Forse non vi siete mai fatti troppe domande a riguardo, oppure pensate che sia ovvio cominciare la messa col segno della croce: ebbene oggi vi mostriamo da un lato che l’uso liturgico di quel gesto non è affatto scontato; dall’altro che la sua (recente) introduzione affonda le radici in significati antichissimi.
Giunti in presbiterio, il sacerdote, il diacono e i ministri salutano l’altare con un profondo inchino. Quindi, in segno di venerazione, il sacerdote e il diacono lo baciano e il sacerdote, secondo l’opportunità, incensa la croce e l’altare.
Ordinamento Generale del Messale Romano, 49 (Messale Romano, p. XXIV)
Mentre si recita (ma sarebbe meglio cantarla) l’antifona d’introito (o un canto d’ingresso) chi presiede l’assemblea dovrà in qualche modo recarsi nel luogo in cui l’assemblea è radunata: è ragionevole immaginare che nelle prime domus ecclesiæ questi movimenti non fossero codificati da rubriche (la Didachè, ad esempio, non descrive riti d’ingresso di sorta), ma è certo che essi lo furono pressappoco in concomitanza con lo sviluppo architettonico basilicale.
La mensa, tipo dell’altare, tipo di Cristo
L’ingresso del sacerdote nell’assemblea fu successivamente letto come allegoria dell’ingresso di Cristo nel mondo, e del resto tutto, nella celebrazione eucaristica, sarebbe rapidamente assurto a simbolo (o tipo) di Cristo, in una successione di allusioni, di impressioni, di rimandi neppure necessariamente coordinati fra loro. Per questa stessa ragione, infatti, l’altare va salutato e immediatamente baciato – perché è tipo di Cristo –, e per tale rinnovata consapevolezza dalla Riforma Liturgica in poi si chiede che le nuove chiese non abbiano se non un unico altare nell’aula liturgica. Altra cosa: noi ci siamo abituati a definire “altare” quello che è tale “solo” in senso tipologico, ancora una volta – in nessuna chiesa, infatti, l’altare comprende la caldaia per la legna da ardere e la graticola su cui consumare le vittime da offrire a Dio. I nostri “altari” sono anzitutto delle mense, su cui si consuma un pasto, e difatti per sottolinearne l’investitura sacrificale e sacrale il rito della consacrazione dell’altare prevede il posizionamento di un braciere acceso dal quale salgano al cielo sbuffi d’incenso combusto.
L’altare si saluta e si bacia perché è tipo di Cristo, e lo saluta e lo bacia principalmente il sacerdote, all’inizio e alla fine della messa, perché anch’egli è tipo di Cristo: ciò significa che le azioni liturgiche (e chi le compie) vanno a condividere con lo spazio liturgico le destinazioni e i significati loro assegnati; a messa si va per esperire la presenza di Cristo, laddove tutto è presenza di Cristo, declinata in modi distinti ma (su questo ulteriore piano) intimamente coordinati fra loro.
«Nel nome del Padre…»
Potrebbe suonare sciocca, a questo punto, la domanda “E perché poi si comincia con il segno della croce?”. Anzitutto ci correrebbe l’obbligo di ribadire che non “si comincia” la messa col segno della croce, bensì con la già ricordata antifona d’introito e con l’introito stesso del clero nel presbiterio. Del resto – concederemmo spezzando una lancia a favore dell’osservazione – chiunque abbia studiato un po’ di storia medievale sa che fino a qualche secolo fa tutto cominciava con il segno della croce, perfino le lettere di cambio (cioè i primi assegni bancari noti alla storia)!
E una volta tanto l’osservazione dello storico generalista cadrebbe nel vuoto: la messa, infatti, non è mai cominciata con il segno della croce, almeno nel Rito Romano… Possibile? Assolutamente, o meglio: segni di croce se ne facevano a iosa, ma li faceva il sacerdote su di sé, e submissa voce, cioè sottovoce; un segno di croce ad alta voce e pubblico, cioè di tutta l’assemblea, non s’era mai visto fino a quando l’esplicito volere di Paolo VI dettò il corso della Riforma su questo punto. Quindi oggi leggiamo sul messale:
Terminato il canto d’ingresso, il sacerdote, stando in piedi alla sede, con tutta l’assemblea si segna con il segno di croce.
Ordinamento Generale del Messale Romano, 50 (Messale Romano, p. XXIV)
Se però chiedete ai vostri parroci di farvi sfogliare le edizioni precedenti del messale romano, troverete che nelle celebrazioni più solenni il segno della croce continuava a non esserci fino alla seconda edizione tipica (del 1975: praticamente quella che abbiamo usato, in traduzione, nell’ultimo quarantennio), e soltanto nella terza edizione tipica (cioè quella or ora tradotta e che deve essere introdotta per gli italofoni entro Pasqua 2021) il segno di croce viene introdotto nella veglia pasquale (oltre che alla Domenica delle Palme e al 2 febbraio). Insomma la notte fra il 3 e il 4 aprile per la prima volta in vita vostra comincerete la Veglia Pasquale «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»… o almeno così v’immaginate stando a quello che andiamo dicendo. Sbagliato!, perché la traduzione italiana non ha osato seguire fino a questo punto l’edizione tipica: cambiare il Gloria, il Pater, ripristinare il Kyrie sono una cosa; mettere il segno di croce all’inizio di proprio tutte le celebrazioni è ben altro (la Celebratio Passionis Domini del Venerdì Santo resta senza segno della croce anche nell’edizione tipica III).
Insomma, una novazione modernista, questa del segno della croce? Diremmo piuttosto (chiosando appena che la traduzione mancata nella Veglia meriterebbe un discorso a parte) un’evoluzione dei significanti rituali coerente con i significati liturgici. Per capire meglio ci mettiamo alla scuola dell’allora card. Ratzinger, che nella quarta parte della sua Introduzione allo spirito della liturgia scriveva:
Il gesto fondamentale della preghiera cristiana è e rimane il segno di croce. È una professione di adesione a Cristo, Crocifisso, espressa mediante il corpo, conformemente alle parole programmatiche di san Paolo: «Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,23s). Ed ancora: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (2,2).
Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia IV.2.b, in Opera Omnia 11, p. 168
Dopo aver proseguito queste considerazioni, il Cardinale ricapitolava:
Possiamo quindi dire che nel segno di croce, insieme con l’invocazione trinitaria, è sintetizzata tutta l’essenza del cristianesimo, è rappresentato il tratto distintivo di ciò che è cristiano.
Ivi, p. 169
Ora dobbiamo essere corretti nel contestualizzare le pagine di Ratzinger, il quale non stava parlando del segno della croce all’inizio della messa, ma va pure ricordato che una Introduzione allo spirito della liturgia non è pensabile su un piano totalmente indipendente dalla preghiera pubblica ordinaria della comunità cristiana, e dunque, se non è di questa che espressamente Ratzinger parlava, le sue valutazioni ricadono facilmente e utilmente anche nel nostro discorso. Il Cardinale osservava poi che «il segno di croce ci apre la strada anche verso la vastità della storia delle religioni e verso il messaggio di Dio presente nella creazione» (ibid.).
La prefigurazione nel giudaismo…
Già nel 1873 furono scoperte sul Monte degli Ulivi iscrizioni sepolcrali greche ed ebraiche risalenti all’incirca al tempo di Gesù, che erano accompagnate da segni di croce, così che gli archeologi dovettero supporre che si trattasse di cristiani del tempo più antico. A partire dal 1945 circa, si moltiplicarono le scoperte di tombe ebraiche con il segno di croce, che erano da assegnare più o meno al primo secolo dopo Cristo. Tali scoperte non consentivano più l’interpretazione che si trattasse di cristiani della prima generazione; si dovette piuttosto riconoscere che i segni di croce avevano una collocazione nello stesso ambiente ebraico. […] La chiave interpretativa la forniva Ez 9,4ss. Nella visione ivi descritta Dio stesso dice al suo messaggero vestito di | lino che porta al fianco la borsa da scriva: «Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono». Nell’imminente catastrofe spaventosa, coloro che non aderiscono al peccato del mondo, ma ne soffrono a motivo di Dio – soffrono senza poter fare nulla, ma appunto si tengono comunque lontani dal peccato – vengono segnati con l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, il tau, che si scriveva in forma di croce (T oppure + oppure X). Il tau, che aveva effettivamente la forma di una croce, diventa il sigillo di proprietà di Dio. Esso risponde al desiderio di Dio e al dolore che l’uomo prova a motivo di Dio, e lo pone così sotto la sua particolare protezione.
Ivi, pp. 169-170
Chiaramente il tau non è una croce, se non graficamente, ma non appena i cristiani cominciarono a sintetizzare nel gesto del segno di croce la loro professione di fede fu loro evidente l’assonanza con il tau di cui parlava Ezechiele, e fu semplicissimo riconoscere nel suo portato simbolico una figura – ancora una volta, un tipo – della croce di Cristo e dei cristiani.
…e quella nella filosofia greca
Ma non sono col solo giudaismo si riscontrano convergenze suggestive: Ratzinger indicò anzi che i primi semina Verbi furono investigati dai cristiani (paradossalmente ma non troppo) nella filosofia greca.
Essi trovarono in Platone una strana idea della croce tracciata nel cosmo (Timeo 34 A/B e 36 B/C). Platone l’aveva dedotto da tradizioni pitagoriche che, a loro volta, stavano in rapporto con tradizioni dell’antico Oriente. Si tratta innanzitutto di un’affermazione astronomica: i due grandi movimenti stellari conosciuti dall’astronomia antica – l’eclittica (il grande cerchio nella sfera celeste intorno alla terra, nel quale scorre l’apparente movimento del sole) e l’orbita terrestre – s’intersecano e formano insieme la lettera greca chi che, a sua volta, si presenta a forma di croce (quindi come una X). Nel cosmo nella sua totalità risulta inscritto il segno della croce. Platone aveva collegato questo fatto – seguendo in questa materia a sua volta tradizioni più antiche – con l’immagine della divinità: il demiurgo (il creatore del mondo) avrebbe “dispiegato” l’anima del mondo «attraverso tutto l’universo».
Ivi, p. 171
Né si tratta, come si accennava, di argute speculazioni di eruditi moderni:
Il martire Giustino, il primo filosofo tra i Padri († c. 165), originario della Palestina, scoprì questi testi di Platone e non esitò a collegarli con la dottrina del Dio trinitario e con il suo agire nella Storia della salvezza mediante Gesù Cristo. Egli vede nell’idea del demiurgo e dell’anima del mondo presagi del mistero del Padre e del Figlio, presagi certamente bisognosi di correzioni, ma anche suscettibili di riceverle. Ciò che Platone dice dell’anima del mon|do gli appare come un’allusione alla venuta del Logos, del Figlio di Dio. E così egli può arrivare a dire che la forma della croce sarebbe il simbolo più grande della signoria del Logos, senza la quale non potrebbe esserci alcuna connessione nell’intera creazione.
Ivi, pp. 171-172
Insomma, la Riforma liturgica seguita al Vaticano II ha inteso consegnare al Popolo di Dio, nei primi riti della propria liturgia fondamentale, un gesto pregno delle più profonde spiritualità e speculazioni su Dio, il mondo e l’uomo che la storia del pensiero antico ci abbia lasciato:
La Croce del Golgota è prefigurata nella struttura stessa del cosmo; lo strumento del martirio sul quale il Signore morì è inscritto nella struttura dell’universo. Il cosmo ci parla della croce, e la croce ci spiega il cosmo. Essa è la vera chiave interpretativa di tutta la realtà. Storia e cosmo vanno insieme. Se apriamo gli occhi, leggiamo il messaggio di Cristo nel linguaggio dell’universo, e viceversa: Cristo ci fa dono di comprendere il messaggio della creazione.
Ivi, p. 172
E allora sì, se davvero facciamo così, l’Eucaristia può “cominciare” nel migliore dei modi.
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