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Nel solco di Dorian, Emma e don Giovanni: riconoscere la “schizofrenia esistenziale”

DORIAN GRAY
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 19/01/21
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L’ottava delle quindici “malattie spirituali” che nel 2014 papa Francesco diagnosticò alla Curia Romana è spinosa nella sua genesi e penosissima nel suo decorso, sovente infausto. Anche la letteratura profana (stoltamente fraintesa) ha ben esplorato l’enigma di questo male atroce, che disgraziatamente viene banalizzato nella sola “ipocrisia”.

È da quando ho riletto per la prima volta con occhi di adulto Il ritratto di Dorian Gray, di Oscar Wilde, che il capitolo undicesimo di quel romanzo tremendamente bello mi si è imposto come severo monito contro la vanità intellettuale e spirituale – essendo le due collegate dall’infida vanità sensuale. È da allora che mi è balzata agli occhi l’evidenza della profonda moralità delle pagine di Wilde, che al pari di quelle francesi che Gustave Flaubert dedicò a Madame Bovary narrano i vizî (e sempre schivando ogni indulgenza al pruriginoso) senza ometterne il terribile punto di ricaduta. Un po’ come avvenne già per l’incompreso Don Giovanni di Mozart, che non a caso ha per sottotitolo “il dissoluto punito” (e pensare che Carlos Saura la raccontò al contrario!). 

Quando Dorian, già corrottissimo, s’infatuò di turiboli e ceri

Dorian Gray, dunque, come don Giovanni e Madame Bovary, è uno che rifiuta la grazia malgrado il suo ripetuto affacciarsi nella vicenda; più marcato che nel personaggio spagnolo e in quello francese, però, in Dorian è imponente la doppiezza, tanto enorme da far apparire anche la forte ipocrisia quasi un piccolo corollario psicologico di una colossale carie ontologica. 

Mi sembra che nel capitolo XI questo si faccia molto evidente: 

Ce n’erano molti, tra i giovani, che videro o credettero di vedere in Dorian Gray la vera realizzazione del tipo che avevano spesso sognato un tempo a Eton o a Oxford – il tipo che combinava qualcosa della vera cultura dello studente con la grazia, la distinzione o i modi perfetti di un uomo del mondo. Egli appariva loro come uno di quelli di cui parla Dante [Gabriele Rossetti, N.d.R.]: quelli che cercano di rendersi «perfetti mediante il culto della bellezza». Come Gautier, egli era «colui per il quale il mondo visibile esiste»… 

[…] 

Ma sembrava a Dorian Gray che la vera natura dei sensi non fosse mai stata compresa, che gli uomini fossero rimasti bruti e selvatici perché il mondo aveva cercato di affamarli con la sottomissione o di annientarli a mezzo del dolore, invece di aspirare a renderli elementi di una nuova spiritualità, nella quale un sottile istinto di Bellezza era la dominante caratteristica. Come si raffigurava l’uomo nel suo incedere nella storia veniva soverchiato da un senso di sconfitta… A quanto si era rinunciato! E per così poco! […] 

Sì: ci sarebbe stato – come Lord Henry aveva profetato – un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita salvandola da quel severo e brutto puritanesimo che ai giorni nostri sta avendo la sua curiosa ripresa. 

[…] 

Una volta si sparse la voce che stesse per abbracciare la fede cattolica, e certamente il rito romano aveva sempre avuto su di lui una grande attrazione. Il sacrificio quotidiano, più terribile davvero di tutti i sacrifici del mondo antico, lo eccitava tanto per il suo superbo rifiuto dell’evidenza dei sensi quanto per la primitiva semplicità dei suoi elementi e il pathos eterno della of tragedia umana che cercava di simboleggiare. Amava inginocchiarsi sul marmo freddo del pavimento e osservare il sacerdote, nel suo rigido piviale con motivi floreali, che lentamente con le bianche mani spostava il velo del tabernacolo, o sollevava l’ostensorio incastonato di gemme e a forma di lanterna con quella pallida ostia che a volte si vorrebbe credere che sia davvero il panis caelestis, il pane degli angeli o, nei paramenti della Passione di Cristo, spezzava l’ostia nel calice e si batteva il petto per i suoi peccati.

I turiboli fumanti che i chierichetti, in pizzo e porpora, agitavano in aria come grandi fiori d’oro esercitavano su di lui un sottile fascino. Quando usciva, di solito guardava con stupore i neri confessionali e sognava di sedersi nell’ombra buia di uno di essi e ascoltare uomini e donne bisbigliare attraverso la logora grata la vera storia delle loro vite.

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, cap. XI passim.

L’anima di Dorian è in avanzato stato di decomposizione, e lo si descrive con macabro dettaglio: la lussureggiante descrizione che il narratore fa della rassegna delle svariate teorie sul vivere e sulla vita non è che l’antipasto di un crudo relativismo, il quale a sua volta è il primo boccone del più freddo nichilismo. Conoscere di tutto senza abbracciare nulla, senza dedicarsi a qualcuno, è la disposizione fondamentale del peccato luciferino (e in misura molto attenuata anche di quello adamitico). A questo stadio di corruzione spirituale le pratiche devote, nella loro mera materialità esteriore, fungono più da legna sul fuoco che da acqua ad estinguerlo; e quanto più si può sembrare vicini a un presidio di salvezza, tanto più si resta pericolosamente isolati da un possibile agente di vera conversione.



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L’“ottava malattia” della Curia

Certo è difficile arrivare a quello stadio senza avvedersene: Dorian ne aveva già combinate di cotte e di crude, a quel punto della sua storia, e non capita tutti i giorni di incontrare anime tanto nere – benché oscuramente imbellettate. Non sembra pensarla così, però, papa Francesco, il quale annoverò tra le “quindici malattie spirituali della Curia” (Auguri Natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014) anche questa inquietante “schizofrenia esistenziale”: 

È la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32).

È vero, sì: «L’ipocrisia – secondo il dettato dell’arcinota sentenza nº 223 de La Rochefoucauld – è un omaggio che il vizio rende alla virtù». E tuttavia si farebbe della morale veramente sciatta appiattendo la virtù su questa doppiezza che papa Francesco audacemente chiama “schizofrenia esistenziale”: Dorian non è semplicemente – diremmo pure banalmente – “ipocrita”; a lui, come al don Giovanni e alla signora Bovary, un tale epiteto si sarebbe potuto rivolgere sulle prime fasi della parabola esistenziale, quelle in cui il soggetto doppio avverte ancora un dissidio, un rimorso, e dunque in cui agendo ipocritamente egli omaggia, benché marginalmente, la condotta virtuosa da cui si allontana. Sono fasi che nel dramma Mozartiano non risultano neppure vagamente accennate, mentre se ne scorge qualcosa nel romanzo wildiano e in quello flaubertiano.


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Quando l’ipocrisia sembra una virtù di cui non si è più capaci

Non stiamo però qui a discettare di letteratura (semmai a lasciare che la buona letteratura interpelli le nostre coscienze): il papa parla a preti e perlopiù di preti, benché non esclusivamente; eppure si riferisce a vite “nascoste e sovente dissolute”. Mi colpì molto il racconto confidenziale che mi giunse dal poliziotto che in una retata in un “coca party” (con annessa orgia) trovò un vescovo di curia: «Monsignore – gli avrebbe detto mestamente l’agente restituendogli i documenti –, ma lei a Roma è conosciuto: almeno vada fuori…». Almeno, diceva il poliziotto: «“Almeno” sia ipocrita, monsignore, e il suo vizio bruci un grano d’incenso alla pudicizia, alla temperanza». Sarà sempre difficile quantificare lo scandalo che gli ecclesiastici dànno ai laici (credenti o meno che siano), ma quel che si potrebbe sensatamente congetturare è che a un certo punto del degrado morale e spirituale una persona diventi incapace, pur volendolo in teoria, di essere ipocrita – l’ipocrisia si rivela a quel punto, paradossalmente, una virtù di cui non si è più capaci. 

Il papa cerca di andare più a fondo, consapevole che l’ipocrisia sarà forse un segnale di situazione non-ancora-disperata, in una vita doppia, ma certamente non potrà essere neanche il surrogato (a malapena il fantasma!) di una virtù. Dunque egli propone questa diagnosi: 

  1. in principio c’è la mediocrità, per la quale non ci si decide mai ad abbracciare una risoluzione di vita (una vera “opzione fondamentale”); 
  2. segue l’ipocrisia, con la quale si finge un cammino in realtà inesistente, ovvero si millanta una tensione della personalità che andrebbe nella direzione opposta alla effettiva decadenza del cuore; 
  3. la decadenza genera un “progressivo vuoto spirituale”: è una carie dell’anima, un osteosarcoma dello spirito – difficile pensare qualcosa che mini più in radice la stabilità di una personalità; 
  4. si cerca – ecco una nota particolarmente dolente – di puntellare lo scricchiolante edificio con «lauree o titoli accademici», cioè riconoscimenti ufficiali di doti immateriali che possano contraffare, ad occhi disattenti e/o inesperti, la genuina vita dell’anima. 

Queste le cause prossime, questo il decorso. Ma come ci si espone all’infezione? Francesco l’ha detto: 

  1. ci si limita alle faccende burocratiche; 
  2. si perde il contatto con le persone concrete. 

A quel punto la religione e la vita spirituale diventano dei teoremi di cui parlare e scrivere, ma remotissimi dalla vita: «Sulla dottrina bisogna essere fermissimi – mi rimbombano ancora queste parole sconcertanti di un rampante ecclesiastico italiano –, poi sulla morale ognuno fa come può…». Significa, in senso stretto, non aver compreso di dottrina più di quanto si sia compreso di morale. Ma intervenire, a quel punto (o comunque in certi casi) è assai arduo. «…E chi può salvarsi?» – potrebbero dire i discepoli di Gesù riecheggiando i loro predecessori di Mt 19,25 – e giustamente la voce di Cristo risuonerebbe eterna: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt 19,26).

La libertà davanti alla Grazia: un abisso che rischia di farsi baratro

Tutto è possibile a Dio, certamente, ma la conversione resta pur sempre una sinergia tra Dio e l’uomo, non una violenza del Creatore sulla creatura: «Chi ti ha creato senza di te – sintetizzava Agostino (s. 169,11) – non ti salverà senza di te». Lo raccontano anche le lacrimevoli storie di Dorian, Emma e don Giovanni, ai quali la Grazia viene in soccorso (almeno) nei personaggi di Sybil, del Cieco e di donna Elvira. In quest’ultimo caso, torna addirittura dall’oltretomba il padre di una donna violentata con l’inganno, uomo ucciso dal dissoluto nella prima scena del primo atto – torna non a vendicarsi ma ad intimare la conversione («Pèntiti, cangia vita! / È l’ultimo momento!»). 

Monumento di clemenza divina, la statua funebre del Commendatore che si fa “convitato di pietra”: il padre buono offeso e rinnegato offre non solo un perdono assolutamente immeritato, ma pure l’occasione per una vera ed effettiva redenzione. Eppure v’è l’abisso della libertà umana, che sotto i piedi di don Giovanni – come di Dorian, di Emma e degli affetti da “schizofrenia esistenziale” – si spalanca in baratro di fuoco. 

«Ah! Tempo più non v’è!» 



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