Gli ultimi dieci anni di vita di un padre, visti con gli occhi di una figlia che ha avuto il dono di accompagnarlo a ricapitolare tutto mettendo la presenza della Misericordia dentro ogni evento lieto o tragico.
Provengo da una famiglia composta da otto persone (tra casa nostra e un bed & breakfast, poche differenze), ma ho avuto anch’io la mia vita da figlia unica, per una decina d’anni, prima di sposarmi.
Quel matrimonio combinato … da me
La prima ad andare via da casa è stata mia sorella, l’unica femmina, oltre me (femmina io, un parolone, ma prendiamolo come dato biologico). Era nove anni più grande. Io la notte, lei il giorno. Per questo mi sono chiesta più volte se, la teoria della mia adozione, propinatami da uno dei fratelli, fosse stata vera. Realmente.
Nel 1982 se n’è andata da casa. Io avevo 12 anni. Se n’è andata ‘per colpa mia’ perché lei (il giorno), era troppo timida per confessare la cotta che aveva preso per quell’altissimo bellissimo indiano, che guardava nuotare (per lo meno 25 vasche tutti i santissimi giorni di un’estate di appena 38 anni fa) nella piscina del nostro quartiere. Allora io (la notte) dodicenne senza paura, mi avvicino a quel bellissimo gigante e, con la testa tutta in su, altrimenti non riesco a vedergli neanche il mento, lo informo: “Lo sai che piaci un sacco a mia sorella?”
Dopo poche settimane si fidanzano, l’anno dopo sposi e il giorno successivo prendono il volo per l’America.
Dopo poche settimane si fidanzano, l’anno dopo sposi e il giorno successivo prendono il volo per l’America.
Brutti scherzi
Mia sorella mi voleva bene, tanto. Mi portava sempre con lei. Aveva una pazienza infinita.
Anche se ogni tanto mi chiamava cacchina (invece di Checchina). Nonostante questo, mi voleva davvero bene. Preferivo di granlunga quel nomignolo agli agguati notturni dell’altro fratello, che quando mi scappava la pipí, e stavo per mettere il piede per terra, dall’altra stanza, una voce gridava piano (per non farsi sentire dai miei) “attenta alla formichina rossa!“. E io, immancabilmente, me la facevo sotto. Sì, proprio sotto.
Anche se ogni tanto mi chiamava cacchina (invece di Checchina). Nonostante questo, mi voleva davvero bene. Preferivo di granlunga quel nomignolo agli agguati notturni dell’altro fratello, che quando mi scappava la pipí, e stavo per mettere il piede per terra, dall’altra stanza, una voce gridava piano (per non farsi sentire dai miei) “attenta alla formichina rossa!“. E io, immancabilmente, me la facevo sotto. Sì, proprio sotto.
Oppure quando, dopo cena, tornavo da casa di mio cugino che abitava a mezzo metro ed un cancello di distanza, e dalla finestra del piano di sopra partiva un ululato: “Beeeelfagoooor” e io tipo Mennea, prendevo la rincorsa nella speranza di trovare per lo meno il cancelletto aperto. Perché se era chiuso, l’ululato si faceva più incalzante e più pauroso di prima. Insomma il nomignolo “Cacchina” in confronto era una nota d’affetto.
Figlia unica, con tanti fratelli
Nel 1984 (o ’86..sono una sorella sciagurata) è andato via il secondo fratello. Nell’88 il terzo. Gli altri due nel 1996 sono stati ordinati sacerdoti, ma il seminario dura come minimo sei anni, mi sembra, quindi facendo i calcoli (con la calcolatrice perché sono un disastro in matematica) verso il 1990, circa, ero già sola dentro casa.
Il distacco è stato a rilascio lento, quindi non ho sofferto per la mancanza improvvisa della folla che si aggirava dentro casa dalla sera alla mattina. Ho avuto il tempo di realizzare, di abituarmi.
Ma la confusione dopo un po’, mi mancava. Avevo addirittura nostalgia di Belfagor e della formichina rossa, sua compagna fedele. Delle corse da un cancello all’altro, bianca dalla paura. E delle schitarrate di mio fratello per farmi addormentare, degli sconosciuti che vagavano per tutta casa come gente di famiglia, dei pranzi con gli zingari, delle risate, delle litigate, degli urli perché non capivo niente di matematica.
Ma la confusione dopo un po’, mi mancava. Avevo addirittura nostalgia di Belfagor e della formichina rossa, sua compagna fedele. Delle corse da un cancello all’altro, bianca dalla paura. E delle schitarrate di mio fratello per farmi addormentare, degli sconosciuti che vagavano per tutta casa come gente di famiglia, dei pranzi con gli zingari, delle risate, delle litigate, degli urli perché non capivo niente di matematica.
Già da allora.
Delle cene che non riuscivi a tirare su il braccio, perché con il vicino di cassapanca non eri vicino, eri praticamente fuso. Delle serate al drive in, che mi ficcavano nel sedile davanti, per terra, in mezzo alle gambe di mamma, perché prima in una macchina da cinque potevi stare anche in 8, bastava stringersi. E nessuno ti diceva niente.
Tutta quella vita un po’ mi mancava.
Tutta quella vita un po’ mi mancava.
La grazia di accompagnare mio padre
Ma in quei dieci anni da figlia unica ho ricevuto un regalo, una grazia.
Stare con mio papà.
Prima che si ammalasse e morisse. Ho avuto la grazia di viverlo. Di conoscerlo. Di ascoltarlo.
E lui spesso in quegli anni si raccontava. E non aveva timore di mostrare le sue vecchie fragilità. E di come Dio lo avesse cambiato. E in tutti i suoi racconti esondava una misericordia infinita e la Provvidenza di quel padre celeste che lui non aveva conosciuto da subito, ma che in seguito aveva capito essere l’unico che non lo avrebbe mai abbandonato.
E si raccontava. E io ascoltavo.
Stare con mio papà.
Prima che si ammalasse e morisse. Ho avuto la grazia di viverlo. Di conoscerlo. Di ascoltarlo.
E lui spesso in quegli anni si raccontava. E non aveva timore di mostrare le sue vecchie fragilità. E di come Dio lo avesse cambiato. E in tutti i suoi racconti esondava una misericordia infinita e la Provvidenza di quel padre celeste che lui non aveva conosciuto da subito, ma che in seguito aveva capito essere l’unico che non lo avrebbe mai abbandonato.
E si raccontava. E io ascoltavo.
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Padre – di Pietro Federico: «Senza darmi scampo, mia figlia mi costringe a desiderare l’eternità»
A vent’anni. Catturato dai tedeschi. Certo di morire. Una tra le notti più buie della sua vita. E la guardia lascia la porta aperta. Una distrazione? Un angelo.
Sgattaiolato dalla porta, corre fino alla mattina. 20 km in un solo respiro.
La Provvidenza.
Sgattaiolato dalla porta, corre fino alla mattina. 20 km in un solo respiro.
La Provvidenza.
Felice perché grato
E si racconta, ancora.
Ogni figlio nato, arriva un aumento o un premio per poterlo mantenere.
E ad ogni dolore che prova, la forza per poterlo affrontare.
E racconta, ancora.
E racconta, ancora.
In ogni ricordo, in ogni attimo della sua vita non può non vedere l’impronta lasciata da Cristo. E non gli va tutto bene, anzi. Ma il suo cuore è sempre grato, nonostante tutto. Anche quando la morte oramai lo sta braccando:
“Come Abramo, sono sazio di giorni”, dice.
E muore così, felice.
Perché non è la felicità che lo rende grato, ma la gratitudine che lo rende felice.
E lui, fino agli ultimi suoi respiri, è colmo di questa gratitudine. Dieci anni da figlia unica, dieci anni di grazia (e io che volevo sposarmi presto…il Signore fa davvero bene ogni cosa!)
“Come Abramo, sono sazio di giorni”, dice.
E muore così, felice.
Perché non è la felicità che lo rende grato, ma la gratitudine che lo rende felice.
E lui, fino agli ultimi suoi respiri, è colmo di questa gratitudine. Dieci anni da figlia unica, dieci anni di grazia (e io che volevo sposarmi presto…il Signore fa davvero bene ogni cosa!)