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Nel disegno buono di Dio anche l’albero di fico che non fa fiori porta frutti

ROBERTA, CAPIAGO
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Annalisa Teggi - pubblicato il 16/02/21
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Una relazione affettiva non finita bene, la paura e il senso di colpa. Roberta, una nostra lettrice, racconta cosa è accaduto mettendo le ferite della sua vita in mano a Dio attraverso gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio.All’inizio di gennaio ho letto un post sul gruppo Facebook degli Esercizi Spirituali Ignaziani che ha catturato la mia attenzione. Forse perché c’è in me il desiderio di farli, dopo che alcuni amici me ne hanno testimoniato i frutti.

In quel post una giovane donna raccontava con semplicità la sua storia personale, ferita negli affetti. E testimoniava uno sguardo nuovo verso se stessa grazie all’incontro con Dio, reso possibile dagli EVO (Esercizi Spirituali nella Vita Ordinaria). Questo un passo di quel post:

Ho sempre avuto un rapporto di paura nei confronti di Dio. L’ho sempre visto come un Dio che punisce, un Dio che dona in base a dei criteri che non avevo assolutamente chiari, ma dei quali sicuramente non facevo parte. Non voglio dilungarmi nel discorso. Posso solo dirvi che S. Ignazio mi ha permesso di mettere ordine nella mia vita, di conoscere la mia vera relazione con Dio. Il resto lo ha fatto, e lo sta facendo Dio.


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Sia “esercizi” sia “spirituali” sono parole che ci lasciano il sospetto di una fatica e di una lontananza, di un percorso tosto che è altrove dalle urgenze della vita quotidiana. Invece nelle parole di questa giovane donna, di nome Roberta, ho sentito la voce di chi parlava di una camminata tenendo per mano finalmente un Amico che non delude. Ho deciso di fare una chiacchierata con lei e, anche se a distanza, sono felice di aver conosciuto un’anima che sento amica.

Come sentirete dalla sua viva voce, gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio non sono una tecnica, ma uno sguardo. Uno sguardo di ospitalità e affidamento. E siamo all’opposto – benedetto – di quello a cui ci porta solitamente l’istinto: quando siamo feriti, quando c’è un dolore, noi vorremmo sempre risolverlo grazie a un fiume di parole che spiegano o contraddicono. Il silenzio invece è stata la prima doccia fredda grazie a cui Roberta ha finalmente ascoltato una voce diversa da quella che per troppo tempo la macerava nei sensi di colpa.

Un altro passo significativo di quel post parlava della sua immedesimazione nel legno della Croce:

Ho donato la mia croce al Signore, croce fatta di tutti i miei peccati, miserie, debolezze, attaccamenti, tutto quello su cui cercavo di avere controllo. Riflettete e adorate la croce. Immaginatene il peso e la ruvidità. Io ho percepito il tipo di legno, per me è legno di fico, il legno della mia croce, non porta fiore, ma frutto. Un frutto fra i più dolci e buoni che io conosca, l’amore di Gesù.

Roberta ha seguito gli EVO presso i padri oblati di Rho. Padre Francesco, che li tiene, fa sapere a chi fosse interessato che gli esercizi possono essere svolti anche online, considerando le restrizioni di questo tempo.

Cara Roberta so che tu sei una lettrice di Aleteia, ma oggi sei tu a parlare. È la tua storia che vogliamo ascoltare. Da dove cominciamo a raccontare? A quale domanda, o ferita aperta, hanno risposto gli esercizi spirituali che hai fatto?

Sicuramente quello che ha fatto nascere in me un grande bisogno di senso è stata l’esperienza di una relazione affettiva non finita bene. Dentro di me c’era un’idea forte di famiglia, il desiderio di poterne costruire una, e non mi faceva mettere a fuoco la situazione reale che vivevo. Tutto poi è crollato, e non direi improvvisamente. Ho provato a mettere in mano al Cielo la mia storia, mi sono affidata a Maria che scioglie i nodi. Questo e altri erano tentativi che facevo da sola, cercando di documentarmi online. Mi sono anche affidata all’aiuto di psicologi, il cui aiuto però è arrivato solo fino a un certo punto. Continuavo a darmi la colpa di quel che era accaduto, come se fossi io la causa di tutto ciò che mi stava succedendo.

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Di GoneWithTheWind|Shutterstock

Un giorno ne ho parlato con mio fratello, sostanzialmente dipingendomi come quella che è sempre stata sfortunata nella vita. Lui ha contraddetto l’ipotesi della sfortuna e mi ha invitato a partecipare al gruppo di preghiera di cui fa parte. Non sono riuscita a vivere quell’esperienza fino in fondo, non la sentivo mia. Però le persone che guidavano quel gruppo di adorazione eucaristica sono state capaci di capire quello di cui avevo bisogno. E quindi mi hanno aiutato a capire cosa dovevo chiedere, sono ritornata alla preghiera a Maria che scioglie i nodi. Oggi, e sono passati 5 anni da allora, vedo come Lei mi ha aiutata.

La mia richiesta all’inizio era molto specifica: volevo che Lei cambiasse la situazione, che aprisse il cuore dell’uomo che amavo. Le chiedevo un vero e proprio miracolo, invece col senno di poi ho capito che occorreva pregarla diversamente. Non si deve pretendere, si chiede la volontà, cioè di illuminarti su quella che è la volontà del Signore. E ora mi accorgo che, pur in mezzo a molte batoste, Lei mi ha accompagnata con grande sostegno. Ho compreso che un mio grande nodo era la paura di vivere la solitudine, più che la solitudine stessa.

Il primo passo non è chiedere, ma imparare a chiedere?

Sì, e io l’ho capito dopo 5 anni. E l’ho capito durante un momento del percorso degli EVO  in cui abbiamo contemplato quelli che sono i fili d’oro, cioè gli attaccamenti, quei beni a cui si è attaccati e limitano la nostra libertà e la nostra relazione con Cristo. Mentre facevo questa preghiera di contemplazione ho visto i nodi che mi legavano. E sono nodi che partono dall’infanzia, magari nascondendosi dietro le cose più banali: le insicurezze, le paure, le relazioni con gli amici e anche coi genitori.

Ho meditato molto sulla relazione con il mio papà e la mia mamma: il nostro attaccamento è fortissimo, e questo talvolta ha limitato la mia forza di prendere decisioni da persona matura. E i miei genitori non sono affatto persone invadenti, però c’è quell’amore strettissimo che inficia la crescita personale. Poi io sono la più piccola dei miei fratelli, e quindi ho sentito di più questo amore avvolgente.

E quando sono cresciuta ho cercato lo stesso tipo di legame in quelli che sono diventati i miei punti di riferimento, il lavoro e le relazioni affettive. Sono state relazioni di dipendenza, in cui dall’opinione dell’altro dipendeva la mia autostima. Puoi immaginare quale fosse la mia fragilità interiore.

E con questo bagaglio pesante addosso ti sei avvicinata all’esperienza degli esercizi spirituali ignaziani. Per chi come me è ignorante in merito mi dici cosa sono e come si svolgono?

Devo dire innanzitutto che, anche se il mio carattere è solare, sono timida di fronte a ciò che non conosco. Mi ci hanno proprio “lanciata” a fare questi esercizi ed è capitato d’estate. Non avevo progettato vacanze particolari e mi sono decisa. Ti racconto quella che è stata la doccia fredda iniziale. Gli esercizi si svolgevano a Capiago, in provincia di Como, e cominciavano il venerdì sera. In quel momento iniziale veniva spiegato come si sarebbe svolta tutta le settimana, ma io non ero potuta essere presente. Lavoravo e riuscii ad arrivare il sabato mattina. Sono arrivata agitatissima, appena in tempo per cominciare la giornata e non sapevo che era stato chiesto il silenzio. Per la contemplazione e la meditazione occorre il silenzio, questo era stato spiegato il venerdì sera.

CAPIAGO, COMO

Roberta
Una foto scattata durante gli esercizi spirituali a Capiago (Como)

E invece io arrivavo da un anno di lavoro ed eventi che mi aveva riempito di tumulto, ero un’esplosione di ansia. E mi sono trovata di fronte a questo silenzio. Mi ricordo di suor Gabriella che mi disse subito: “Guarda che qui non si può parlare”. E io ho pensato: “Ma dove sono finita?”. Gli esercizi li tenevano padre Francesco di Rho, don Cesare e suor Gabriella, ognuno di loro ogni giorno offriva uno spunto di lavoro. Lì per lì non ho capito nulla, ma nel senso che non era una questione di comprensione: facevo quello che ci veniva chiesto e spontaneamente nasceva dentro qualcosa.

Devi considerare che in una settimana di esercizi, io non ho fatto altro che piangere. Ho tirato fuori le lacrime di una vita e ho messo a fuoco dei punti cardine nel mio intimo che dovevo approfondire. A settembre ho portato avanti questo percorso seguendo altri esercizi spirituali.

Questo impatto senza paraurti con il silenzio è commovente. Capisco bene se dico che i nodi che hai messo a fuoco sono emersi non dentro una discussione ma in una contemplazione?

Sì, esatto. Proprio nella preghiera.

Te lo chiedo perché quando hai condiviso su Facebook la tua esperienza, hai evidenziato un altro aspetto importante. A volte in modo superficiale si contrappone la terapia psicologica all’esperienza spirituale, come se lo psicologo fosse nemico della preghiera o viceversa. Nella tua esperienza questa contrapposizione non c’è: c’è invece un “di più” con cui la fede ha dato man forte a quello che gli psicologi ti avevano aiutato a capire. Passami il termine, cosa “ha aggiunto” la preghiera?

Ha aggiunto la forza, il coraggio e il carattere. È emersa una tenacia che probabilmente io avevo sempre tenuta nascosta. Tutto quello che avevo già affrontato con la mia psicologa è fiorito. Quando andavo da lei, uscivo sollevata perché mi spiegava cosa accadeva dentro di me e mi motivava. Lei riconosceva quelle parti di me che io non vedevo e me le spiegava. Nell’esperienza degli esercizi sono stata io a vedere coi miei occhi le parti nascoste di me.

Quindi dopo quella settimana estiva hai proseguito con gli esercizi?

Sì, padre Francesco mi disse che c’era la possibilità di proseguire gli esercizi spirituali a Rho. Rimaneva sempre in me una parte timorosa, la paura di essere piccola e sfortunata, per cui ho chiesto a mio fratello di accompagnarmi. E lui lo ha fatto per un certo periodo, fino a Natale del 2019. Quando lui ha smesso, io ero così lanciata che ho proseguito senza paura di essere da sola.

Una cosa che mi ha colpito della tua testimonianza è che hai detto che la tua relazione con Dio è cambiata, prima ne avevi paura. Adesso?

Prima era deforme tutto, non solo Dio anche l’amore. Immaginavo Dio come uno che puniva, che non mi capiva. Però, contemporaneamente, io ero quella che lo tirava fuori solo all’occorrenza. La relazione con me stessa non esisteva nel modo più assoluto, vivevo in funzione delle altre persone. Ciò che contava era il giudizio degli altri.

Ristabilita la relazione con Dio anche tutto il resto si è illuminato. L’essermi sentita figlia, più che il pensare di essere figlia, mi ha aiutato a dare il giusto peso a tutto quello che mi succede e alle persone che mi sono vicine. C’è Lui, poi ci sono io, poi ci sono gli altri. Ciascuno ha il peso giusto in rapporto a Lui. Non dico di riuscire a vivere sempre con questa chiarezza, ma la prospettiva è questa.

La tua immedesimazione con la Croce è stato un altro passaggio che ho letto con stupore. Me ne parli?

Non riuscivo a capire il passaggio dalla morte alla Resurrezione, nel senso che fintanto che mi concentravo su quella che è la mia morte (nel mio caso era la fine della mia relazione e tutto quello che ne derivava) non riuscivo a fare un passo verso la Resurrezione. Poi, a Pasqua del 2020, la mia guida spirituale mi suggerì di affiancare alla Quaresima una preghiera di contemplazione. In pratica: non dovevo fare un fioretto, ma un percorso per chiedere la mia conversione. Ed è la base di tutto. Quando ci troviamo di fronte a una situazione difficile vorremmo subito la soluzione, senza fare i passi che ci sono prima.

Questa contemplazione mi ha portato di fronte al legno di fico, perché mi ha colpito quel brano del Vangelo in cui è presente:

Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». (Luca 13,6-9)

Sono andata a studiare com’è davvero un albero di fico, ho meditato sul fatto che sia una pianta che non fa fiori ma dà frutto. Ed è stato un percorso interiore che mi ha portato a sentire che quell’albero di fico ero io. Sentire quello che dentro fa male, immedesimarmi nella Croce, mi ha fatto fare il passo verso la Resurrezione.



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E questo passo dove ti sta portando?

Non lo so. Quando ho iniziato gli EVO ho chiesto a Dio di insegnarmi cos’è l’amore e di indicarmi come viverlo. Ho sempre cercato questo e l’ho sempre cercato nel modo sbagliato. Da una parte, posso dire che una risposta è arrivata: ho imparato ad amarmi, che è l’inizio di tutto. Per tutto il resto, il cantiere è ancora aperto.

L’esperienza del Covid (in famiglia ci siamo ammalati tutti) è stata forte per quel che riguarda le tentazioni. Se parlasse la me stessa di prima, direbbe che il Covid è arrivato perché io sono sfortunata e mi capita sempre il peggio. Invece posso dire che sì, c’è stata la paura nell’affrontare la malattia. Mi sono sentita anche sola, perché in casa eravamo ammalati in 3, io e i miei genitori che hanno sui 70 anni, e i miei fratelli – ammalati anche loro – non potevano venire ad aiutare. Ho sentito la solitudine, ma ho sentito anche di essere sostenuta giorno dopo giorno.

Per quel che riguarda il mio futuro, il desiderio di avere una famiglia, sono in ricerca e ho un po’ di paura, ma ho imparato a individuare da dove vengono le sensazioni. Se sono sensazioni che portano al negativo, cerco di eliminarle e di combatterle. Nonostante il buio cerco di seguire la luce, o comunque vivo della memoria della luce.

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