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Storia di Den: abbandonato perché malato, adottato per amore

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Paola Belletti - pubblicato il 21/12/20
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Questa è una storia di coraggio, competenza, amore senza risparmio: Den è un bimbo cambogiano con una grave cardiopatia, destinato per questa a morte certa. Fino a che non incontra Giuseppe e Monica: viene portato in Italia, operato, curato e adottato. Ora ha 16 anni e sta per andare in Canada per un anno di studio all’estero.

Den, bambino cardiopatico abbandonato per la sua condizione

C’è un bambino cambogiano gravemente cardiopatico e c’è un cardiologo emodinamista, di nome Giuseppe, che lo incontra in un orfanotrofio nel suo paese. Era lì perché abbandonato dai genitori proprio per via della sua grave patologia e, possiamo ipotizzare, per le scarse possibilità di assisterlo, per l’enormità del compito che forse si è parato davanti a questi genitori di cui non si sa nulla – e allora si taccia.

 

I padri generano i figli e i figli fanno i padri

Non ha taciuto però la bocca di Den, appena sveglio in terapia intensiva dice “Papà” e ad ascoltarlo c’è Giuseppe, allora solo medico e benefattore,  ma in diversi petti, compreso il suo, forse, è già suo padre: in quello del bambino dove tremolava un cuore malato che però al Bambin Gesù, caspita!, si è potuto operare e curare.

In quello di Giuseppe: e chissà che non abbia giocato un qualche ruolo il nomen omen della missione putativa, come nel padre davidico di Gesù, il Supplente più degno che Dio abbia mai visto in terra.

E in quello di Monica, moglie di Giuseppe, che ora, a distanza di 10 anni non ha dubbi: ho 4 figli, per via di tre parti e di una maternità, quella adottiva. E per lei, c’è da crederle, non c’è nessuna differenza.


SAINT JOSEPH
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Adozione a figli, un dono immenso

Ogni tanto mi torna in mente, questa parola, chissà come poco l’avrò compresa, ma ciò che Cristo è venuto a guadagnarci è proprio l’adozione. L’adozione a figli del Padre e fratelli suoi dev’essere uno stato assai degno se per conquistarcelo sarebbe valsa sola e tutta la passione di Cristo.

Den si sveglia e dice “papà”, dunque.

Questa storia la leggerete ben distesa sulle pagine di Avvenire, a firma di Alessia Guerrieri che l’ha pubblicata ieri.

(…) E pensare che quello scricciolo di tre anni che pesava appena 9 chili era stato abbandonato proprio per la sua malattia e, data l’età, non aveva grandi speranze di poter diventare grande. Perché avendo già una vasculopatia polmonare nel giro di due-tre anni, senza intervento, quasi certamente sarebbe morto.

 

Giuseppe da medico non vedrà speranze, fino a che non avrà guardato meglio

Eppure era stato proprio Giuseppe a emettere la prima opprimente diagnosi su Den: non si può operare, è spacciato. Era il 2008 ed era in viaggio con Monica, infermiera con lui al Bambin Gesù. Avevano visitato i bambini di un orfanotrofio. La sua scienza medica lo porta fino oltre la soglia oltre la quale la speranza finisce. Ma la notte non riesce a dormire. Sembra proprio un contemporaneo e più inquieto patriarca Giuseppe. Proprio dopo quella notte decide che non aveva ragione, che quel bambino meritava, invece, una speranza. Così racconta proprio Monica, la moglie:

Visitandolo «aveva detto che non c’era più nulla da fare – racconta adesso Monica – ma poi quella notte per quella diagnosi così netta non ha dormito. Così il giorno successivo siamo tornati con grandi difficoltà nell’orfanotrofio di Den, ad oltre 200 chilometri da dove eravamo noi a Takeo, per farlo venire in Italia e dargli una speranza». E «continuo a credere che qualcuno, da lassù, abbia guidato questa decisione». (ibidem)

Dalla Cambogia all’Italia per essere operato

Si va in Italia, si vola a Roma. Solo a scrivere questa breve sequenza ripenso ad Alfie Evans e a Chiarlie e ai tanti che non hanno volato, che non sono arrivati in tempo, almeno per una salvezza terrena; per l’altra sono di sicuro giunti a destinazione. Arriva ma non è tutto semplice, nemmeno una volta accolti in un centro d’eccellenza e umanità come il Bambin Gesù.

Den arrivò in Italia il 10 maggio di quell’anno e i primi esami continuavano a dare lo stesso lapidario esito: troppo pericoloso l’intervento. «Solo al terzo cateterismo cardiaco che Den subì – la voce di Monica si fa argentina – diede il via libera all’operazione». (ibidem)

Chissà se dentro quel rischio corso per offrire a Den la possibilità di vivere non ci fosse già la decisione di dare fondo a tutto il proprio carico di umanità per offrirgli la possibilità di una vita piena e non solo il recupero della salute. Le due cose vanno tanto più insieme di quanto si pensi; senza amore durature, non ci sono cure durature e non sempre basta un intervento ad aggiustarci perché non siamo macchine.

Rispondere sì, e non a mezza voce

Quella decisione, di farlo operare a Roma, e quella successiva di adottarlo sembrano infatti un tutt’uno. La coppia aveva già altri figli, tre per la precisione, e in età adolescenziale. Chiunque avrebbe sconsigliato di imbarcarsi in una simile impresa, persino il giudice troverà la richiesta della coppia “esilarante”, niente meno.

 (questa scelta) è stata «la più giusta della nostra vita, fatta non per colmare qualche nostro vuoto, bensì per riempire tutti i vuoti della vita di Den». Il rischio per questo bimbo, infatti, dopo l’intervento riuscito e dopo i lunghi mesi in ospedale, sarebbe stato tornare in Cambogia in orfanotrofio, ma i farmaci che doveva prendere e ormai l’affetto che tutti nutrivano per lui ha portato Giuseppe e Monica «a salire su questa barca», come le disse il marito una sera, a tentare insomma l’avventura dell’adozione.

Una barca in cui tutto sembra remare contro, tranne l’amore

Monica e Giuseppe lo invitano a casa, gli danno da mangiare e lui nasconde il cibo temendo che qualcuno glielo possa rubare. Non sa l’italiano e loro non conoscono il Kmer. Ogni cosa per noi normale per lui è motivo di stupore. Come l’acqua del rubinetto: e chi aveva mai visto, in orfanotrofio, un prodigio simile per cui giri una manopola e scende acqua pulita?

L’epopea dell’adozione

«Non è stato semplice – ammette oggi Monica – rimasta vedova nel 2011, perché solo io ero in età da adozione, avendo 47 anni, mio marito era più grande di me di 21 anni. Ma sono salita su quella barca e non me ne sono mai pentita». Anche il giudice che all’epoca li convocò per l’adozione gli disse che sarebbe stato impossibile. E soprattutto non capiva il motivo che aveva spinto questa coppia a quel gesto di grande generosità, definendo «esilarante » la richiesta. «Risposi al giudice – sorride ora Monica, ricordando le gomitate del marito con cui la invitava a non rispondere al magistrato – che io non volevo semplicemente un bambino cambogiano, ma quel bimbo e sarei arrivata anche in Cassazione per riuscirci».

Conosco solo per mezzo dei racconti di cari amici cosa possa voler dire un percorso di adozione internazionale: l’Odissea al confronto diventa una gita fuori porta un po’ noiosetta.



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Dopo grandi peripezie, non da ultimo «un viaggio della speranza» in Cambogia per avere tutti i documenti necessari, il 23 dicembre 2010 è arrivato finalmente «il nostro più bel regalo di Natale, le carte definitive che sancivano l’adozione speciale di Den, oggi un bel ragazzo di 16 anni pronto ad affrontare da settembre il quarto liceo in Canada con uno scambio culturale».

Chi lo avrebbe potuto adottare se non loro?

Quel bambino, «se non avessimo aperto noi il nostro cuore, forse non lo avrebbe adottato nessuno. Sarebbe rimasto in ospedale fino a completa guarigione e poi sarebbe ritornato nel suo Paese, non si sa con quale futuro».

Improvvisamente diventa tutto più chiaro, anche la loro esperienza e specializzazione in corsia si leggono ora, in un segreto cv, come la necessaria esperienza pregressa per far fronte a questa chiamata.

Sia Monica che Giuseppe, infatti, conoscevano bene la sua malattia cardiaca, i controlli a cui doveva essere periodicamente sottoposto (anche ora dopo molti anni), i farmaci da assumere. «Ma non ci siamo fatti spaventare dal percorso di cura che avevamo davanti, forse perché lo conoscevamo bene dopo anni in corsia».

Essere madri, una dimensione biologica e spirituale

Se manca la filiazione naturale biologica quella adottiva è in grado di supplirla, di inglobarla dentro di sè. Monica è la mamma di Den, non fa per finta.

 «Quando mi chiedono quanti figli ho, rispondo sempre quattro. O meglio tre gravidanze e una maternità, ma per me essere madre biologica o madre adottiva non fa differenza».

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