La risposta è “no”. Ma deve essere una felicità non posseduta, ma di colpo condivisa. Una felicità segnata dalla “bontà”. Ecco come praticarla
Facciamo bene a essere felici se siamo circondati da tanta sofferenza? Mai domanda è più calzante nel tempo della pandemia, che sta procurando difficoltà e lutti a milioni di persone nel mondo. Proprio in questo periodo, la parola felicità è tutt’altro che un sentimento scontato.
Eppure chi vive momenti di gioia non può essere “condannato”. La Comunità di Taizè ci aiuta a rispondere, con l’ausilio di testi biblici, alla domanda iniziale.
Gioire e piangere secondo San Paolo
Il soffio di Dio in noi è gioia profonda. Quando siamo felici, siamo in accordo con Dio. Ma quando altri soffrono, la nostra felicità è in disaccordo con la loro sofferenza. Per questo l’apostolo Paolo scrive: sì, «rallegratevi con quelli che sono nella gioia», ma anche «piangete con quelli che sono nel pianto» (Romani 12,15). La gioia è certo ciò per cui noi siamo fatti. Ma di fronte alla sofferenza degli altri, è piangendo che siamo nella verità.
Leggi anche:
La felicità esclude la sofferenza? È solo “happiness”?
Le felicità che ci offendono
La felicità può essere offensiva per coloro che ne sono esclusi. La soddisfazione di chi è riuscito in qualcosa può far male a quelli che hanno fallito. Il giubilo di chi si ama provoca pena a coloro che sono lasciati. Quando coloro che sono felici mi fanno sentire un malizioso piacere di avermi soppiantato, la loro felicità diventa francamente insopportabile.
La felicità può essere offensiva non per cattiva intenzione: Gesù dipinge in una parabola la felicità di un ricco «che conduce una vita gioiosa e brillante» senza neanche accorgersi del povero Lazzaro seduto alla sua porta (Luca 16,19-21).
Le tristezze che fanno meno male
Piangere vale di più di una simile felicità. Ma come Paolo può scrivere: «Siate sempre lieti»? (Filippesi 4,4). Se ci sono delle felicità che offendono, ci sono anche delle tristezze che fanno male. Quando sono triste e abbattuto, non attendo da coloro che mi sono vicini che mi opprimano con la loro tristezza aggiungendo la loro malinconia al mio dolore.
Che fare allora quando altri soffrono? Restare gioiosi, con il rischio di offendere con la nostra felicità coloro che ne sono esclusi? O essere tristi, con il rischio di far pesare la nostra tristezza su una disgrazia già pesante da portare?
Leggi anche:
Felicità, come raggiungerla: consigli per i giovani
La vera gioia irradia bontà
«Siate sempre lieti». Paolo prosegue: «La vostra amabilità sia nota a tutti» (Filippesi 4,5). La gioia di cui parliamo irradia dunque la bontà, una dolcezza. Questa gioia è innanzitutto interiore. Talvolta, è quasi impercettibile e non si nota con nessun segno esteriore. Essa tocca delicatamente. Come nel freddo dell’inverno, si sta bene accanto ad una stufa che emana calore, è bene, nella disgrazia, stare vicino a qualcuno la cui gioia profonda emani la bontà.
Il segreto della felicità che “non offende”
Qual è il segreto di una felicità che non offende, ma è d’aiuto a coloro che soffrono? È di essere una gioia di povero, una felicità non posseduta, ma di colpo condivisa.
Impedirsi d’essere felici quando altri soffrono potrebbe portare a una comune disperazione. Abbiamo di meglio da fare per coloro che sono infelici. Una cosa preziosa che possiamo offrire, è la nostra lotta nascosta per custodire la gioia dello Spirito santo, la gioia che diffonde bontà e comunica forza e coraggio (Taizè.fr).
Leggi anche:
Il segreto della felicità di San Giuseppe durante la sua vita