Probabilmente non conosceremo mai il nome del suo autore, ma già la storia di questo gioiello di poesia e di teologia – condiviso tra le Chiese cattoliche e ortodosse e le comunità ecclesiali luterane e anglicane! – racconta i tornanti sorprendenti in cui l’annuncio evangelico (e anzitutto angelico) ha preso la carne della vicenda umana.
Il Gloria è un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello. Il testo di questo inno non può essere sostituito con un altro. Viene iniziato dal sacerdote o, secondo l’opportunità, dal cantore o dalla schola, ma viene cantato o da tutti simultaneamente o dal popolo alternativamente con la schola, oppure dalla stessa schola. Se non lo si canta, viene recitato da tutti, o insieme o da due cori che si alternano.
Lo si canta o lo si recita nelle domeniche fuori del Tempo di Avvento e Quaresima; e inoltre nelle solennità e feste, e in celebrazioni di particolare solennità.
Ordinamento Generale del Messale Romano 53, Messale Romano (III ed.), p. XXIV
Così il testo fondamentale della liturgia cattolica presenta oggi, nella sua versione autentica più aggiornata, il Gloria. Probabilmente queste poche righe bastano a farci scoprire cose che forse ignoravamo: ad esempio che il testo dell’inno non può essere sostituito con un altro – e il pensiero non può non andare ai tanti canti “all’aroma di Gloria” che una certa ingenua avventatezza pastorale ha permesso di prosperare.
Il Gloria è stato poi in questi mesi al centro di non poche attenzioni, in quanto nel suo testo ha luogo una delle varianti dell’edizione italiana del Messale: un dettaglio che ha avuto meno fortuna di altri, in merito al “nuovo Messale”, è che ai testi italiani del Gloria, del Credo, del Santo, del Padre nostro e dell’Agnello di Dio sono stati giustapposti i corrispettivi latini, con l’intenzione di farli conoscere a tutti i fedeli (secondo il dettato del Concilio Vaticano II…).
Don Paolo Tomatis ha spiegato così il cambiamento macroscopico nel Gloria:
[…] nell’inno del Gloria, la frase “e pace in terra agli uomini di buona volontà” sarebbe dovuta diventare “e pace in terra agli uomini che egli ama”, in linea con la nuova traduzione CEI di Lc 2,14. Ma un’attenzione alla contabilità ha portato a modificare la traduzione in “e pace in terra agli uomini, amati dal Signore”.
Paolo Tomatis, Al servizio del dono, 23
Lo stesso sacerdote sarebbe tornato poche pagine più tardi a riflettere sul cambiamento:
Rispetto al testo precedente, che seguiva l’antica traduzione latina della Vulgata di Girolamo (et in terra pax hominibus bonæ voluntatis) si è più fedeli all’originale greco del testo di Luca, dove gli uomini sono oggetto della benevolenza e dell’amore di Dio.
Ivi, 31
Che l’espressione “bonæ voluntatis” sia stata (e tuttora sia) comunemente fraintesa, come se di questa “buona volontà” gli uomini fossero soggetto e non oggetto, trapela in modo palmare nell’uso che nella retorica ecclesiastica (e perfino nel magistero pontificio) si fa della locuzione “gli uomini di buona volontà” per indicare quanti non hanno accolto la fede ma si sforzano di vivere bene. Si ha talvolta l’impressione che per controbilanciare questo eccesso semantico si tenda da un po’ a tradurre il greco “εὐδοκία” [eudokía] con termini che enfatizzino l’iniziativa di Dio (talvolta anche un po’ depauperandone la specificità lessicale, ad esempio rendendolo con “amore”): ciò riguarda però più la versione CEI 2008 che il Messale, in senso stretto.
Per una storia del Gloria
Tornando invece alla nota dell’Ordinamento Generale, vale la pena di tracciare una storia (per quanto succinta) di quest’“inno antichissimo e venerabile”, che condividiamo non solo tra Chiese cattoliche e ortodosse, ma pure con le comunità ecclesiali luterane e anglicane.
È relativamente noto che del testo latino del Gloria si attribuisca la paternità a Ilario di Poitiers (dunque siamo in pieno IV secolo): esso sarebbe però stato prodotto come traduzione di un più antico testo greco, che il Liber Pontificalis attesterebbe essere stato adottato nella liturgia romana di Natale da papa Telesforo (il quale avrebbe forse seduto sulla cattedra romana nella quarta decade del II secolo). La stessa fonte vuole che invece sotto papa Simmaco (498-514) l’inno sia stato adottato anche per le domeniche e per le feste dei martiri (ma soltanto delle messe pontificali – ossia quelle presiedute dai vescovi).
Più tardi il “privilegio” del Gloria sarebbe stato esteso a tutti i preti, anzitutto per la solennità di Pasqua e per il giorno della loro ordinazione, quindi (siamo però oltre il giro di boa del secondo millennio) per tutte le altre domeniche. Tutte eccetto quelle di Quaresima, e a partire dal XII secolo si sarebbero eccettuate anche quelle di Avvento, che cominciavano a prendere una connotazione marcatamente penitenziale.
Nella riforma liturgica voluta dal Concilio di Trento, il Gloria avrebbe ricevuto attenzione rituale con alcune sottolineature gestuali e di posa: il sacerdote lo intona infatti tenendo le mani estese ad altezza di spalle e giungendole sulla parola “Deo” (dunque alla fine del primo verso); per tutto il resto della proclamazione resta in piedi, ma inchina il capo (verso il crocifisso posto sull’altare fra i candelieri) sulle parole “adoramus Te”, “gratias agimus Tibi”, sulle due ricorrenze di “Iesu Christe”, sul “suscipe deprecationem nostram” e sull’ultimo verso.
Tali riverenze valevano sia per chi celebrava sia per i sacerdoti che eventualmente “assistessero coralmente” alla celebrazione: ancora oggi nelle grandi solennità i canonici in abito corale (che stanno seduti durante il Gloria) si tolgono il tricorno sui suddetti passaggi. Il Messale riformato non suggerisce più alcunché, in merito a postura e gesti (salvo il fatto che si resti in piedi), ma non è infrequente che i sacerdoti compiano almeno i due inchini di riverenza sui due passaggi in cui viene nominato “Gesù Cristo”: il gesto è tanto naturale e significativo che lo si trova espletato anche da sacerdoti giovani (dunque non solo da chi “era cresciuto con la Messa tridentina”), e che viene spontaneamente imitato da non pochi laici – senza che alcunché lo proibisca o anche solo lo sconsigli.
Per una “preistoria del Gloria”
Fino a questo punto è tutto relativamente semplice (e molto di più si potrebbe spaziare comparando gli usi liturgici delle varie Chiese e comunità ecclesiali): se vogliamo capire, però, che cosa significhi il Gloria e il suo posto nella Messa, dobbiamo implementare quanto abbiamo detto con ciò che si può ricostruire della sua “preistoria”, ossia su ciò che – per definizione – non ci è stato documentato direttamente, e che dunque possiamo ipotizzare solo per via di (prudente) illazione a partire da accenni di terze parti.
Anzitutto il genere letterario: sembra di potersi attestare che chiunque abbia scritto il Gloria, verosimilmente in greco, abbia inteso anzitutto e soprattutto comporre uno “ψαλμός ἰδιοτικός” [psalmòs idiotikòs], cioè (malgrado il suono non si tratta di un insulto) un canto religioso per la preghiera personale, insomma ciò che più tardi avremmo definito “inno sacro”. La fortuna di un tale testo dipende sostanzialmente dalla diffusione che ha e dall’accoglienza che riceve: ieri come oggi, poteva semplicemente restarsene negletto in un cassetto oppure essere promosso e proposto fino a risultare incastonato nella liturgia ecclesiale (altri celebri esempi di questo genere letterario sono il Te Deum in latino e il Φῶς ἱλαρὸν [Phos hilaròn] in greco).
Ricordavamo come la prima attestazione nota del Gloria rimandi a papa Telesforo e alla sua collocazione nella liturgia notturna del Natale, probabilmente proprio perché il primo distico dell’inno ricalca il testo di Lc 2,14 (ragion per cui lo si sarebbe perifrasticamente indicato come “laus angelorum”): sembrerebbe però di potersi collocare il primo uso del testo originario (peraltro ipotetico, cioè ignoto a noi) negli uffici del Mattutino e delle Lodi – dunque contesti di preghiera che hanno a che fare con le tenebre, con la luce e con la scomparsa delle prime all’apparire della seconda (esplicita allegoria cristologica).
Tali uffici, che oggi ci appaiono (e sono) peculiari della Liturgia delle Ore cristiana, nascono da un contesto di forte osmosi con il sostrato giudaico che le comunità ebraiche della diaspora custodivano e tramandavano. Studiosi come David G. Flusser hanno condotto minuziose ricerche comparando preghiere giudaiche quali la Kedushàh con i testi cristiani che ne sono risultati (primi fra tutti il Gloria e il Sanctus). Si tratta di studî tanto complessi quanto poco certi, e non è possibile neanche abbozzarne un riassunto in questa sede: è però importante tener presente che, nella genesi dei testi eucologici cristiani concorrono (almeno)
- il sostrato giudaico,
- i differenti usi ecclesiali.
Ad esempio, alcune Chiese potrebbero aver mutuato l’uso dal contesto giudaico, altre potrebbero averlo adattato alla propria legittima sensibilità: il tutto senza contare che ciò non ci dice ancora qualcosa sull’intenzione originaria dell’autore dell’inno, la quale anzi sembra destinata a restare segreta per sempre.
Perché il Gloria nella Messa
A partire da tante e tanto disparate premesse, sarebbe temerario pensare di poter tracciare un’unica e onnicomprensiva “teologia del Gloria nella Messa”, ma in una pagina di un suo classico Joseph Ratzinger raccoglieva da par suo alcuni degli spunti offerti dall’uso della dossologia maggiore (il Gloria, appunto) nella Liturgia Eucaristica:
Si era convinti [nella prima età cristiana, N.d.R.] che tutto dipende dall’essere nel giusto rapporto con Dio, dal conoscere ciò che a Lui piace e come si può a Lui rispondere nel modo giusto. Per questo motivo Israele ha ama|to la Legge: in base ad essa si sapeva qual è la volontà di Dio; così si sapeva come vivere rettamente e come onorare Dio nel modo giusto: facendo la sua volontà, che mette in ordine il mondo, perché lo apre verso l’alto. E questo costituiva la gioia nuova dei Cristiani, che ora grazie a Cristo sapevano finalmente come Dio deve essere glorificato e come proprio in questo modo il mondo diventa giusto. Che ambedue le cose vadano insieme lo avevano annunciato gli Angeli nella notte santa: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama», così essi avevano detto (Lc 2,14). La gloria di Dio e la pace sulla terra sono inseparabili. Dove Dio viene escluso, si sgretola la pace sulla terra e nessuna ortoprassi senza Dio ci può salvare. Non esiste, infatti, l’agire in modo giusto senza la conoscenza di ciò che è giusto. La volontà senza conoscenza è cieca, e così le azioni, l’ortoprassi, senza la conoscenza sono cieche e conducono nell’abisso.
Joseph Ratzinger, Eucaristia, comunione e solidarietà in Opera Omnia 11, 487-488
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