Pochi giorni fa mi hanno passato un articolo pubblicato su Il Post intitolato “cosa significa ‘studiare dai gesuiti’”. Eloquente il “catenaccio”:
Vi si legge, fra l’altro:
Al netto di alcune imprecisioni e/o semplificazioni, l’articolista scrive giusto. Ancora più interessante mi pare però il passaggio finale:
Qui sta da un lato ciò che mi fa particolarmente interessato all’argomento, nonché titolato a intervenire (anche io infatti “ho studiato dai gesuiti”, in Gregoriana e non solo); dall’altro ciò che mi fa molto critico sull’approccio che normalmente si ha al tema. Quando si sente o si dice “ha studiato dai gesuiti”, infatti, il piú delle volte non si pensa alla “sottigliezza dialettica” (che poi neanche sarebbe il cuore della questione), bensì alla “rete di conoscenze”, e a quel punto a poco giova precisare che non sarebbe “una rete di conoscenze clientelari”. Certo che lo è, o meglio… che può anche diventarlo: nessun gesuita serio ha mai preteso che la Compagnia, come la Chiesa stessa, sia immune dalla mondanità – e il martellante ammonimento di papa Francesco (gesuita) a riguardo dovrebbe dirla lunga…
In realtà, quando si dice o si sente “ha studiato dai gesuiti” quel che balena alla mente è perlopiù l’immaginario efficacemente descritto da Giuseppe Prezzolini all’inizio del Codice della vita italiana (che mi fece leggere appunto un gesuita):
I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi. Non c'è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all'agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso.
Giuseppe Prezzolini, Codice della vita italiana, artt. 1-2
La scrittura di Prezzolini è al contempo iperbolica e molto prosaica: è evidente che esageri, eppure pretende di non star esagerando affatto – un po’ come quella bizzarra schizofrenia per la quale, a prescindere dalle cose biasimevoli che si richiedono per essere della partita, nessuno tutti vorrebbero se non essere o passare per furbi almeno non essere o passare per fessi. Ecco: si guarda con un misto di ammirazione e invidia (due attitudini che, allo stato puro, sono simili ma assolutamente inconciliabili) a chi “ha studiato dai gesuiti” perché in fondo si pensa che sia un furbo (qualunque cosa “furbo” voglia dire)… o perlomeno che non passi per fesso (qualunque cosa “fesso” voglia dire).
A questo punto bisogna che io scopra un poco il mio punto e spieghi perché mi sta tanto a cuore la cosa, cioè che cosa significhi per me aver studiato dai gesuiti – cosa che evidentemente include i preziosi anni di formazione intellettuale in Gregoriana, ma non si limita a quelli.
Ora c’è uno scritto di un grande gesuita del secolo scorso (non l’ho citato tra quelli sopra solo perché non ho grande empatia teologica coi suoi scritti, di cui pure riconosco la grandezza) che mi fu raccomandato e citato da tre dei quattro gesuiti italiani di cui sopra: è il Discorso di Ignazio di Loyola a un gesuita odierno, che Karl Rahner scrisse nel 1978. Il genere del discorso fittizio (o della lettera fittizia) è molto congeniale allo spirito immaginifico esercitato dalla scuola ignaziana, e forse a qualcuno torneranno in mente le due Lettere di Silvano Fausti – rispettivamente a Sila e a Voltaire (altro celebre allievo dei gesuiti).
Ebbene, in questo saggio discorsivo Rahner tracciava un rapido ma denso consuntivo di tutta la storia della Compagnia, scendendo talvolta fin nelle sfumature delle storiche controversie de Gratia, ma si concentrava soprattutto sulla questione del senso e del destino del carisma gesuitico oggi (e sebbene nel mondo e nella Chiesa siano successe tantissime cose, dal 1978 in qua, possiamo ancora prendere per buono come nostro “oggi” quel suo “oggi” di allora). Nelle ultime pagine di quel denso saggio si trovavano finalmente alcune considerazioni su “la scienza nell’Ordine”, e dunque in senso lato sullo “studiare dai gesuiti”. Ne riporto qualche passaggio:
E poi, nel paragrafo dedicato alle possibili trasformazioni della Compagnia:
Negli ultimi passaggi di quel bellissimo saggio, “Ignazio Rahner” ricordava gli impegni che la Compagnia si assunse nel 1974, durante la sua storica XXXII Congregazione Generale, quando si ripromise di guardare al calo delle vocazioni e, piú in generale, alla crisi del proprio carisma nel panorama ecclesiale, come a un’occasione di rigenerazione:
Queste pagine mi confortano: leniscono l’irritazione che mi viene – a me che “ho studiato dai gesuiti”! – quando sento l’espressione “ha studiato dai gesuiti” e capisco o sospetto che s’intende il prezzoliniano “quello è un furbo!” (o l’italianissimo “quello non passa da fesso”). La vera scuola di Ignazio, quella che a pieno diritto e con cognizione di causa è chiamata “Compagnia di Gesú”, è invece l’esatto opposto: saremo anche furbi, ma ci prepariamo appunto a passare da fessi, se necessario. Una lezione autorevole sulla “scuola dei gesuiti” la dànno i testimoni ignaziani per eccellenza, i martiri della Compagnia: proprio sabato si festeggiavano san Paolo Miki e i suoi venticinque compagni, i quali nel 1596 furono crocifissi dai furbi, che in Giappone s’illudevano di reprimere in tal modo la diffusione dell’Evangelo. Nel gruppo c’erano altri due gesuiti giapponesi (“traditori della patria”), sei frati missionari spagnoli e diciassette giapponesi che, guidati da questi, si erano fatti terziari francescani. Ecco: questo vuol dire veramente “aver studiato dai gesuiti”, stare nella Compagnia di Gesú, ovvero stare in compagnia di Gesú.