastori” che non hanno ancora affinato il senso autentico della (imprescindibile) disciplina pastorale. Del “pessimismo sterile”, invece, Francesco aveva già scritto in Evangelii gaudium cesellando un pensiero per quanti s’inaspriscono per via delle contrarietà sperimentate a motivo della fede:
È evidente che in alcuni luoghi si è prodotta una “desertificazione” spirituale, frutto del progetto di società che vogliono costruirsi senza Dio o che distruggono le loro radici cristiane. Lì «il mondo cristiano sta diventando sterile, e si esaurisce, come una terra supersfruttata che si trasforma in sabbia».[66] In altri Paesi, la resistenza violenta al cristianesimo obbliga i cristiani a vivere la loro fede quasi di nascosto nel Paese che amano. Questa è un’altra forma molto dolorosa di deserto. Anche la propria famiglia o il proprio luogo di lavoro possono essere quell’ambiente arido dove si deve conservare la fede e cercare di irradiarla. Ma «è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi, uomini e donne. Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza».[67] In ogni caso, in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza!
Come si vede, nessuno vuole indulgere a facili e futili irenismi: i conflitti ci sono e talvolta sono anche sollevati dall’esperienza della fede, ma se questa non ci mantenesse indicibilmente sereni e sconsideratamente gioiosi anche tra le contestazioni non potremmo davvero cantare in ogni festa le lodi del Dio che preservò i tre giovani nel fuoco della fornace babilonese.
Sant’Asterio di Amasea, “misericordista” e novatore
Pochi giorni fa ci è toccato leggere, dalla penna di uno che fu un tempo cantore della misericordia ed è oggi purtroppo mungitore del malcontento:
In Amoris laetitia si legge che la “Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili”. Mi spiace, ma non è così. La Chiesa deve convertire i peccatori.
Chissà come s’intende che possa farlo, cioè che possa convertirli, se non andando a ripescarli lì dove sono e così come sono, perfino a costo di tralasciare per un po’ “le novantanove pecorelle al sicuro sul monte”. Proprio oggi l’Ufficio delle Letture ci proponeva un’omelia di sant’Asterio di Amasea, origeniano cappadoce che nel IV secolo si barcamenò tra i marosi della crisi ariana (e quindi dei rovesci delle politiche imperiali) senza perdere la speranza che il papa oggi invita a non lasciarsi rubare:
Imitiamo l’esempio che ci ha dato il Signore, il buon Pastore. Contempliamo i Vangeli e, ammirando il modello di premura e di bontà in essi rispecchiato, cerchiamo di assimilarlo bene.
Nelle parabole e nelle similitudini vedo un pastore che ha cento pecore. Essendosi una di esse allontanata dal gregge e vagando sperduta, egli non rimane con quelle che pascolavano in ordine, ma messosi alla ricerca dell’altra, supera valli e foreste, scala monti grandi e scoscesi e, camminando per lunghi deserti con grande fatica, cerca e ricerca fino a che non trova la pecora smarrita.
Dopo averla trovata, non la bastona, né la costringe a forza a raggiungere il gregge, ma, presala sulle spalle, e trattatala con dolcezza, la riporta al gregge, provando una gioia maggiore per quella sola ritrovata, che per la moltitudine delle altre.
Consideriamo la realtà velata e nascosta della parabola. Quella pecora non è affatto una pecora, né quel pastore un pastore, ma significano altra cosa. Sono figure che contengono grandi realtà sacre. Ci ammoniscono, infatti, che non è giusto considerare gli uomini come dannati e senza speranza, e che non dobbiamo trascurare coloro che si trovano nei pericoli, né essere pigri nel portare loro il nostro aiuto, ma che è nostro dovere ricondurre sulla retta via coloro che da essa si sono allontanati e che si sono smarriti. Dobbiamo rallegrarci del loro ritorno e ricongiungerli alla moltitudine di quanti vivono bene e nella pietà.
Asterio, Om 13, PG 40,362
Osserviamo l’immaginifica descrizione del viaggio del buon pastore, che è parabola sia dell’annientamento del Verbo nella natura umana sia della missione della Chiesa in mezzo ai popoli: si preannunciano fatiche e gioie, non un banale e mondano ottimismo. Sempre in Evangelii gaudium, del resto, Francesco aveva scritto:
Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. Chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti.
Evangelii gaudium 85
La terapia: sorridere di sé
E qui sta un punto decisivo: uno che assume una posa severa pensa con ciò di diventare una persona seria; uno che evita il sorriso s’illude così di sottrarsi alla critica altrui. È vero il contrario, perché la fiducia in sé si costruisce solo quando l’uomo costruisce l’abito virtuoso del rimettere la propria miseria alla misericordia divina:
Anche se con la dolorosa consapevolezza delle proprie fragilità, bisogna andare avanti senza darsi per vinti, e ricordare quello che disse il Signore a san Paolo: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica.
Ibid.
Ma come, adesso uno preoccupato della “posizione romana” può essere tacciato di egocentrismo? Di “sfiducia ansiosa ed egocentrica”, precisa sapientemente il papa: è una cattiva consapevolezza della propria miseria, quella che non si espone costantemente alla rugiada della misericordia e così s’inaridisce e si sclerotizza.
Per questo Francesco propone la “preghiera di san Thomas More”, il quale sapeva ben dedicarsi a temi serissimi e gravissimi (restando nella sola ascetica, non si scordi che il suo ultimo scritto è “Sulla tristezza di Cristo”) ma che pure è passato alla storia – ex æquo con altri giganti quali san Filippo Neri – come il patrono del buonumore:
Signore, donami una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo e il buon umore necessario per mantenerla. Donami, Signore, un’anima semplice che sappia far tesoro di tutto ciò che è buono e non si spaventi alla vista del male, ma piuttosto trovi sempre il modo di rimetter le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri, i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso del buon umore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri. Amen.
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