Per quanto possa essere doloroso, in questo Avvento muovetevi nello spazio spirituale. Provate cosa significa essere disorientati Non saremo mai preparati in modo adeguato alla venuta del Salvatore, a meno che e finché non sentiamo nelle ossa che c’è qualcosa da cui abbiamo bisogno di essere salvati. Se non chiediamo la salvezza, allora Gesù diventa molto rapidamente un uomo saggio tra i tanti, un altro maestro spirituale in una lunga serie di figure simili nello spazio e nel tempo. Lo splendido e antico canto d’Avvento “Vieni, vieni, Emmanuele, / e riscatta Israele prigioniero, / che piange nell’esilio solitario qui / finché non appare il Figlio di Dio” coglie questa verità cristiana fondamentale. A meno che non ci sentiamo prigionieri tenuti in ostaggio, uomini e donne condannati a un esilio senza speranza, non canteremo queste parole con convinzione.
Un passo dal capitolo 63 del profeta Isaia offre una serie di immagini che ci aiutano ad articolare questo senso di disperato bisogno di salvezza: “Signore, perché ci fai peregrinare lontano dalle tue vie?” La questione del cammino è comune nelle Scritture: c’è un modo in cui dobbiamo camminare nell’ordine spirituale, e la grande maggioranza di noi tende a perderlo.
C’è qualcosa che solo le persone di una certa età ricordano, ed è la sensazione di essere veramente perduti. Limito questo fatto alle persone più adulte perché il supersofisticato GPS di oggi in genere ci permette di trovare facilmente la nostra destinazione. Prima di questi splendidi gadgets, però, quando facevamo affidamento sulle cartine, o più spesso su indirizzi scribacchiati su un pezzo di carta, ci perdevamo molto più facilmente. Quando avevo circa 17 anni ed ero un guidatore molto inesperto, stavo girando per le strade di Chicago alla ricerca dell’ingresso della superstrada. L’ho perso, e mentre scendeva la notte mi sono reso conto, provando una sensazione di smarrimento unica, che non sapevo minimamente dove mi trovassi o dove stessi andando.
La Divina Commedia di Dante inizia dicendo: “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”. Anche se avete ottenuto un grande successo nella vostra professione e siete relativamente soddisfatti dei vostri rapporti e della vostra posizione sociale, scommetto che a un livello più profondo vi sentite perduti, e non sapete davvero dove state andando. Come aveva intuito Dante, questo approccio emerge spesso quando siamo a metà della vita, ma sappiamo tutti quanto sia vero. Per quanto possa essere doloroso, in questo Avvento avventuratevi nello spazio spirituale. Provate cosa significa aver perso il cammino, essere disorientati. Sarete allora in grado di invocare Colui che ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Giovanni 14, 6).
Una seconda lamentazione del profeta Isaia è questa: “Perché… rendi duro il nostro cuore perché non ti tema?” Per gli autori biblici, il cuore è la sede dell’emozione, del pensiero e dell’azione – il cuore della personalità. Dev’essere “tenero” perché Dio possa modellarlo facilmente in base ai Suoi scopi.
Il cuore indurito è come argilla arida e fragile, che si spezza al minimo tocco del divin vasaio. Quando siamo ossessionati dai nostri progetti, quando ci preoccupiamo delle prerogative dell’ego, il nostro cuore è duro. Nella sua Lettera ai Galati, San Paolo dice: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). È il linguaggio di qualcuno che ha permesso che il suo cuore tenero venisse completamente modellato dal Signore, che ha scambiato l’ego-dramma per il teo-dramma. Durante l’Avvento, dovremmo interrogarci sulla qualità del nostro cuore. Quanta resistenza abbiamo opposto al modo in cui Dio vuole modellarci? Solo chi sa di avere il cuore indurito può desiderare davvero l’arrivo del Sacro Cuore.
Una terza e ultima lamentazione di Isaia è: “Tu ti sei adirato, perché abbiamo peccato nel tempo passato… Tutti quanti siamo diventati come l’uomo impuro”. È difficile leggere due pagine di seguito della Bibbia, Antico o Nuovo Testamento, e non trovare un riferimento all’ira divina. Non serve mettere da parte l’idea, come se fosse uno sfortunato residuo di un tempo oscuro, ma dobbiamo stare attenti a non rendere troppo emotivo il riferimento come a suggerire che Dio abbia un attacco di risentimento come un padre rabbioso e disfunzionale. Suggerirei che l’ira divina sia una splendida metafora della passione di Dio per mettere a posto le cose. Quando il peccato e l’ingiustizia snaturano la bellezza delle creature amate da Dio e provocano in loro una profonda infelicità, Dio non può trattenersi. Si arrabbia per correggere la situazione.
In questo Avvento, allora, dovremmo tutti identificare le azioni e gli atteggiamenti che suscitano l’ira di Dio. Mi rendo conto che la cultura ci istruisce in mille modi per affermare la nostra assenza di colpa, ma la Bibbia ci dice di riconoscere la nostra impurità.
Ancora una volta, non è un esercizio per rimproverarsi che debilita a livello psicologico, ma una disponibilità coraggiosa a offrire la nostra debolezza al medico divino. Si tratta di permettere al Dio della giustizia di sistemare le cose in noi. Finché non faremo questo, non apprezzeremo mai Colui che ha detto “Sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra” (Lc 12, 49) e che, magnificamente infuriato, ha rovesciato i tavoli fuori dal tempio.
Perché il Natale non diventi un’altra festa secolare, facciamo tutti qualche opera d’Avvento reale: rendiamoci conto di quanto siamo perduti, di quanto si è indurito il nostro cuore e di come abbiamo provocato l’ira di Dio.