Una tragedia enorme che ci fa chiedere: dobbiamo solo sorvegliare i nostri figli o possiamo accompagnarli nella scoperta delle potenzialità buone della tecnologia? Ne abbiamo parlato con Stefania Garassini.Si chiamava Antonella ed è morta a soli 10 anni a Palermo. Sui giornali è diventata l’ennesima ragazza giovanissima vittima di una sfida di soffocamento su TikTok, la Blackout challenge.
Donati gli organi, TikTok fa le condoglianze
Quando la giovane è arrivata in ospedale i medici hanno riscontrato un’encefalopatia post-anossica prolungata. Le sue condizioni sono apparse subito critiche e, poche ore dopo il ricovero in terapia intensiva, è stata dichiarata la sua morte cerebrale.
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La famiglia è distrutta da questa tragedia, peraltro la mamma è in avanzato stato di gravidanza, in attesa del quarto figlio. Si è saputo oggi che gli organi della piccola sono stati donati per i trapianti:
Sono stati espiantati e subito destinati a trapianti gli organi della piccola palermitana, deceduta dopo una presunta sfida estrema di soffocamento su TikTok. I medici hanno operato tutta la notte dopo che ieri era stata dichiarata la morte cerebrale e i genitori avevano dato il loro consenso, compiendo, pur travolti dal dolore, una scelta generosa e straordinaria. (da AGI)
Nelle linee guida della community di TikTok c’è una sezione dedicata al suicidio e all’autolesionismo, si proibisce che vengano caricati video che promuovano il suicidio e l’autolesionismo. Perciò il social network ha rilasciato una dichiarazione ufficiale per mettere in chiaro la propria estraneità ai fatti:
Un portavoce di TikTok ha espresso vicinanza ai cari della bambina per la tragedia: “Siamo davanti ad un evento tragico e rivolgiamo le nostre più sincere condoglianze e pensieri di vicinanza alla famiglia e agli amici di questa bambina. La sicurezza della community TikTok è la nostra priorità assoluta, siamo a disposizione delle autorità competenti per collaborare alle loro indagini – si legge – Nonostante il nostro dipartimento dedicato alla sicurezza non abbia riscontrato alcuna evidenza di contenuti che possano aver incoraggiato un simile accadimento, continuiamo a monitorare attentamente la piattaforma come parte del nostro continuo impegno per mantenere la nostra community al sicuro. Non consentiamo alcun contenuto che incoraggi, promuova o esalti comportamenti che possano risultare dannosi. Utilizziamo diversi strumenti per identificare e rimuovere ogni contenuto che possa violare le nostre policy”. (da Il Riformista)
Una risposta chiara è arrivata: dal 9 febbraio 2021 TikTok bloccherà tutti gli utenti italiani e chiederà di indicare di nuovo la data di nascita prima di continuare ad utilizzare l’app. Ogni utente al di sotto dei 13 anni verrà rimosso. Ma come identificarlo con certezza e al di là degli escamotage possibili? Anche su questo aspetto il Garante ha chiesto a Tik Tok di adoperarsi con solerzia: la società si è impegnata a valutare ulteriormente l’uso di sistemi di intelligenza artificiale.
Alexandra Evans, Head of Child Safety, TikTok – Europe ha dichiarato:
“Quando si parla di proteggere i nostri utenti, specialmente quelli più giovani, non esiste un traguardo finale – aggiunge – e, di conseguenza, il nostro lavoro in questo ambito non si fermerà. Ecco perché continuiamo a investire nelle persone, nei processi e nelle tecnologie che aiutano a mantenere la nostra comunità uno spazio sicuro per un’espressione positiva e creativa” (da Ansa)
TikTok si è anche impegnata a duplicare il numero dei moderatori di lingua italiana dei contenuti presenti sulla piattaforma. Il Garante della privacy, in collaborazione con Telefono Azzurro, una campagna di sensibilizzazione sulle tv nazionali con l’obiettivo di richiamare i genitori a svolgere un ruolo attivo di vigilanza.
Solo l’ennesima tragedia?
Dare questa notizia è dovuto, il modo in cui diffonderla e approfondirla è una questione più delicata e seria. Non sono mancate testate che hanno elencato nei minimi dettagli come si sarebbe svolta la tragedia, ma non ci pare questa la via. Nessun plastico o ricostruzione 3D degli ultimi istanti di vita di Antonella ci offrirà una spiegazione che metta in pace il tormento del cuore. E neppure un’invettiva su giovani e abuso di social network ci sposterà un millimetro più avanti nella sfida educativa che ci spetta quotidianamente come genitori.
Lo smartphone, questa presenza costante e ingombrante. I social networks, tanto utili in mezzo alla pandemia ma sempre più a rischio di diventare un orizzonte totalizzante. Come uscire dal cortocircuito delle pure lamentele contro i social networks? Come giudicare insieme ai nostri figli queste notizie?
Abbiamo voluto parlarne con un’autrice che ci aveva già offerto degli spunti di riflessione quando uscì il suo libro Smartphone, 10 ragioni per non regalarlo alla Prima Comunione. Stefania Garassini è docente di Editoria Multimediale, Content Management e Digital Journalism all’università Cattolica di Milano e come giornalista collabora con Avvenire e Domus. E’ presidente di Aiart Milano insieme a cui ha lanciato, con la collaborazione di Corecom Lombardia, il sito Orientaserie che offre recensioni di film come occasioni educative, come proposte di sguardo sul mondo e sull’uomo da portare ai ragazzi. Le abbiamo chiesto di aiutarci a guardare alla tragedia di Palermo come dolorosa occasione per rimettere al centro del discorso il grande bene che c’è nel cuore dei nostri figli e la nostra responsabilità a custodirlo.
Cara Stefania, grazie della tua disponibilità. Torna tragicamente alla ribalta della cronaca la notizia di una sfida su Tik Tok che uccide. Queste challenge sono il problema o dobbiamo guardare altrove?
L’idea del soffocamento non è nuova, le mie figlie me ne parlavano già anni fa quando TikTok ancora non esisteva. Era una sfida che si faceva a scuola e l’ambiente scolastico si era allertato su questa tendenza preoccupante. In quel caso era una sorta di gioco tremendo che si faceva insieme ai compagni. Stiamo quindi parlando di una situazione in cui c’era la presenza di altre persone. Era già una cosa pessima, ma l’approdare di queste sfide sui social come Tik Tok comporta un’aggravante: non c’è nessuno presente mentre il ragazzo o la ragazza fa la sfida. C’è soltanto il telefono, anche se l’illusione è che dall’altra parte siano presenti in tanti.
Dunque non è la tecnologia che ha inventato questo fenomeno, c’era già. Però ne ha cambiato la natura, l’ha traformato in un’occasione di assoluta solitudine. Facciamolo ad alta voce questo ragionamento coi nostri ragazzi: c’è qualcuno che ti guarda? Sì, ma non è qui, è dall’altra parte dello schermo. C’è qualcuno che ti aiuta in caso di bisogno, se ti sei chiuso in camera a provare? No. La totale solitudine rende ancora più pericolosa la questione. La sfida è una dinamica tipica dell’adolescenza e della preadolescenza, ma farlo con qualcuno – anche se resta pericoloso – è diverso dall’essere soli.
La rete poi amplifica questo tipo di comportamenti, perché amplifica il desiderio di visibilità. Quando un ragazzino pensa che il valore più grande a cui ambire sia la popolarità, fare una sfida del genere, con l’idea che se vinci guadagni più popolarità, esercita una pressione enorme.
Senza voler affatto colpevolizzare i genitori della vittima, cogliamo l’occasione per ribadirlo: avere a disposizione a 10 anni uno smartphone è giusto?
A 10 anni non c’è la padronanza per usare questi strumenti, soprattutto per resistere all’impatto emotivo che hanno. Come possiamo pensare che ci sia la capacità di resistere agli stimoli emotivi del “prova anche tu, dai…”?. E’ già molto difficile per noi adulti, diciamoci la verità. Per accendere a TikTok l’età minima è 13 anni, in base alla normativa europea l’età minima per cedere il diritto all’uso dei dati è 14 anni. Di recente, proprio dal 13 gennaio, TikTok ha attivato una misura che tutela ragazzi che hanno meno di 16 anni, rende i loro profili privati di default. Questo vuol dire che solo i follower approvati possono accedere ai contenuti.
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C’è sempre una sorta di rassegnazione, quando accadono queste tragedie, come se fossero dei danni collaterali inevitabili. Ci portano invece a ribadire con più certezza che noi genitori possiamo dire “no” all’uso precoce degli smartphone. Una bambina di 10 anni non ha bisogno di uno smartphone, con tutto il mondo che c’è dentro e che è un mondo adulto.
E quando, più avanti, lo smartphone viene dato è necessario porre dei limiti. Ad esempio, se abbiamo dei figli grandi, e diventa difficile vietarne l’uso, è fondamentale porre la condizione che di notte non si usa mai. Perché tutto è più spaventoso la notte, da soli.
Noi genitori abbiamo tutti gli strumenti per affrontare questa sfida, quella dell’uso sano della tecnologia. Si possono creare degli spazi condivisi in cui la tecnologia è parte della vita di famiglia. Noi genitori ci siamo rassegnati alla presenza invadente dei dispositivi tecnologici e la situazione della pandemia può aver contributo a farci sentire ancora più rassegnati. Se è vero che lo smartphone o l’IPad o il pc servono per la scuola, non è vero che questa motivazione spalanca le porte a un uso indiscriminato del web. Ed è anche vero che in questi mesi noi adulti siamo stati e siamo molto più presenti a casa. Quindi abbiamo più possibilità di relazione e interazione coi figli su questo tema.
Restiamo su quest’ultimo aspetto. Da genitore, come esco dal cortocircuito della lamentela: “Adesso i figli sono a casa tutto il giorno, è inevitabile che stiano davanti a uno schermo. Cosa possono fare altrimenti? E poi il computer serve per la scuola…”?
Allora, intanto diciamo che il computer non è il cellulare. Chi può – perché non è detto che tutti abbiano a disposizione chissà quanti devices – pensi a differenziare l’uso degli strumenti. Il computer è più monitorabile, si può usare in una stanza comune; è un tipo di strumento che valorizza di più l’uso condiviso. Lo smartphone (se non è usato per la didattica a distanza) non è indispensabile nei momenti di scuola e di studio e può essere tolto. E’ chiaro che queste sono battaglie impopolari e i nostri figli si arrabbiano parecchio appena togliamo loro i telefoni… Però è parte necessaria del nostro compito.
Si apre, poi, il grande tema delle alternative. Ovvio che noi adulti abbiamo da fare, sarebbe bellissimo mettersi coi ragazzi a fare le costruzioni o altre attività, ma non sempre è possibile. Non è realistico pensare di poter affiancare un ragazzo per tutto il pomeriggio, però ragioniamo sulle possibilità alternative. Faccio un esempio: i videogiochi. Tenere la Play Station in soggiorno è ben diverso dallo stare con lo smartphone chiusi in camera. Se mio figlio usa i videogiochi in soggiorno, io posso buttarci un occhio mentre cucino o passo di lì. E non è solo per controllare, è per dare un contesto.
La tecnologia va sempre inserita in un contesto dove ci sia altro, perché il rischio cresce quando uno di questi strumenti diventa totalizzante. Se ci sono solo “io e lo schermo”, se ci sono solo “io e la sfida di TikTok” diventa pericoloso. Il pericolo è tutto quello che tende a creare una sorta di tunnel in cui si perde il senso della realtà. Questa deriva può essere arginata. Dobbiamo dedicare tempo ed energie a creare occasioni condivise, di cui anche la tecnologia è parte. Mostriamoci curiosi e interessati, non usiamo solo le frasi: “Metti via il telefono! Stai perdendo tempo!”.
Un po’ di tempo fa è uscita una ricerca della Bocconi sui motivi per cui si compra uno smartphone a un figlio e i motivi principali erano: “ce l’hanno i suoi amici”, “altrimenti si sente escluso”, “nella sua classe sarebbe l’unico a non averlo”. Sono tutti motivi che fanno riferimento alla scelta di altri, non personale. Sentiamo di dover comprare lo smartphone perché lo fanno tutti.
Dobbiamo riprendere in mano il nostro buon senso di genitori, e quello che non va bene dobbiamo avere il coraggio di bandirlo. E’ vero che in questo momento è più difficile, ma le alternative all’intrattenimento digitale esistono.
Appena capita una notizia tragica come quella accaduta a Palermo, l’informazione ci si butta a capofitto senza paracadute. I bambini ascoltano al TG tutti i dettagli di queste sfide mortali, non c’è il rischio che anche questo generi una curiosità morbosa? Come giudichiamo questi fatti insieme ai più piccoli?
L’informazione dovrebbe resistere alla tentazione della morbosità, quella di sviscerare i dettagli e calcare la mano sull’allarmismo. La notizia va data, ma sapendo che il rischio di emulazione c’è. La logica del “ti faccio vedere nei dettagli questa cosa brutta, ma tu non farla” sappiamo che sortisce effetti deleteri. I media, invece, potrebbero essere una voce forte nel promuovere un uso più sano della tecnologia.
Prevale in questo tempo e in noi adulti uno sguardo molto patologico sui nostri ragazzi, una preoccupazione a chiuderli nel recinto di tutti i problemi o le tentazioni da cui sono pressati. Metaforicamente: siamo preoccupati di tutto ciò che di velenoso possono mangiare, ma noi cosa stiamo mettendo di buono sul tavolo per nutrirli? Possiamo guardarli con un’ipotesi che li valorizzi e li incentivi nelle loro qualità?
Più diciamo ai nostri figli che questo è un tempo brutto e loro si stanno perdendo gli anni più belli, più loro prendono sul serio l’idea che la loro realtà sia negativa. Nelle situazioni difficili è tempo di tirar fuori delle risorse. Noi adulti per primi dovremmo favorire l’impulso che hanno i nostri figli di appassionarsi a qualcosa. Gli strumenti tecnologici possono essere usati anche per la crescita, non solo per l’intrattenimento. Se li invitiamo a prendere sul serio una passione che hanno (musicale, sportiva…) e a usare la tecnologia per approfondirla, loro sono capaci di stanare cose meravigliose.
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Anche la scuola ha un compito importante in questo: promuovere l’uso degli strumenti tecnologici dovrebbe avere proprio lo scopo di insegnare un uso del web in cui il soggetto è protagonista delle ricerche che fa, e non solo spettatore passivo di contenuti altrui. Ad esempio, su TikTok e Instagram ci sono lezioni per imparare l’inglese: come insegnante a scuola posso parlarne, per far vedere che nei social si può approfondire una competenza, non solo seguire gli influencer.
L’uso dei social per fare una sfida e farsi accettare dagli altri è un uso in cui l’io è gregario e non protagonista. Anche noi adulti usiamo i social per avere l’approvazione degli altri. Questa componente c’è e non la si toglie. Ma se la controbilanciamo con la spinta a considerare il web come uno spazio in cui posso cercare e approfondire quel che mi appassiona nella realtà, ecco allora che il rischio di essere succubi della mole invadente di input eterogenei si riduce. Si passa dal “faccio una cosa perché ha molti like” al “sono io che cerco qualcosa che piace a me”. Noi genitori siamo interessati ad ascoltare cosa alimenta la passione dei nostri figli? Li aiutiamo a porsi sul serio la domanda di cosa li entusiasma? Su questo terreno si può lavorare tanto.