Con l’approssimarsi del Natale e della fine dell’anno solare, è cosa buona scuotere la polvere accumulata nel periodo che si conclude per avviare una nuova tappa sotto lo sguardo di Dio. Come si fa, però, a stilare un bilancio in modo equanime, senza scivolare nell’autocommiserazione o nell’autocompiacimento?
No, questa non è una cronaca politica volta ad analizzare gli avventi dell’anno trascorso: è piuttosto un bilancio da intendersi come un esame di coscienza di ciascuno, come abbiamo l’abitudine di fare almeno in date simboliche – tipo l’apertura di un nuovo anno di grazia di Nostro Signore. Prima di lagnarci della durezza dei tempi, è cosa buona esprimere la propria riconoscenza per il tempo che ci è stato dato, gratuitamente, in questi giorni pieni di gioia e di fatiche. Certo, un poco sfiniti, spossati, suonati o abbattuti, dopo tanti mesi sconvolti… potremmo fare nostra questa frase che Léon Bloy scrisse nel suo Diario (Quatre ans de captivité à Cochons-sur-Marne): «Sono come un vecchio orologio pieno di polvere». Quando si avvicina il Natale è cosa buona spolverare per avviare una nuova tappa sotto lo sguardo di Dio.
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Non amiamo quello che ci turba
Quando si usa il termine “bilancio”, spesso si legge “risultati catastrofici” (o se non altro scarsi) tra le righe. Lo diciamo del bilancio scolastico dei nostri figli, quando non hanno messo testa e cuore sui libri; del bilancio di salute che ci lascia una spada di Damocle sulla testa; e naturalmente del celebre bilancio economico di tutti i governi che si avvicendano e che approfondiscono sempre più il pozzo del debito pubblico, della disoccupazione, della chiusura di fabbriche e negozi. Insomma, il panorama è tale da richiedere indubbiamente che si stili un bilancio. Alle volte, tuttavia, il bilancio non è soffocante, bensì entusiasmante: in quel caso però non fa notizia e non cattura neppure il nostro interesse. Quando tutto va normalmente, in un paese come in una particolare esistenza, lo stato di cose si dà per scontato, lo si prende per un diritto inalienabile. Invece l’esperienza c’insegna che la grazia è fragile e che la felicità di un istante tarda a riprodursi, da quanto è fugace. Il più delle volte cerchiamo di goderci i singoli istanti senza porci troppe questioni, altrimenti ogni cosa diventa complicata.
È poco probabile che quest’attitudine sia la più efficace per far fronte alla realtà. Non amiamo ciò che turba le nostre abitudini: l’anno appena trascorso è stato particolarmente turbolento, non solo a causa del virus ma per la reazione degli Stati, delle istituzioni e delle persone agli impedimenti che quello poneva al nostro trantran. Paul Claudel notava in Contacts et circonstances: «L’eccezionale sconvolge sgradevolmente le nostre abitudini e l’intimo centimetro che serve alle nostre opinioni quotidiane». I nostri progetti si trovano sottosopra e questo caos ci disarma – proprio noi, che tanto amiamo pianificare, prevedere, organizzare!
La tendenza contemporanea a illudersi
È interessante constatare come più che mai dilaghi nel nostro mondo la tendenza a illudersi. Normalmente ci aggrappiamo alle spiegazioni logiche e razionali: quando non ne troviamo di valide facciamo finta di averne e produciamo allora argomenti arzigogolati e fumosi. La cacofonia che dall’inizio del 2020 viviamo in Europa non si è affatto indebolita, e anzi s’è amplificata: ognuno adduceva le sue teorie, le sue prove irrefutabili. Eppure Bossuet ci aveva già avvertiti a riguardo nel suo Histoire des variazioni des églises protestantes:
Dio se la ride delle preghiere che gli vengono elevate per stornare le pubbliche disgrazie, quando non ci si oppone a quel che si fa per attrarle… anzi – che dico?! – quando lo si approva e lo si sottoscrive!
In generale, la nostra società non sa più rivolgere preghiere a un Dio che ignora o rigetta, ma con ciò si perde nel circolo vizioso della propria ragione, divenuta folle e incline all’illogicità, il che è un altro modo di porre una distanza infinita tra le cause e gli effetti. Erick Audouard, in Comprendre l’Apocalypse, scrive giustamente:
Non paghi di aver abolito la chiara visione della nostra origine e dei nostri fini comuni, non paghi di sfidare le leggi più elementari della vita, eccoci intenti a colmare lo spazio rimasto vuoto con alibi e fallacie, come degli stolidi cavernicoli che vivono insieme nelle tenebre per convincersi di non aver perduto la vista.
«Ve l’avevo detto»
Oltre a illudersi e a compiacersi della situazione (perché così pensiamo di evitare l’urto frontale dei problemi), la seconda tendenza consiste nel fondersi nella massa e nel rigettare ogni responsabilità su un “altro” impersonale, su un “si” che costituisca una massa molle a cui saremmo estranei, poiché pensiamo di essere le vittime di tutti i complotti del mondo. Ci consideriamo esenti, a priori, da ogni colpevolezza, quando qualcosa non va nel senso giusto. Il re Davide, grande peccatore ma capace sempre di tornare davanti all’Eterno, implorava Dio di non permettere che egli potesse lusingarsi in mille pretesti per i suoi tradimenti. Egli sapeva quanti tranelli e trabocchetti nascondesse la coscienza, e come facilmente rigettasse le responsabilità sugli altri o su Dio stesso.
La verità non deve più essere detta perché la Verità è stata crocifissa e il suo destino è stato segnato definitivamente duemila anni fa. Nessuno è colpevole davanti al grave bilancio che chiude ogni anno, ma tutti pretendono di essere accusatori, moralisti e profeti. “Ve l’avevo detto!”, non mancherà di assestarvi qualche falso amico davanti allo spettacolo della vostra disgrazia, del vostro fallimento. I visionari catastrofisti non mancano mai, e non ci aiutano a rapportarci correttamente con la realtà. Nell’ambito dell’apocalittica, bastano invece le parole di Nostro Signore. Coltivare la nostra immaginazione e costruirci scenarî arbitrarî ci allontana da un bilancio obiettivo in cui troverebbe un suo posto anche la nostra responsabilità. George Bernanos segnala appunto, nei suoi Testi non raccolti:
Il torto delle Cassandre non è quello di prevedere il peggio – chi non l’ha previsto in cuor suo, e che altro si può prevedere? – ma quello di augurarsi di farci condividere una tristezza per noi incomprensibile poiché ci anticipano dei mali che vogliamo credere inevitabili e guastano così in anticipo l’inconfessabile piacere che ci dà il biasimarli…
Meditare senza presunzione
Invece di crogiolarci nell’autocommiserazione o nell’autocompiacimento faremmo meglio a calmarci, a guardare indietro senza ansia, a riconoscere il bene e a chiedere perdono per il male, a prepararci al prossimo avvenire senza presunzione e con umiltà. Non è che se battiamo i denti domani ci sarà la neve; allo stesso modo non sarà l’imbottirci di artificiale euforia a riempire di gioia l’indomani. Approcciare le cose con intelligenza e sensibilità non basta: è necessario porsi con un’attitudine meditativa. I conti bancari e le misure igieniche non bastano a renderci felici, altrimenti una buona parte del mondo lo sarebbe da tempo. Silenzio, pazienza, attesa devono ispirare le nostre azioni e sostenere la nostra perseveranza nell’avversità.
Charles Baudelaire, tormentato, scriveva alla madre nel 1853: «Ho un’anima così singolare che io stesso non mi riconosco». Se riusciamo a far corrispondere la nostra anima con la percezione che ne abbiamo, allora siamo davvero sulla buona strada, quella che porta a relativizzare i mali del mondo e a non guardare che verso il cielo, perché la salvezza non viene dagli uomini ma da Dio solo. Tutto il resto è trascurabile. Il nostro bilancio non deve essere ratificato da istituzioni umane, ma da una piuma d’angelo.
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[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]