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La siciliana che di san Pio X disse: «Per me questo papa è turco»

POPE PIUS X
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 30/10/20
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C’è una citazione da “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che da qualche tempo riscuote una certa popolarità in contesti ecclesiali: vi si riporta la paradossale avversione di un’anziana reazionaria siciliana alle riforme liturgiche di san Pio X. Un eccellente spunto per alcune considerazioni su “progressismo” e “conservatorismo”.Ieri mattina un’amica riportava sulla sua pagina Facebook un celebre passaggio de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: quello in cui Carolina, la sorella di Concetta, viene definita

parte di quelle schiere di cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa.

Una citazione per tutte le stagioni

E chi è mai Carolina? D’accordo, non è questo il passaggio più celebre del libro – il dialogo fra Tancredi e lo Zione, don Fabrizio, che tutti si cita anche senza aver mai letto il libro –, ma resta nondimeno una pagina assai in voga, soprattutto in ambienti ecclesiali ed ecclesiastici.

Antonio Spadaro, ad esempio, ha citato il passaggio in un Tweet del 2019:

E già lo aveva fatto nel 2018:

Né la citazione è stata (come qualcuno potrebbe pensare) appannaggio dei “bergogliani” che si barricano dagli assalti degli “antibergogliani”: nel 2010 la si ritrovava anche su messainlatino.it. È salutare riportare un passaggio dal pensiero di un commentatore che, in pieno papato ratzingeriano, svolse un’interessante osservazione sui “tradizionalisti”:

Appare invece fuori luogo definire “tradizionalista” Carolina perché vuole saperne più del Papa e perché ne critica i provvedimenti: al contrario, i “tradizionalisti” d’oggi fanno a gara a prodursi in leccate e giustificazioni illogiche di tutto quello che il papa fa, a partire dal nefasto motu proprio che, in cambio della agognatissima pianeta di spalle, costringe a credere che quello che si crede ora è quello che si credeva prima, che non vi è mai stato cambiamento, e che le due messe hanno la stessa teologia.

Il “nefasto motu proprio” sarebbe, secondo il commentatore (che si firma “Vogliamo i colonnelli”!), il Summorum pontificum di Benedetto XVI, del luglio 2007, col quale il papa stabiliva la liceità dell’uso, per la celebrazione eucaristica, del Messale Romano editato da Giovanni XXIII nel 1962 – provvedimento che valse al pontefice tedesco l’inimicizia giurata di fior fior di liturgisti e di progressisti di varia risma. Ora, se questa reazione fu prevedibile e anzi certamente messa nel bilancio costi/benefici da Benedetto XVI, più sorprendente (almeno per chi non sia avvezzo alle bizzarrie ecclesiali) dovette apparire quella dei sedicenti tradizionalisti (in realtà meri reazionari): si battono per la cosiddetta “messa di sempre” e quando hanno l’autorevole autorizzazione a celebrare in quella forma storcono il naso osservando (insieme con i liturgisti conciliari, peraltro!) che non potrebbero esistere “due forme” di un medesimo rito, e che l’altra (cioè quella riformata) sarebbe semplicemente da rigettare. Stare fuori dai due schieramenti aiuta a vedere quanto essi curiosamente si assomiglino (ma per carità, non glie lo dite sennò vi si mangiano come non fanno neanche col papa!).



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Ricontestualizzare il libro e la storia

La digressione aiuta a ricollocare in un contesto pienamente preconciliare (il libro uscì nel 1963, sì, ma era stato scritto tra il 1954 e il 1957, nell’ultimo pontificato pacelliano) sfumature di appartenenza ecclesiale che ai nostri giorni ci appaiono univocamente segnate dal duplice binomio (spesso rozzamente assimilato) “conservatori-progressisti” “conciliari-anticonciliari”: l’unico Concilio di cui Carolina ebbe notizia in vita sua era stato il Vaticano I, che certamente non passa alla storia come “uno snodo di apertura”, e avendo una settantina d’anni nel 1910 i papi della sua vita sono stati Pio IX, Leone XIII e Pio X. Se si conta che il primo dei tre era stato in un primo momento favorevole al progetto politico sabaudo (donde era promanato lo sconvolgimento del piccolo mondo antico di casa Salina); e che il secondo era stato il papa della Rerum novarum, il pioniere della dottrina sociale della Chiesa così come la conosciamo nella modernità; ci si immaginerebbe che il modesto trevigiano divenuto Pio X, preso com’era dalla lotta al modernismo, dovesse incontrare le sue simpatie.


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E invece no, perché quei “cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa” semplicemente ci sono. Giuseppe Tomasi lascia qui, da semi-credente qual era stato almeno fino agli ultimi tempi della sua vita, una pennellata di impressionante vivacità psicologica: quando Concetta riprende la sorella che si era appena lasciata andare un “Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri; farebbe meglio”, il narratore ci riferisce dei pensieri del monsignore che precorreva e preparava la visita cardinalizia alla cappella Salina (trattata come tempio di tradizione, ma in realtà allestita da meno di trent’anni all’epoca dei fatti).

Questi, a dir vero, sorrideva più che mai; pensava soltanto che si trovava di fronte a una bambina invecchiata nella ristrettezza di idee e nelle pratiche senza luce. E, benigno, indulgeva.

“Ristrettezza di idee” e “pratiche senza luce” nella padrona di una tra le case che più aveva disposto, in termini di risorse e di esperienze: perché non bastano illustri natali e generose disponibilità per aprire una mente e far sbocciare uno spirito.



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Ma di cosa era questione, dunque, in quel maggio del 1910? Il Gattopardo termina con «un mucchietto di polvere livida» in chiusura dell’ultima, malinconicissima scena, che si svolge a latere dell’ispezione del Cardinale alla cappella di Casa Salina: era il tramonto di un mondo che veniva inghiottito da un altro, cosa che accade a ogni tornante generazionale… ma il mondo che finiva con Concetta, Caterina e Carolina – ne ha forte sentore chi legga il romanzo fino in fondo – non è mai stato vero e reale fuori da quelle singole esperienze, lustre però marginali. Perfino la Chiesa, finanche il papa interveniva a estinguere quel lucignolo fumigante in cui s’era cercato di raccogliere ingenuamente tanto fervore: le tre signorine avevano voluto quella cappella, dopo la morte del Principe, e l’avevano riempita di una settantina di presunte reliquie e di “una Madonna” dalla dubbia iconografia… Uno si potrebbe dire: sono tre povere vecchie, in quella cappella a cui tengono tanto neanche lasciano entrare chicchessia… e lasciate che credano quel che vogliono, no?

No: le reliquie furono impietosamente aperte, studiate, analizzate insieme con i certificati e i cartigli… se ne salvarono appena cinque. Il quadro fu spostato in un salone e sostituito da una meno audace Madonna di Pompei.

Restituire luce alle pratiche: l’impresa di Pio X

L’amica che ha avuto il merito di riportare alla mia attenzione questa penultima pagina del romanzo osservava che tuttavia il motu proprio Supremi disciplinæ – con cui si riducevano le feste non domenicali da 36 a 8 – è del 1911 (2 luglio, per la precisione), e che dunque quello di Giuseppe Tomasi sarebbe stato un anacronismo.



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Tutto è possibile, ma certo una sbavatura così grossolana mal si addirebbe a un romanziere storico di indiscusso prestigio, e soprattutto Supremi disciplinæ non fa cenno a questioni di reliquie. Autori e lettori di messainlatino.it hanno (giustamente) ricordato che lo zelo apostolico di san Pio X – autentico precursore del movimento liturgico – aveva battuto sulla liturgia almeno fin dal 1903, quando fu emanato il motu proprio sulla musica sacra Tra le sollecitudini. Anche questo, però, non parla di arredi sacri e soprattutto si riferisce al culto pubblico, non alle cappelle gentilizie.

Forse la chiave dell’enigma si cela nelle parole stesse che Tomasi adopera per esprimere la ragione della visita del Cardinale:

Sua Eminenza paternamente desidera – spiegava mons. Vicario alla vigilia dell’ispezione – che il culto celebrato in privato sia conforme ai più puri riti di Santa Madre Chiesa ed è proprio per questo che la sua cura pastorale si rivolge fra le prime alla vostra cappella perché egli sa come la vostra casa splenda, faro di luce, sul laicato palermitano, e desidera che dalla ineccepibilità degli oggetti venerati scaturisca maggiore edificazione per voi stesse e per tutte le anime religiose.

Difatti la prima furente reazione di Carolina investì proprio l’Arcivescovo di Palermo:

Adesso ci dovremo presentare alle nostre conoscenze come delle accusate; questa di una verifica alla nostra cappella è una cosa, scusatemi Monsignore, che non avrebbe dovuto nemmeno passare per la testa di Sua Eminenza.

Ed è qui che il Vicario tirò in ballo Pio X:

Signorina, Lei non immagina quanto la Sua emozione appaia grata ai miei occhi: essa è l’espressione della fede ingenua, assoluta, graditissima alla Chiesa e, certamente, a Gesù Cristo Nostro Signore; ed è soltanto per più far fiorire questa fede e per purificarla che il Santo Padre ha raccomandato queste revisioni le quali, d’altronde, si vanno compiendo da qualche mese in tutto l’orbe cattolico.

La precisazione temporale e contenutistica permette di precisare che probabilmente il riferimento dello Scrittore fu soprattutto al motu proprio Cum per apostolicas, del 7 aprile 1910, con cui il Romano Pontefice stabilì che le indulgenze connesse a pratiche religiose o anche a “pia obiecta” vengano subordinate a una recognitio da compiere e comunicare al Sant’Uffizio «entro sei mesi dalla pubblicazione di questo Nostro Decreto».



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Ecco a cosa pensa, «questo Papa» che non bada «ai fatti propri»: a mettere in dubbio l’autenticità delle reliquie che per anni la devota “donna Rosa” («una grassissima vecchia, per metà monaca, che possedeva relazioni fruttuose in tutte le chiese») aveva scovato e venduto alle signorine Salina. E di ben settantaquattro reliquie, che «coprivano fitte le due parti di parete di fianco all’altare», il Cardinale glie ne avrebbe riconosciute a malapena cinque?!

Il Cardinale di Palermo era davvero un sant’uomo; e adesso che da molto tempo non c’è più rimangono vivi i ricordi della sua carità e della sua fede. Mentre viveva, però, le cose stavano diversamente: non era siciliano, non era neppure meridionale o romano e quindi l’attività sua di settentrionale si era molti anni prima sforzata a far lievitare la pasta inerte e pesante della spiritualità siciliana in generale e del clero in particolare. Coadiuvato da due o tre segretari del proprio paese si era illuso, nei primi anni, che fosse possibile rimuovere abusi, poter sgombrare il terreno dalle più flagranti pietre d’inciampo. Presto si era dovuto accorgere che era come sparar fucilate nella bambagia: il piccolo foro prodotto sul momento veniva colmato dopo brevi istanti da migliaia di fibrille complici e tutto restava come prima, con in più il costo della polvere, il deterioramento del materiale e il ridicolo dello sforzo inutile. Come per tutti coloro che, in quei tempi, volevano riformare checchessia nel carattere siciliano si era presto formata su di lui la reputazione che fosse un fesso (il che nelle circostanze ambientali era esatto) e doveva accontentarsi di compiere passive opere di misericordia che del resto non facevano se non diminuire ancora la sua popolarità se esse esigevano dai beneficati la benché minima fatica come, per esempio, quella di recarsi al Palazzo Arcivescovile per ricevere gli aiuti.

La tagliente descrizione di Tomasi descrive fin troppo bene la memoria di mons. Alessandro Lualdi (salvo che, essendo nato nel 1858, nel 1910 egli era tutt’altro che anziano): ancora nel 1927, anno della sua morte, egli sarebbe riuscito ad aprire il ricchissimo Museo diocesano, e dunque è forse ingenerosa la cappa di disillusione che l’autore de Il Gattopardo gli pone sulle spalle.

Resta tuttavia sostenibile, ma certo non valida soltanto per la Sicilia di centodieci anni fa, la descrizione del panorama ecclesiale, e sicuramente anche nel 2020 non mancherebbe qualcuno disposto a sottoscrivere la temeraria affermazione di Carolina: «Per me questo Papa è turco».

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