Una volta si insegnava ad accusare i peccati secondo “genere, specie e numero”: l’impostazione poteva suonare antipatica e inibitoria, ma la sua ragione era pedagogicamente funzionale alla liberazione del peccatore. Il tempo della Confessione è quello del passato: il sacramento non cancella i difetti, ma alcune colpe precise e trascorse, che sono alle spalle e che la grazia di Dio distanzia definitivamente da noi.
«C’è un tempo per tutto, sotto al sole», dice l’Ecclesiaste. C’è anche un tempo per confessarsi, e la Quaresima ormai alle porte sarà un momento privilegiato per questo. Esiste poi anche un tempo grammaticale per confessarsi, e questo è il passato prossimo. In effetti, nel sistema verbale il passato prossimo esprime un’azione puntuale che si è svolta nel passato e che lì è terminata. Ora, un peccato è un’azione puntuale che si è svolta nel passato e che lì è terminata: né il presente né il futuro, né i modi diversi dall’indicativo (come il condizionale) possono aiutarci nella confessione. Né l’ipotesi né l’immaginario hanno a che fare con la confessione di un peccato: neanche la previsione di un atto futuro può essere oggetto di confessione, e tantomeno l’istante presente, visto che nell’istante presente della confessione… vi state confessando (e non è un peccato). Provo a spiegarmi meglio.
Una presa di distanza
Se il peccato è un atto malvagio realizzato con piena avvertenza e deliberato consenso (tutti gli elementi sono necessari perché il peccato si dia nella sua piena gravità), allora esso non può che essere un atto del passato. La sua confessione dovrà dunque essere svolta al passato prossimo: ho detto, ho pensato, ho fatto, ho omesso di fare… L’uso di questo tempo è liberatorio. Perché? Esso mette le nostre azioni malvagie nel passato e non accusa il nostro oggi. Talvolta ascolto confessioni come “sono pigro”, “sono goloso”, “sono iracondo”, “sono geloso”… Va bene, capisco cosa la persona voglia dire, ma in queste frasi non viene oggettivamente accusato alcun peccato: esse esprimono (e producono) anzi un senso di colpa tanto diffuso quanto vago e sterile, che può anche risultare sconfortante e controproducente. Perché l’“io” che si confessa è una persona voluta da Dio, infinitamente amata da Dio, salvata da Cristo, santificata dallo Spirito e che viene a chiedere perdono al suo creatore delle colpe morali. “Io” è un essere buono che ha commesso peccati, come ogni essere umano. La confessione permette di frapporre una distanza tra la persona e i suoi atti malvagi, di nominarli, e il Signore ci dice: «Non ti confondo con il tuo peccato; hai ai miei occhi un valore infinitamente più grande del male che hai potuto commettere».
Confessare un atto
Confessarsi al passato prossimo obbliga a guardare il passato nominando degli atti – «in pensieri, parole, opere o omissioni» –: non ci si confessa per il proprio temperamento o per il carattere, per una tendenza, per una fragilità esistenziale, e neppure genericamente di “un vizio” (in quanto abito): ci si confessa per degli atti malvagi. Confessarsi in modo troppo generale può essere un modo di svicolare davanti al confessore, ma non ci aiuta: se non si arriva a nominare obiettivamente le colpe commesse, e in modo preciso, non riusciamo a progredire. Se sono accidioso ma per tutta la settimana non ho mancato ai miei doveri, allora non ho commesso peccati anche se vi sono stato tentato, e benché io mi senta accidioso. Una sensazione non è un atto libero: è uno stato del nostro spirito che ci si impone. Se per la mia pigrizia non ho compiuto questo o quel compito, con riferimento preciso, allora si può giustamente parlare di una colpa.
Questa precisione non serve ad alimentare una malsana curiosità del confessore, una sua intrusione indebita o una mancanza di pudore: essa ci permette di vedere la realtà della nostra vita attraverso gli atti posti, e libera la nostra coscienza da tutto quello che non è obiettivamente un peccato, e che talvolta è solo frutto del nostro sentire. Dio non è un perverso dedito a inculcare il senso di colpa per denigrarci: egli è il Dio dell’Alleanza che ci vuole liberare. Ora, la confessione è il luogo di una liberazione interiore al servizio dell’Alleanza conclusa con il Signore il giorno del nostro battesimo.
Riprendere la strada
Ovviamente possono darsi delle eccezioni, quando una persona si è posta in una situazione di peccato che dura nel tempo: ho lasciato i miei genitori da soli; vivo in adulterio; non prego più… Al principio però c’è sempre un atto puntuale, e libero, che ci ha fatti uscire di strada; la conversione consiste nel riprendere la strada che porta alla Salvezza.
Leggi anche:
Come si fa a capire quando un peccato è “veramente mortale”?
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]