Se si parte dal principio che “la riforma liturgica ha tradotto la messa in italiano” si fa fatica a capire perché la nuova traduzione italiana dell’Editio Typica III del Missale Romanum insista sull’uso della formula greca, nell’atto penitenziale, e non della traduzione italiana che dal 1983 è entrata nell’uso comune. Ed è allora l’occasione buona per capire sia il senso della “preghiera di Gesù” sia quello della stessa riforma liturgica.
Col fatto che in molte diocesi d’Italia i vescovi si stanno adeguando alla scelta di introdurre il “nuovo Messale” a partire dalla prima domenica d’Avvento, quest’ultima settimana del calendario liturgico – escatologica per sua natura (è previsto che nella Liturgia delle Ore si possa usare, a piacere, il Dies iræ in luogo degli inni) – sta diventando particolarmente frizzante in materia liturgica:
- portali e siti ecclesiali (anche organi ufficiali delle diocesi) si prodigano in dettagliate spiegazioni;
- blogger e opinionisti si schierano (anzitutto e soprattutto) nelle solite due fazioni.
Leggi anche:
Tolkien ci aiuta a celebrare col Nuovo Messale: ecco come
Leggi anche:
«È permesso l’introito? Pace e bene!»
Leggi anche:
Vi spieghiamo perché la Messa comincia con il segno della croce
Dilaga la confusione (anche sui mezzi per arginarla)
Il risultato è almeno in parte l’ovvia conseguenza della sovrabbondanza di informazioni contrastanti e disordinate: la confusione. Proprio all’inizio di questa settimana una lettrice mi scriveva su Facebook:
Buonasera […], le scrivo […] in merito alle nuove traduzioni del Messale. Ne abbiamo parlato un po’, soprattutto su un paio di aspetti. Avrebbe per caso da suggerirmi un articolo che riassuma e spieghi tutte le modifiche (e non solo alcune)? Vedo isteria tra i laici (tutti filologi a quanto pare).
Filologi e teologi, certo, è risaputo. Ho riportato la domanda della lettrice perché forse serpeggia nel cuore di molti, e dunque potrebbe essere utile tentare di offrire una risposta, anche dopo aver consultato amici e colleghi più ferrati nella letteratura di settore. Intendendo l’espressione “tutte le modifiche” in senso morbido e flessibile – cioè non proprio “tutte tutte”, ché sarebbe pressoché impossibile – il lettore comune troverà buon giovamento nel sussidio Un Messale per le nostre Assemblee, della Conferenza Episcopale Italiana. Chi volesse approfondire rispetto a quel livello espressamente divulgativo e basilare potrebbe avvalersi del numero 107/2 di Rivista Liturgica. Andando oltre, si trovano certamente molti buoni manuali e ancora più numerose monografie di storia della liturgia, ma (per ragioni che ora sarebbe arduo spiegare senza divagare troppo) in quella letteratura si affievoliscono, mano a mano che ci si addentra, i pregi della completezza, dell’univocità e talvolta anche della chiarezza (mali comuni a tutte le discipline a sostrato storico).
La stessa lettrice domandava anche
[…] se ha da suggerirmi un libro dove approfondire le varie riforme liturgiche che ha vissuto la Chiesa nei secoli.
E a tal proposito la risposta può essere ancora meno precisa e univoca di quanto sia stato rispetto alla precedente domanda: l’unica “riforma liturgica” paragonabile per qualche aspetto a quella che stiamo vivendo nei decenni successivi al Vaticano II è quella che il Tridentino ha fortemente auspicato e avviato, ma senza l’organicità e le consapevolezze storico-filologiche che (anche grazie al Movimento Liturgico) si sono avute nel XX secolo. Prima di Trento ci sono state le grandi manovre riformistiche di Innocenzo III e di Gregorio VII, e prima ancora quelle di Gregorio Magno, di Gelasio… ma la liturgia della Chiesa non è mai stata (e non è) un puro appannaggio romano: di riforme ce ne sono sempre state tantissime, talvolta abortite o titubanti o perfino aberranti, ma insomma nulla di riassumibile in una narrazione lineare e schematica. Questa è forse la sola verità granitica che si possa dire in materia.
Il “Signore, pietà” torna al greco: sarebbe questa la Riforma del Vaticano II?
Ad esempio, un’altra lettrice – anzi questa è una vecchia amica – mi ha scritto con toni ben meno pacati per chiedermi ragione di “questa storia del Kyrie”, cioè del fatto che “d’ora in poi non si dirà più Signore, pietà ma Kyrie, eleison”. Come è noto, su Aleteia abbiamo già avviato un percorso dedicato all’esplorazione della liturgia eucaristica partendo dal “nuovo Messale”, e chi l’ha seguito sa che siamo arrivati precisamente al Kyrie, ma riporto la domanda dell’amica dopo quella della lettrice perché l’occasione è buona per porre una questione di fondo: dove va la riforma?
Insomma, la riforma liturgica era stata fatta “per tradurre la messa dal latino”… o no? E ce la ritroviamo in greco?
Dietro alla scelta di valorizzare la formula greca “Kyrie eleison” – è don Paolo Tomatis che lo scrive, nel suo libretto “Al servizio del dono” – sta la coscienza del fatto che nella Messa già normalmente si parla… in lingue! C’è l’ebraico, là dove diciamo o cantiamo: “Alleluia” (che significa letteralmente “lodate il Signore”), “Amen” (che significa letteralmente “è vero”, “è così”, “così sia”) e “Osanna” (che significa “dona la salvezza”). C’è il latino, dove nel canto si recuperano parole come “Miserere nobis” o “Gloria in excelsis Deo”. Ed ora pure il greco, con l’invito a far risuonare una delle preghiere evangeliche più importanti, tanto da essere soprannominata “la preghiera di Gesù”. La troviamo infatti nei vangeli sinottici una decina di volte […]. Se il titolo di “Kyrios” è attribuito a Gesù in quanto sovrano, risorto da morte, il termine “eleison” traduce a fatica l’ebraico “hanne-” che significa “mostrare favore” e misericordia.
Paolo Tomatis, Al servizio del dono, Elledici, Torino 2020, 37
Ecco, tornando alla domanda della lettrice, quello di Tomatis – che è stato parte del grande team che ha curato il “nuovo Messale” – è un altro testo consigliabile a chi voglia approfondire le conoscenze e la comprensione delle “novità”, anche (e soprattutto) quando esse sembrano più «una novità negativa, pensando ad un rito che già rischia di essere oscuro ai più e in tal modo corre il pericolo di diventare ancora più esoterico» (ibid.).
La “questione delle lingue”
C’è dunque la questione delle lingue, che è da sempre un cantiere aperto (e al contempo una piaga aperta): ancora mi ricordo la nipote di mia cugina, che vive in Belgio e che ormai più di dieci anni fa restò basita nello scoprire da me cosa significhi la parola “Alleluia” – «Wow, e io pensavo che significasse “chouette!” [“fico!” in francese, N.d.R.]».
La ragazza l’avrà forse immaginato ascoltando e cantando a squarciagola It’s raining men, e il suo (come di milioni di persone) primo problema è già ignorare che quella canzone non è di Geri Halliwell ma delle Weather Girls, che la cantarono diciannove anni prima, nel 1982.
Chi le dirà – e come?! – che in realtà né la Britannica né le Afroamericane hanno coniato la parola “Alleluia”, né la stessa Chiesa cattolica, ma che essa ci raggiunge da millenni di incessante fiduciosa preghiera giudaico-cristiana? Dell’Alleluia torneremo a parlare a suo tempo: questa digressione era solo per dire che di molte lingue è fatta non solo la liturgia cattolica, ma tutta la vita (o qualche fan della ex Spice Girl pensava che “Alleluia” fosse inglese?).
Tradurre “eleison”: mission impossible?
È vero che l’espressione “Kyrie eleison” ricorre una decina di volte nei Vangeli, e che tanto basta a farne “la preghiera di Gesù” in tutta una lunga e gloriosa tradizione ascetica (si pensi anche solo al celeberrimo Pellegrino Russo); tuttavia nessuno può pensare di ripetere in quelle parole esattamente i suoni che furono detti a Gesù dalla gente che incontrava, semplicemente per il fatto che noi non sappiamo in che lingua (o lingue?) parlasse Gesù con la gente e la gente con Gesù. La ragione della nostra pratica dunque non può essere semplicemente quella di “fare come ai tempi di Gesù”, mentre il “fare come hanno fatto miliardi di cristiani nella storia” è una ragione percorribile perché molto più solida e sensata: si dice e si ripete che l’espressione “Kyrie eleison” (come anche Alleluia, amen, osanna e altre) sarebbe intraducibile, ma raramente si prova a spiegare perché. Non si dice anche che “ogni traduzione è un tradimento”? Vero anche questo, in un certo senso, ma non può bastarci a rispondere a una domanda legittima: perché è così difficile tradurre questa parola?
Ecco, ogni ginnasiale d’Italia farebbe fatica a spiegarvi per bene che cosa sia l’aoristo greco, per il fatto che nella nostra lingua non esiste un tempo paragonabile all’aoristo. Certo, noi lo traduciamo col passato remoto, l’aoristo – ma l’aoristo indicativo! – mentre “eleison” è l’aoristo imperativo del verbo “eleein” (che vuol dire “avere pietà/misericordia”).
Il tempo aoristo si usa in “lingue morte” come il sanscrito, e Tolkien non ne lasciò sprovvisto il suo immaginario Quenya (ma non dite a un tolkieniano che quelle sono lingue morte se volete restare vivi voi); inoltre molti milioni di persone lo usano anche in lingue oggi vive (il berbero in Africa, il bulgaro e il serbocroato in Europa): in pratica l’aoristo corrisponde a un tempo passato soltanto nel modo indicativo, mentre in tutti gli altri modi vuole esprimere appunto la non-definizione dell’aspetto perfettivo o imperfettivo del predicato, in altre parole se l’azione è compiuta (o almeno si compirà) o no.
L’aoristo non ce lo dice: ci comunica solo che una cosa sta avvenendo, e in questo può avere molteplici sfumature. L’uso dell’aoristo imperativo nella formula “Kyrie, eleison” dice dunque che sta avvenendo un incontro – tra l’anima/la Chiesa e Cristo – e che non sappiamo l’esito certo dell’incontro. Come la cananea del racconto evangelico – a questo punto sì che ha senso richiamare quelle pagine! – anche noi ci presentiamo a implorare la pietà divina non con la nonchalance di chi passa la spesa alla cassa sicuro di poterla pagare, ma col sentimento proteso di chi sa di stare davanti al Redentore – «se tu lo vuoi, puoi purificarmi» – e al contempo è perfettamente consapevole di non meritare niente.
La novità è apparentemente di poco conto – spiegava Tomatis –, ma è interessante per un approccio al Messale che sposta l’attenzione dalla traduzione all’azione, al gesto. […] | […] il criterio della comprensibilità non costituisce l’unico principio da osservare, e neppure il più importante.
Ivi, 36-37
Che vuol dire? Ecco, proprio che la Messa non è – anzitutto e perlopiù – una serie di parole e gesti da capire, ma un’esperienza da fare, una cosa da vivere. Il quadro in cui si inserisce l’atto penitenziale (che avrebbe una sua forte complessità assolutamente non risolvibile in un contributo come questo nostro) è collocato all’inizio della messa non soltanto «per essere degni di celebrare i santi misteri» (dimensione della consapevolezza), ma prima ancora come conseguenza di un evento.
«Gesù lava più bianco»: lo scioglicolpa
Quale evento? Che la celebrazione è già iniziata, come abbiamo cercato di vedere. E che vuol dire questo? Che Cristo è già lì, è arrivato in mezzo all’assemblea radunata, come promesso: “Pace a voi” è il saluto del vescovo, che ripete letteralmente quello di Cristo Risorto quando appare in mezzo ai discepoli riuniti nel Cenacolo; il Messale ha distinto il saluto del presbitero in “Il Signore sia con voi” (ma il latino “Dominus vobiscum” si può tradurre anche con “il Signore è con voi”, “il Signore è a voi”, “il Signore è tra voi”…), ed entrambi i saluti esprimo anzitutto una didascalia efficace alla presenza fisica del Presidente dell’assemblea, che entra in essa come tipo di Cristo.
Il Redentore è qui, in mezzo a voi: è la prima cosa che accade nella celebrazione eucaristica (pensare che tanti aspettano “la consacrazione” come se fino a quel momento non stesse succedendo praticamente nulla!). E qual è l’effetto della subitanea presenza del Messia in mezzo ai suoi? Ci si può immaginare come una goccia di sgrassante concentrato su una teglia bisunta: immediatamente innesca una reazione che aggredisce lo sporco e lo costringe a dissolversi – è una reazione purgatoriale. I cristiani si riuniscono a invocare Cristo perché avendo creduto in lui sanno di non poter vivere come essi stessi desiderano – cioè bene: senza peccato e anzi imitando la vita divina – e quando Cristo si fa presente in mezzo a loro essi hanno anzitutto vivida percezione della loro radicale inadeguatezza. Onde l’atto penitenziale, per cui il “nuovo Messale” sensatamente suggerisce di privilegiare l’espressione “Kyrie eleison”. Non per banale passatismo o per vezzo di glossolalia – Iddio guardi i suoi discepoli da queste mode – ma proprio perché l’aoristo, che non ha più un posto in quasi tutte le nostre lingue, ne ha sempre uno (e decisivo) nelle nostre vite. Il nostro cuore trova voce e sfogo col Salmista:
Mio Dio, mi assalgono gli arroganti,
una schiera di violenti attenta alla mia vita,
non pongono te davanti ai loro occhi.Ma tu, Signore, Dio di pietà, compassionevole,
lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele,volgiti a me e abbi misericordia:
dona al tuo servo la tua forza,
salva il figlio della tua ancella.Sal 86 (85),14-16
E che Cristo ci guarirà noi lo sappiamo con ferma fede, donde osiamo imporgli con un imperativo di rispettare il suo patto eterno; che però la nostra parte del patto non l’abbiamo osservata, e anzi che l’abbiamo tradita, noi lo sappiamo con cuore dolente, donde l’imperativo non può dare per scontato l’esito dell’incontro – che pure spera – e allora è conveniente e giusto fletterlo in aoristo.
Si capisce con la testa ciò che il cuore vive
Tutte queste cose si capiscono con lo studio, certamente, e la Messa non deve né può diventare una cosa per accademici, però ricordo che non avevo ancora intrapreso studi specialistici quando già il Kyrie della messa “Pane di vita nuova” di Marco Frisina mi commoveva ripetutamente fino alle lacrime. Come mai? Perché descrive con linguaggi adeguati – come sempre più e meglio bisognerebbe cercare di fare – “l’esperienza dell’imperativo aoristo”.