Una verità scomoda: in Italia crescono in maniera esponenziale i ‘figlicidi’ o meglio chiamarli ‘bambinicidi’. Nessuno ne parla. Sarebbe bene, dicono, rimuovere.
Sono numeri impietosi ed è sempre difficile raccontare le storie di questi bambini che hanno avuto interrotta la vita dalle mani delle proprie madri e dei loro padri.
Spesso la cronaca non mette neanche i nomi dei bambini, qualche volta si legge: Diego e Elena, gemelli; Livia e Alessia, anche loro gemelle; Elena e Thomas; Alessia, 18 mesi. E tanti altri: 499 nomi che con tenerezza elencherei tutti.
I numeri di questa strage
I numeri, la strage continua. Stando ai dati forniti dall’Istat ad HuffPost, dal 2006 al 2017, in Italia sono stati uccisi 34 neonati – vittime del cosiddetto “infanticidio” – mentre dalle stime del Ministero dell’Interno risulta che negli ultimi due anni, gli omicidi volontari di cui sono stati vittime minori sono 36 – precisamente 21 nel 2017 e 15 nel 2018 – con un calo del 28,75 per cento. Nel decennio compreso tra il 2004 e il 2014 i bambini uccisi dai genitori o in ambito familiare sono stati circa 245 ( è un conteggio scaturito dalle cronache9 e il primo rapporto sul figlicidio pubblicato dall’Istituto di ricerca Eures nell’ottobre 2015 consegnava altri dati rilevanti: nei quindici anni compresi tra 2000 e 2014 sono stati 379 i figli uccisi da un genitore – padre o madre – naturale o acquisito.
Uccisi da padri, da madri e anche dai compagni, spesso occasionali. Non possiamo non definirla una tragedia.
L’anno più orribile è stato il 2014, con 39 figlicidi, uno ogni 10 giorni, e un incremento sia rispetto ai 22 dell’anno precedente – 77,3 per cento – sia alla media, circa 25 ogni dodici mesi, del quindicennio considerato. Sempre da fonte Eures risulta che nei tre anni successivi, i figlicidi sono stati in totale 68 – nel dettaglio 18 nel 2015, 25 nel 2016 e 25 nel 2017. Quindi, dal 2000 al 2017 nel nostro Paese 447 bambini sono morti per mano dei genitori o familiari. Nel 2018 sono stati 33 e nel 2019, 19. Un totale di 499 bambini uccisi da coloro che dovevano proteggerli o e tutelarli. Anche il 2020 si è macchiato di sangue innocente e i sorrisi spensierati dei bambini ritornano, con dolore e lacrime, alla nostra memoria.
Questa tragedie, che spesso si consumano nel silenzio, sono molte di più di quel che si immagina e c’è molto da fare, in termini di supporto ai genitori, di sostegno ai bambini esposti ad abusi e maltrattamenti e di sensibilizzazione alle segnalazioni e alle denunce.
Bambini piccolissimi, tanti e poco meno di adolescenti.
Cancellati come un file, cestinati per essere dimenticati. Cosa che in effetti accade. Nessuno li ricorda più, se non i familiari o i compagni di banco a scuola.
La scarsa attenzione e la poca presa in carico di questa disgrazia si aggiunge a tante altre situazioni tragiche che vivono i bambini.
Una società che non protegge i propri bambini è da considerare fallimentare, nonostante gli sforzi programmatici a stento delle agende politiche e della destinazione di risorse e di sostegno.
La fragilità genitoriale.
Uccidere i bambini è la chiara manifestazione non solo di un disagio e malessere ma della demolizione e del crollo della capacità di assunzione di responsabilità degli adulti considerando spesso i bambini mero oggetto di godimento e consumo personale: desidero, ottengo, godo e scarto. Elimino per evitare che altri possano gioire di felicità.
Quante difficoltà si riscontrano nei genitori, aumentati in questo tempo di confinamento sociale a casa a causa della pandemia, non solo per l’aumento delle fragilità adolescenziali (tentati suicidi) ma anche sovraesposizione incontrollata nei social (adescamento online) o le violenze fisiche e sessuali in famiglia.
Sofferenza psichica, sociale ed educativa che se sostenute potrebbero modificarsi positivamente.
Urge la necessità di sostenere la genitorialità fragile in una chiara prospettiva preventiva per evitare l’irreparabile che è il disagio e la violenza ma anche la soppressione dei bambini in famiglia.
Chi può fare qualcosa, lo faccia.
Se i bambini sono figli di tutti, della Chiesa e della Società, tutti possiamo fare qualcosa.
Penso alle Diocesi e alla pastorale delle famiglie con un rilancio dei ‘consultori familiari’ e dei variegati ‘centri ascolto’ aiuto delle famiglie alle famiglie più deboli, fragili, bisognose di supporto in e con quel raccontarsi per essere ascoltate e accompagnate.
Se la famiglia è ‘chiesa domestica’ questa chiesa si faccia prossima alle altre ‘chiese più fragili, deboli, perseguitate’ nella quotidiana esistenza.
Da qui si può ri-partire. L’esperienza condivisa sia il primo passo. Speriamo che Rachele non pianga più i suoi figli.