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Quello che vogliamo salvare (e che ci ha salvato) in questo 2020

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Un esercizio, quello di rendere grazie alla fine di un anno solare, che oggi mostra ancora di più il suo significato e i suoi grandi benefici. Te Deum laudamus.Cosa c’è da salvare in questo anno che sta per chiudersi? Tutto e tutti. Noi infatti siamo proprio creature da salvare, degni di salvezza da quando Dio ci ha pensati, prima dell’inizio dei tempi e non solo di quelli del Covid.

Eppure, come ci educa a fare la Chiesa da secoli, dobbiamo fermarci e dire il nostro grazie a Dio per i frutti raccolti in questo anno e per i semi che forse abbiamo piantato nel terreno delle nostre vite. Grazie, dunque, per questo 2020.

Per il fatto che la vita non è stata sospesa, anche se in molti aspetti è stata mortificata; per il fatto che siamo rimasti, (chi è rimasto!) che ci siamo trovati a guardare alla vita stessa nella sua scheletrica verità. Ci siamo forse accorti, come mai prima, di dove venga fissata su di essa la fibra muscolare che la fa muovere. Verso cosa, verso chi? Ci avesse strappato tutto e lasciato questa domanda, non sarebbe stato fino in fondo quell’annus horriblis che ci stiamo raccontando tutti, e non senza ragioni.
Si attacca alle relazioni più che alle cose e alle risorse; alla famiglia, al volto dell’uomo che hai sposato, alla dignità del lavoro, all’Ideale per cui solo valga la pena spenderla.

Non si può dire grazie, però, solo per averla scampata, per non essere ancora stati colpiti; bisogna dirlo con un cuore che sia davvero fraterno, avendo ospitato in esso anche tutti quelli che sono stati colpiti in pieno petto dalla malattia o dalla crisi economica o da entrambe. Se amiamo Dio ci prendiamo con Lui il peso del mondo, sapendo di essere però sostenuti.

Come redazione di Aleteia ci siamo fermati, pochissimo in realtà, ma abbastanza per riflettere e offrire ognuno, con semplicità, quello che è stato risparmiato al naufragio che ha colpito la barca sulla quale siamo tutti; quella di cui parlava il Santo Padre, quella su cui sta anche Gesù, sebbene ci spaventi vederlo assopito.

Vi offriamo i nostri brevi elenchi di cose scampate al naufragio perché possano confortarvi e magari ispirarvi a fare lo stesso.

PAOLA BELLETTI

Paola Belletti

Mi è successo come già con la malattia di Ludovico. E’ successo anche ora, con l’anno terribile che vogliamo ardere sui falò come la vecchia il 6 gennaio. Di vedere ingrandito ciò che senza la lente della costrizione resta invisibile. Il limite allarga, la prova che schiaccia anche sorregge, l’esclusione che toglie permette di abbracciare ciò che resta.

Il mio stile di vita era già soggetto ad un blando lockdown di ragionevoli auto restrizioni a difesa del più debole. E così è rimasto: tarato sull’unità di misura di un giorno alla volta in cui ciò che conta è arrivare a sera interi e un po’ più pronti.

Si sta nel presente con l’intenzione delle gestanti: giorni quasi uguali messi in fila che partoriscono persone e cose nuove.

Ho rischiato però di ridurli a una lista di cose da fare più lunga del pre-pandemico solito; se partissi da questo racconterei la storia tacendo i fatti più eclatanti.

Chi può avere elenchi di cose da fare se non chi ha ricevuto un incarico? Prima del lavoro, la vita ci convoca per compiti cruciali. Che passino dal rifare i letti e portare pazienza poco importa.

Mi accorgo, in questa striscia sottile di tempo sospeso come un ponte tibetano sul nulla, che sono spinta avanti da qualcuno che mi ama.

Su che lista sono, dov’è segnato il mio nome?

Su un biglietto piegato in 4, tenuto vicino al cuore, la carta diventata calda, le pieghe memoria fisica del foglio.

Questo credo che siamo: un nome nascosto perché non lo si sciupi, i nostri tratti imparati a memoria, guardati fino a sentire dolore come quando ti innamori.

Grazie, dunque, 2020: per le storie che ho potuto raccontare, per il bene aiutato a correre nel mondo; per la mamma avvicinata a chi la consolasse, per la bimba che si voleva abortire ed è nata. Grazie a voi, quartetto di stagioni, che ci avete danzato davanti alle finestre in abiti più riconoscibili del solito.

Grazie per le messe seguite da uno schermo, che non suppliscono ma preparano (al ritorno del Re). Grazie per i miei colleghi, antesignani dello smart working, punteggiati lungo tutto lo stivale a comporre, anche noi, un mirabile disegno. Paola Belletti

 

SILVIA LUCCHETTI,

Silvia Lucchetti

In questo momento se dovessi racchiudere in una parola sola ciò che provo guardando a questo 2020, sceglierei: gratitudine.

Nonostante lo spaesamento e lo sconforto, mai ho sentito venir meno la tua presenza, Gesù, nella mia vita.

Grazie per aver guarito mamma dal Covid-19, è stato il mio regalo di Natale. Anche perché tra lavoro, bambini, casa… se non fosse guarita lei, sarei andata fuori di testa io!

Grazie Signore per avermi donato zia Silvana, per averla custodita 60 anni, gli ultimi 7 con il tumore. Grazie per i suoi dentoni simpatici, le sue battute che ti mettevano in mutande, la sua allegria. Grazie per avermela donata come madrina. Grazie Signore per non averla chiamate a Te durante la prima fase acuta della pandemia, quella senza messe e funerali. Grazie per avermi concesso il dono di essere presente accanto a lei quando è morta alle tre del pomeriggio nel giorno di Pentecoste.

Grazie Signore per avermi permesso di comprendere, durante il periodo del lockdown senza celebrazioni, quanto avessi nostalgia della mia comunità.

Grazie Gesù per le risate che mi ha fatto fare mio marito nei momenti di stanchezza e per la sua praticità che mi consola. E pure per la sua pasta all’amatriciana.

Ti ringrazio per i perché senza fine di Linda Maria, per le sue preghiere spontanee, i suoi capricci atomici che corroborano la mia pazienza. E soprattutto perché siamo riusciti nell’impresa di toglierle il ciuccio.

Grazie Signore per aver custodito Cristiano che aveva soltanto 2 mesi durante il ricovero al Bambin Gesù. Grazie per avermi fatto incontrare Lucia che nonostante la sua sofferenza a causa di un tumore è stata un aiuto e una compagnia durante quei giorni, parlando anche di David.

Grazie per l’emozione del 18 maggio, giorno in cui siamo potuti tornare a messa.

Grazie per il 6 giugno, data in cui Cristiano ha finalmente ricevuto il Battesimo.

Grazie per Damiano, Iaia, Giacomo Maria, Marcello, Elia, Roberto, Noemi, Michela, Celeste, Susy e Consuelo, Alessandra, Daniele e Laura… storie di vita che ho avuto il privilegio di poter raccontare quest’anno e che mi hanno nutrito versando acqua fresca sul mio terreno arido. Silvia Lucchetti

 

 

ANNALISA TEGGI

Annalisa Teggi

In mezzo al putiferio di questo anno difficile la mia speranza ha un sapore e un odore precisi, quelli di cipolle e sigari. Gusti molto audaci, lo so. Sono un istmo di terra che mi ha offerto la possibilità di solcare un oceano quasi infinito, la distanza tra me e mio padre.

Vive solo, detesta chiedere aiuto, fa i conti con il peso di una vita che non è stata gentile. La quarantena di marzo lo ha costretto a un passo enorme, accettare di rispondere alla mia domanda: «Babbo, vado a fare la spesa. Di cosa hai bisogno?».

Cipolle e sigari, ha ripetuto ogni volta che gliel’ho chiesto. Parole benedette, che sono diventate un lasciapassare tra noi. Che strano, quarantena significa isolamento ma per me è stata la corsia preferenziale di un contatto mai stato tanto autentico (e possibile anche rispettando il distanziamento).

Sono sicurissima che, chiuso nel suo recinto di solitudine e parole crociate, mio padre sarebbe davvero sopravvissuto godendosi solo cipolle e sigari. Però quando glieli portavo, aggiungevo nella busta della spesa altri generi di prima necessità. Non li ha mai rifiutati, e mi è sembrato di conquistare l’America.

Una volta ho pure incassato un complimento: «Buono quel pasticcio di patate e prosciutto che hai fatto».

C’è chi mette cerotti duri come cemento armato pur di non mostrarsi vulnerabile. Ma se, per un attimo, una ferita si apre e la pelle scoperta brucia, bisogna entrare in quel varco. 

Una pandemia ha costretto mio padre ad accettare che io mi avvicinassi a lui. Il suo ponte levatoio si è abbassato e ci cammino anche se l’equilibrio è instabile a ogni passo.  

L’orizzonte complessivo del mondo è ancora coperto da una nebbia fitta, ma sgranando gli occhi sui pochi metri quadri del nostro vissuto non mancano indizi della provvidenza, come le briciole di Pollicino. Per me è quel biglietto che tengo ancora nella tasca del cappotto, una lista della spesa scarna scritta in stampatello: lui ci ha scritto «cipolle e sigari», io ci leggo «ho bisogno di te». Annalisa Teggi

 

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Un naufragio all’orizzonte? Si, è proprio quello che ho percepito durante uno dei miei viaggi di lavoro tra Roma e la mia Campania. Era la fine di febbraio, e la pandemia ancora oscura, iniziava il suo decorso. Incrociai su uno dei famosi treni ad alta velocità che collegano il nord al sud Italia, frotte di “fuori sede”, molti dei quali acciaccati, che tornavano nei loro luoghi di origine. Volti stanchi, palesemente preoccupati. Feci quel viaggio in piedi tra una carrozza e l’altra. Lo ricordo come fosse oggi. Chiusi gli occhi ed iniziai a pensare. “Da qui in avanti sentiremo tante notizie tutt’altro che buone, ci aspettano tempi duri. Ma io voglio che questo anno non condizioni in negativo la mia vita. Perché la mia vita ha tanto altro!”. Un desiderio, un pensiero, una imposizione che auspicavo per me stesso. E così è stato. 

Chi lo avrebbe immaginato che il 2020 mi avrebbe fatto vivere, da lì in avanti, esperienze che mi resteranno impresse per sempre? Come il “ritorno alle origini”. Cioè tornare a condividere ampi pezzi della mia vita con gli affetti familiari più stretti, rincuorandoli nei momenti di abbattimento, organizzando loro sorprese e momenti sorridenti, per allontanargli dalla mente il diluvio di notizie mediatiche poco incoraggianti. Riportare il sereno tra le persone anziane, rimotivarli in tempi di pandemia, è una delle operazioni più difficili, ma che ti riempiono di più il cuore. 

L’ebbrezza poi, di riabbracciare la persona che ami dopo un lungo lockdown è stata una esplosione di sentimenti gioiosi che solo provandoli si possono comprendere. Era il 23 maggio, una giornata che ha illuminato il mio anno più di ogni altra. 

E poi, nelle cose “scampate” al naufragio, c’è il Natale “3.0”, che non è sinonimo di una “festività digitale”. Tutt’altro. E’ tornata ad essere, quest’anno, una festività autentica. Che mi ha fatto riscoprire la bellezza del Presepe, di meditazioni illuminanti sulla Natività, del silenzio davanti alla forza evocativa del Bambino. Tanti momenti “dedicati a me”, che si sono affiancati ad una condivisione più intima vissuta in famiglia e in chiesa. 

Questi sono i segni di un anno paradossale ma ricco, inatteso ma fortunato, difficile ma che mi ha aperto l’anima. Gelsomino del Guercio

GIOVANNI MARCOTULLIO

Giovanni Marcotullio

In questi giorni ho raccolto le confidenze di alcuni amici che – sfidando l’orgoglio e il pregiudizio – hanno osato ammettere di essere tornati a godersi non poco le celebrazioni natalizie, complici i “giorni rossi” imposti nel calendario civile dalla pandemia che ha caratterizzato l’anno morente: «Erano vent’anni almeno che non facevo un Natale così intenso», mi scriveva addirittura un prete! 

Per quanto mi riguarda, la condizione di clausura coatta ha comportato il non aver potuto festeggiare il Natale con i miei genitori per la prima volta in vita mia; però ho senz’altro avuto la pace di saperli in salute a casa loro, e in compagnia di mio fratello. Ce la caviamo, insomma, «mescolando gioie ai pianti», come suggerisce un bell’inno a san Giuseppe – non a caso affidatoci dal papa come eccezionale traghettatore dal 2020 al 2021. 

Alla convenzione civile della fine dell’anno solare come momento di bilancio e di propositi (raccolta dalla pratica ecclesiale di cantare il Te Deum il 31 dicembre) si aggiunge quest’anno l’avvio della somministrazione del vaccino anti-Covid19, che ci appare quale segno e promessa di palingenesi sociale, di ripartenza collettiva: il 2021 potrà essere migliore del 2020, mentre non sarebbe stato ugualmente ragionevole dirlo se gli sforzi della comunità scientifica non avessero prodotto dei vaccini efficaci in tempi tutto sommato brevi. È un evento non privo di una certa ambiguità, la quale riguarda più il contesto di produzione, distribuzione e ricezione del vaccino che il prodotto in sé. Per questo anche il papa ha voluto impiegare il messaggio Urbi et orbi per ricordare che la modalità in cui l’antidoto verrà erogato dirà se davvero avremo imparato qualcosa dalla pandemia. Torna in questo l’eco di sant’Agostino: «“Sono tempi cattivi, tempi penosi!”, si dice. Ma cerchiamo di vivere bene e i tempi saranno buoni. l tempi siamo noi; come siamo noi così sono i tempi» (Aug., s. 80,8). 

Tutto sommato per me è facile dirlo: non ho perso la salute né parenti né amici, lavoro e introiti sono rimasti intatti, ho conseguito anzi traguardi accademici e professionali; soprattutto, negli scorsi mesi si è accesa la scintilla della terza vita affidata alla mia famiglia… Eppure tutte queste meraviglie sono in sé né buone né cattive: esercitare gratitudine e lode significa renderle buone per noi e per il mondo, cioè cooperare a rendere manifesta la redenzione dell’universo. Giovanni Marcotullio

 

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Trovare qualcosa di buono in questo 2020 non è facile, dire il contrario per me sarebbe ipocrisia, e tuttavia ho davvero riconosciuto che Dio dal “male fa sorgere il Bene”. Sebbene lontano dalla mia famiglia fisicamente, ho trovato lo spunto per rinsaldare i rapporti, per lavorare sulle ruggini che talvolta si instaurano, anche tra fratelli. La lunga “quarantena” sociale a cui ci siamo tutti sottoposti mi ha permesso di assaporare meglio la gioia di stare con mia moglie e – lo ammetto – avevo paura che una convivenza così forzata 24 ore su 24 alla lunga ci avrebbe potuto mettere in crisi, ma così non è stato, e poiché sono un po’ pauroso nelle relazioni per mia natura, questa scommessa vinta mi ha fatto guadagnare fiducia in me e nel noi rappresentato dal matrimonio. Gli amici sono mancati, nel loro abbraccio fraterno, nelle serate attorno al tavolo a mangiare, ridere, scherzare, giocare, ma non sono mancati nelle lunghe sessioni di videochiamata, la volontà di ritrovarsi ha vagliato la qualità delle nostre amicizie. Chi c’era e chi no, in questo lungo inverno del distanziamento sociale, ha fatto emergere al meglio le nostre vere affinità. Alla fine è vero: gli amici si vedono nel bisogno, e non sono una lunga agendina di contatti, ma pochi fidati fratelli con cui condividere il fuoco mentre ulula il vento. E di questo sono grato. Ringrazio inoltre il Signore perché questo anno è stato ricco di sfide e di fatica, di molto lavoro e impegno e il solo fatto di poterlo dire è di per sé – in un periodo così difficile – una benedizione, anche se nel lavoro quotidiano si può inveire a mezza bocca o sentire il peso della stanchezza (o talvolta della frustrazione) alla fine, non posso che ringraziare per il “Pane quotidiano”. E di questo rendo Grazie, a Dio e ai miei colleghi. Lucandrea Massaro

 

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Roberta Sciamplicotti

La prima tentazione è quella di dire che è stato tremendo e che spero non si riproponga mai più – quattro decessi e malattie varie in famiglia (e non per episodi di Covid), genitori con acciacchi vari che ormai vedi una volta ogni tantissimo, tutti mascherati, senza toccarsi, attenti e timorosi anche a respirare.

La cosa più brutta è la paura diabolica dell’altro, che da parente, amico o conoscente adesso è diventato il potenziale nemico, quello che “chissà che ha fatto e che può avere”, da cui ti devi tenere lontano.

Eppure ne è uscito anche qualcosa di buono. Nonostante le tante prove a livello mentale ed emotivo, quest’anno ha rappresentato un’occasione per stringere i rapporti nella mia famiglia, tra me e mio marito e soprattutto tra lui e nostra figlia. La maggiore quantità di tempo che abbiamo necessariamente trascorso insieme ci ha fatto scoprire lati positivi, abilità e predisposizioni degli altri membri della famiglia che la fretta della vita quotidiana spesso non ci permetteva di vedere – e che a volte neanche gli stessi interessati sapevano di avere o avevano mai messo a frutto –, e ci ha fatto capire che con un po’ di organizzazione in più quello che fino a un anno fa ci sembrava molto difficile si fa, con qualche sacrificio ma si fa. La forzata permanenza a casa ci ha anche permesso di rispolverare hobby messi da parte da tempo e perché no, di riposarci un po’ fisicamente, essendo stati costretti ad abbandonare il ritmo sostenuto delle giornate abituali, che spesso erano un susseguirsi pressoché ininterrotto di attività in cui contava più il fare che l’essere.

Qualche giorno fa mi ha scritto un amico, e per l’anno nuovo mi ha rivolto un augurio che ho trovato spettacolare: “Un 2021 di normalità”. Che bello. Spero davvero che questa esperienza mi faccia valorizzare di più la vita “normale”, quella che dai sempre per scontata e che invece è in ogni momento pura grazia, dono totale e vera benedizione. Roberta Sciamplicotti

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Rocco Manuel Spiezio

Per questo indicibile 2020, non posso non esser grato a Dio per diverse grazie ricevute.

Prima fra tutte, quella di potermi riavvicinare alla mia famiglia e soprattutto a mia figlia di meno di un anno. Il Coronavirus ha trasformato l’emergenza e la sensazione di smarrimento, nell’occasione e nel dono di veder crescere mia figlia giorno dopo giorno.

Salvo l’intuizione e l’esperienza di aver realizzato un video ricordo per mia figlia durante le settimane di Lockdown.

Salvo la lettera scritta a mio nonno nel giorno del suo compleanno e averlo saputo felice di riceverla e di leggerla.

Salvo la vicinanza e il tempo di qualità dedicato dal nostro padre spirituale alla nostra famiglia.

Salvo le amicizie ritrovate e quelle nuove che mi sono state donate.

Salvo la mia prima volta come padrino di battesimo.

Salvo il superamento dell’anno di prova come insegnante.

Salvo la visione paradisiaca che mi si apriva davanti nel momento in cui ho ricevuto la notizia più brutta della mia vita: la morte di mio nonno.

Salvo la possibilità di condividere con tutta la mia famiglia almeno il suo funerale.

Salvo la gioia di sapere mio fratello di nuovo a casa con sua moglie dopo cinque anni di lavoro a distanza.

Salvo il completamento della specializzazione di mia moglie e insieme la possibilità di ricominciare a lavorare dopo lunghi mesi di stop.

Salvo la leggerezza e le emozioni di aver saputo nostra figlia sana e salva dopo vari episodi che ci hanno fatto spaventare molto.

Salvo la vita risparmiata di mio cugino che ha subito un gravissimo incidente stradale.

Salvo la possibilità di essere strumento di Provvidenza per altri che avevano bisogno di aiuto materiale e anche spirituale.

Salvo la creatività e il desiderio sempre forte e ancora vivo di realizzare il sogno che ho in cuore.

Salvo il parto e la nascita della nuova vita del nostro nipotino Emanuele.

Salvo la benedizione di aver visto finora i miei cari salvi dal contagio.

Salvo la possibilità di andare a vivere in una casa tutta per noi, dalla nascita di nostra figlia non era ancora mai accaduto. Rocco Manuel Spiezio

 

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Quest’anno appena trascorso non ci vede in realtà come naufraghi colti a guardia scoperta. Il naufrago vuole chiudere con il passato perché ha orizzonti di speranza solo davanti a sé, raccoglie quel poco che è sopravvissuto all’onda e il resto se lo getta alle spalle. Noi ci sforziamo di essere pellegrini che sanno benedire anche gli inciampi lungo la via. E tutti noi, credo, abbiamo ricevuto innumerevoli benedizioni da custodire e mettere a frutto. Io, sicuramente.

E allora, grazie, Signore, degli amici che ho sempre al mio fianco in questa missione che ci hai affidato ad Aleteia, per i quali ho imparato a pregare tutte le mattine vegliate al sorgere del sole, gettando sulla tua Parola reti di speranza.

Grazie per la loro testimonianza che mi pungola, mi incoraggia, mi guida, mi rafforza, mi rinfranca, mi rende fratello, mi fa riscoprire il senso di una fiducia senza reti di sicurezza, della gioia che ha il giusto contrappeso solo in quella altrui, del farsi carico dei loro destini.

Grazie per il dono della famiglia da conservare, per chi ha voluto unire la sua vita alla mia.

Grazie per lo sguardo che mi hai restituito ripulito e attento dietro le mascherine. Per quel poco di disagio che ho unito alle Tue sofferenze e a quelle dei miei fratelli. Per chi si è sacrificato senza contraccambi.

Donaci sempre la capacità di saper leggere il bene nelle disgrazie e la forza di scoperchiare i doni di cui ci hai ricolmato. (Mirko Testa)

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