Il fondatore di “Comunità Nuova” di Milano e cappellano del carcere minorile “Beccaria” racconta la decisione di adottare i suoi ragazzi
C’è un prete che ha tre figli. Si chiama don Gino Rigoldi. Fino a qualche tempo ne aveva quattro, ma poi uno è morto in un incidente stradale. E non ha solo dei figli adottati legalmente, che portano il suo cognome.
Sta accogliendo a casa sua anche otto ragazzi apolidi, che non hanno alcun punto di riferimento. Loro non riesce ad adottarli, ma li sente lo stesso come figli suoi.
L’incidente stradale e la “fuga” a Malta
Don Gino Rigoldi, 81 anni, vive a Milano dove ha fondato la “Comunità Nuova”, una onlus che gestisce situazioni difficili e di degrado per giovani soli e abbandonati. E’ tra questi che ha “generato” la sua famiglia attuale.
«Avevo quattro figli – spiega al Corriere della Sera (30 gennaio 2021), poi uno è morto in un incidente di moto. Quindi ne stavo per adottare un altro, quando il fratello di questi è intervenuto e si è opposto. Se l’è portato a Malta, dice “per salvarlo”. Ma che ti vuoi salvare in quel paradiso fiscale? Allora è adottato a metà, aspetto pazientemente che si ripresenti per cercare aiuto. Ma se sono stranieri, spesso senza documenti e dunque nemmeno una identità, se rischiano l’espulsione e, a causa dei reati, nessuno li vuole in casa, che devo fare? Li adotto. Punto».
Le adozioni di don Gino Rigoldi
Quando parla di «figli» don Rigoldi, non sta usando metafore. Lui ha adottato legalmente ragazzi difficili, ha dato il suo cognome a persone apolidi che altrimenti difficilmente potrebbero restare in Italia. Tanto è vero che una volta la funzionaria del Tribunale, firmando l’ennesima carta di affidamento, sbottò: «Oh don Gino, ora basta figli eh». Ma il cappellano del carcere minorile «Beccaria» di Milano non si ferma di certo davanti alla burocrazia.
Il primo giorno al “Beccaria”
Don Gino è conosciuto per essere dal 1972 diventa cappellano del “Beccaria”. I suoi ricordi sono lucidi e racconta alla cronista del Corriere il primo giorno nel penitenziario. «Arrivo e scopro che un ragazzo, un certo Angelo, stava uscendo dal carcere. “Dove vai adesso?”, gli chiesi. “Eh don, vado a cercare una macchina, dove vuoi che vada”. Voleva dire: cerco una macchina da scassinare per dormirci dentro. Facevano e fanno tutti così, non spalanchi gli occhi. Gli dissi: “Senti, ho una stanza in più, vieni da me. Un mese dopo ne avevo trenta di questi per casa. Una settimana dopo avevo già sette collaboratori volontari».
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Da Comunità Nuova a Netflix
Così che nacque la base di volontari che ha fondato, insieme a lui, Comunità Nuova, alla periferia ovest di Milano. «Certo, i vicini del quartiere non erano felicissimi di questi esperimenti di comunità negli appartamenti. Ma che cosa dovevamo fare? Oggi la gente guarda “SanPa” su Netflix e spalanca gli occhi, ma la situazione era davvero così: lo Stato non era preparato ai problemi dei giovani. O non voleva guardare e si girava dall’altra parte o non sapeva che cosa fare. Tutto era affidato alla buona volontà di alcune persone».
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“Uno dei miei ragazzi è un importante imprenditore”
La domanda che oggi si pone più spesso don Gino Rigoldi è «come ricominciare? Ho dedicato una vita alle persone che non sanno da dove ripartire dopo il carcere. La giustizia fa il suo corso ma poi? Dove vanno quando escono? Alcuni di loro nemmeno hanno il biglietto del tram. Chi ci pensa a una persona quando esce dalla galera e magari nemmeno sa dove andare?»
«Già, perché questi delinquentoni, come li chiamo io, scappano, ne fanno di ogni ma poi finiscono i soldi e dove vanno? Tornano da me – chiosa Don Gino – Qualcuno però ce la fa. Oggi uno dei miei “ragazzi” è un importante imprenditore del centro sud, con moglie e figli».
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