La “decima malattia” della Curia diagnosticata nel 2014 da papa Francesco trova un riscontro importante nel “Discorso di Firenze” del 2015. La terapia è in una vita schiettamente sinodale.
«Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8): versetto particolarmente in voga, da un anno a questa parte. Buono per omelie a tema, libri e – se non ci fosse la pandemia – anche conferenze. Tutto rigorosamente top-down, per paradosso, cioè con uno che parla e tutti gli altri che ascoltano.
Ovviamente è bene riflettere e approfondire, nei contesti ecclesiali, ed è giusto nonché doveroso che quanti sono beneficati di carismi d’intelletto, di scienza e di sapienza, ne gratifichino anche gli altri, con umiltà e semplicità: il fatto è che
- da un lato ci vuole poco a sembrare/credersi umili quando si sta in vetta; dall’altro
- parlare di fraternità (cosa buona) non è ipso facto viverla.
Una pari dignità che non lede la funzionalità delle gerarchie
Quella della fraternità cristiana è una rivoluzione che rovescia radicalmente e irreversibilmente non la scala sociale, ma il proprio modo di approcciarla e (in caso) di salirla: quando l’ultimo dei cristiani va dal papa sa
- sia di avere davanti a sé il successore di Pietro, primo tra i Dodici;
- sia di essere di fronte a un fratello che l’unico Padre, l’unico Maestro e l’unico Signore hanno chiamato a fungere da queste tre cose per servire tutti i suoi fratelli.
Agostino lo espresse un giorno con parole memorabili, dall’alto della cattedra di Ippona – era un anniversario della sua ordinazione:
Nel momento in cui mi dà timore l’essere per voi, mi consola il fatto di essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell’incarico ricevuto, questo della grazia; quello è occasione di pericolo, questo di salvezza.
Infine, quasi trovandoci in alto mare, siamo sballottati dalla tempesta di quell’attività: ma ricordandoci che siamo stati redenti dal sangue di lui, con la serenità di questo pensiero, entriamo nel porto della sicurezza; e, nella grazia che ci è comune, troviamo riposo dall’affaticarci in questo personale ufficio.
Pertanto, se mi compiaccio di essere stato riscattato con voi più del fatto di essere a voi preposto, allora, secondo il comando del Signore, sarò più efficacemente vostro servo, per non essere ingrato quanto al prezzo per cui ho meritato di essere servo con voi.
Aug., s. 340
Agostino conosceva l’insidia di quel compiacimento del capo dimentico delle ragioni per cui è tale: ne aveva già lungamente parlato, commentando Ez 34,1-16, pronunciando il celeberrimo “discorso sui pastori”:
Ma, siccome ci sono pastori che amano esser chiamati pastori mentre si rifiutano d’adempiere l’ufficio di pastori, scorriamo le parole ad essi rivolte dal profeta secondo la lettura che abbiamo or ora ascoltato. Voi ascoltate con attenzione; noi ascolteremo con tremore. […]
Si rimprovera il pastore perché non s’è curato della pecora smarrita e questa è stata inghiottita e sbranata dal lupo. Cosa gioverà a un tale pastore presentare una pelle marchiata? Il padrone di casa vuole la vita della pecora; il cattivo pastore gli presenta la pelle. Di quella pelle renderà conto. Ma non potrà ingarbugliarlo? Colui che giudica ha osservato già prima ogni cosa dall’alto.
Colui al quale il cattivo pastore voleva raccontar frottole registra i fatti, scruta i pensieri. Si provi dunque, il cattivo pastore, a render conto della pelle della pecora uccisa. Dirà: «Le ho gridato le tue parole, ma essa si è ricusata di seguirmi; ho fatto l’impossibile per non farla allontanare dal gregge, ma lei non mi ha obbedito».
Se, dicendo così, le sue parole saranno vere (Lui lo sa!), il pastore si sarà scagionato bene della sorte toccata alla pecora cattiva. Ma se egli non si è curato della pecora errante né l’ha richiamata quand’era sull’orlo della rovina (e Dio lo conosce), cosa gioverà al pastore l’aver ritrovato la pelle da riportarsi? La pecora avrebbe dovuto ritrovare, non la pelle dell’uccisa da presentare [al Giudice]!
E poi, se è vero che non ha scuse valide colui che ha omesso di ricercare la pecora smarrita, quali scuse potrà addurre colui che l’ha spinta nell’errore? E mi spiego. Se nell’ambito della Chiesa cattolica un vescovo renderà conto severo di ogni pecora che non abbia ricercata quando errava lontano dal gregge di Dio, quale non sarà il conto che dovrà rendere l’eretico, che non solo non richiama dall’errore le pecore ma ve le sospinge?
Id., s. 46,1.21 passim
La “decima malattia” della Curia… e la “lezione di Firenze”
Se questo è l’approccio esemplare per chi è preposto in onore e dignità (ecclesiali ma non solo), analogo discorso andrà svolto per i “sottoposti”, i quali pure possono essere tentati di approcci disordinati all’ordine gerarchico. Lo denunciava con la consueta finezza psicologica papa Francesco nel solito discorso del 2014 di auguri natalizi alla Curia Romana. Era la “decima malattia”:
La malattia di divinizzare i capi. È la malattia di coloro che corteggiano i Superiori, sperando di ottenere la loro benevolenza. Sono vittime del carrierismo e dell’opportunismo, onorano le persone e non Dio (cfr Mt 23,8-12). Sono persone che vivono il servizio pensando unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare. Persone meschine, infelici e ispirate solo dal proprio fatale egoismo (cfr Gal 5,16-25). Questa malattia potrebbe colpire anche i Superiori quando corteggiano alcuni loro collaboratori per ottenere la loro sottomissione, lealtà e dipendenza psicologica, ma il risultato finale è una vera complicità.
Un anziano monaco ortodosso che mi onora della sua amicizia mi disse, un giorno, commentando anni fa con benevola ironia la notizia che papa Francesco invitava la Conferenza Episcopale Italiana a eleggere il proprio presidente come tutte le altre conferenze episcopali al mondo (mentre in Italia vigeva l’eccezione della nomina papale):
Mi pare di sentirli, i vescovi italiani, in quel che direbbero ora al papa: «Ma… Santità… ma perché dobbiamo sceglierlo noi? Poi noi litighiamo… No, Santità… lo scelga Lei, è meglio: ci dia questa gioia!»
Eleggere qualcuno per un incarico è cosa necessariamente divisiva: si creano partiti, ancorché informali e volatili, correnti, tendenze… ma chiunque bazzichi anche solo una sagrestia sa bene che partiti, correnti e tendenze esistono già, e comunque, a prescindere dalla formalizzazione esplicita di tali dinamiche. L’invito del papa a provvedere autonomamente a un’elezione non era dunque un modo per incitare a esacerbarle, bensì – al contrario – a regolarle e a renderle funzionali alla vita della Chiesa.
È questo quel che s’intende con “sinodalità” – parola che può considerarsi un sinonimo ecclesiastico-canonistico di “fraternità”. Non a caso Francesco aveva già ricordato il 10 novembre 2015, nella cattedrale di Firenze:
Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.
Si noti che quel giorno Francesco aveva in mente l’elenco delle “quindici malattie” diagnosticate alla Curia nel 2014: «Non spaventatevi – avrebbe detto un minuto dopo le parole lette or ora –, questo non sarà un elenco […] come quelle quindici che ho detto alla Curia!». Ecco però il punto: chi divinizza i capi
- non è umile anche se appare servizievole,
- non è libero perché non è disinteressato e,
- in forza di questi principali disordini, neppure è felice, cioè beato.
Il papa – dal vertice supremo della gerarchia della Chiesa cattolica – è troppo consumato conoscitore di queste dinamiche per trascurare il fatto che tale malattia abbia un suo tragico e proprio risvolto anche dalla parte dei superiori, i quali possono vigliaccamente approfittare della debolezza dei sottoposti per asservirli maggiormente (e diranno piuttosto “affiliarli” – con grave stupro semantico) in una catena di connivenze e (più o meno impliciti) ricatti.
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Tutti gli uffici amministrativi – ecclesiali o secolari – pullulano di queste dinamiche: proprio ieri un amico mi confidava alcuni suoi disagi sul lavoro, dato che in ufficio uno dei suoi superiori “lo fa crescere” (parole del mio amico), mentre un altro “lo tiene solo a lavorare”. Che intendeva, il mio amico, per “crescere”, e in cosa si differenzia il “crescere” dal “lavorare”? Nella fattispecie ci si riferiva all’avviare nuove piste produttive per essere maggiormente competitivi, e ciò implica l’acquisizione di nuove capacità (le famose skills): chi invece “ti tiene solo a lavorare” vuole che tu smaltisca pratiche senza perfezionare le tue capacità professionali.
Non si tratta – lo si capirà bene – di “fare carriera”, ma di trovare vera soddisfazione e vera realizzazione personale nel lavoro: ora questo atteggiamento, che è l’unico autenticamente umano e degno di una concezione alta dell’attività lavorativa, è trasversalmente funestato – nella Chiesa e fuori – dalla “malattia dell’idolatrare i capi”. Chiaramente il medesimo vizio è ben più grave se prospera negli ambienti di persone che fanno professione di vita redenta e rinnovata da Cristo.
La diagnosi della decima malattia è così severa che sembrerebbe difettare perfino di una cura (e oltretutto si potrebbe osservare che la “lealtà” costruita da quell’abito disordinato non è veramente tale): un’indicazione terapeutica può tuttavia rintracciarsi proprio nel “discorso di Firenze”, tra i primi e più vigorosi stimoli del papa a una vita ecclesiale autenticamente sinodale.
Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Due pilastri: le beatitudini e le parole del giudizio finale. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti.
Ispirarsi a Cristo, continuamente, mediante la preghiera e i sacramenti, è la chiave di volta per avviare un salutare sfrondamento dei disordini che viviamo rispetto alle gerarchie. Nella Chiesa e fuori.
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