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Dalla Bibbia alle Bibbie: la Bibbia gotica

Particolare dalla pagina del Codex Argenteus che riporta un passo di Mc 3 nella versione gotica di Wulfila

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 16/10/20
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La traduzione gotica delle Scritture cristiane è legata per sempre alla figura del vescovo missionario Wulfila, e con essa è implicata nella tradizione che ha portato Visigoti e Ostrogoti a confessare in massima parte la dottrina ariana. Già nell’antichità, tuttavia, si era posto il problema di come giustificare un tanto grave errore dogmatico con l’effettiva santità delle persone che vi restavano irretite. Come a dire che “il potere sacramentale” (Salviano) di quelle Scritture non era venuto meno malgrado la deviazione dogmatica.

Abbiamo visto che le traduzioni sono una delle più importanti caratteristiche del testo sacro dei cristiani, e in un certo senso anche degli ebrei: è infatti a partire dalla traduzione alessandrina detta “dei Settanta”, dall’ebraico in greco, che i credenti (prima gli ebrei, quindi i cristiani) hanno cominciato a legare l’ispirazione del testo alla ricezione della comunità più che alla lingua di composizione. Una rivoluzione copernicana, se si pensa che alcune delle più importanti lezioni dei LXX (una per tutte: “vergine” al posto di “ragazza” in Is 7) sono state prodotte da giudei e utilizzate da quei giudeo-cristiani che credettero in Gesù (e che nel “figlio della Vergine” riconobbero un distintivo messianico).


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Per questa ragione la teologia cristiana (almeno quando è sana) guarda con inestinguibile interesse ai testi ebraici ma si guarda bene dal presumere che l’hebraica veritas estingua l’intera ispirazione delle Scritture: se così non fosse, non si potrebbe acclamare alla “Parola del Signore” proclamata in italiano o in altra lingua moderna, durante le celebrazioni (così fanno ad esempio i musulmani, che difatti debbono inderogabilmente imparare l’arabo per accedere al Corano vero e proprio – le traduzioni essendo ritenute, teologicamente, delle contraffazioni).


MOÏSE LAW TABLE, RAPHAEL
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Se i Settanta hanno avuto un ruolo fondativo, anche altre traduzioni storiche hanno consolidato la rilevanza dell’assunto teologico soggiacente: fu così per la Bibbia etiopica, nonché (qualche tempo dopo) per quella copta. Una delle versioni più antiche e più importanti delle Scritture cristiane, tuttavia, è la Bibbia gotica, che la tradizione lega inestricabilmente al nome del vescovo Wulfila (nome gotico che significa “lupetto”).



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Data l’importanza del personaggio, vale la pena riportare l’essenziale nota che Manlio Simonetti aveva disposto per il Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane:

Di origine cappadoce e di famiglia cristiana, nato intorno al 311, fu, ancora bambino, vittima, insieme con i genitori, di una razzia di Goti che li portarono insieme con loro oltre il Danubio. Conservata la fede cristiana, fu ordinato vescovo a Costantinopoli nel 341 da Eusebio di Nicomedia e si diede a diffondere il cristianesimo di fede ariana fra i Goti. Per sette anni operò a nord del Danubio; poi una persecuzione dei Goti ancora pagani lo costrinse a cercare rifugio, insieme con i Goti diventati cristiani, in Mesia, ai limiti dell’impero. Nel 360 partecipò al concilio di Costantinopoli e | sottoscrisse la formula di fede omea (ariana moderata). Morì nel 383 in occasione di un viaggio a Costantinopoli er intercedere in favore di Palladio di Ratiaria.

Nonostante tentativi recenti di minimizzare la sua attività evangelizzatrice fra i barbari, questa fu di primissima importanza. Per sostenerla adeguatamente sul piano culturale, Wulfila creò un alfabeto adatto alla sua lingua e tradusse in gotico la Sacra Scrittura, opera che si rivelò fondamentale sotto il profilo non solo religioso, ma anche culturale. Sappiamo che scrisse anche in greco e in latino, ma di lui ci è giunta soltanto una professione di fede. In genere, gli studiosi moderni lo considerano ariano moderato, in forza della sua sottoscrizione alla formula del 360; ma questa formula serviva soltanto a far da supporto a un arianesimo radicale (anomeismo) direttamente esemplato su quello di Eunomio. Questa forma di dottrina egli trasmise all’arianesimo occidentale attivo fra la fine del IV e gli inizi del V sec. e alle popolazioni germaniche che diventarono cristiane.

Manlio Simonetti, Wulfila in NDPAC III, 5691-5692

Con l’essenzialità e la chiarezza che contraddistinguono l’intera opera di Simonetti, anche questi due brevi paragrafi offrono al lettore gli elementi storico-geografici essenziali per collocare il profilo e l’opera del personaggio: tempi di vorticosi (e anche pericolosi) rovesci socio-politici, specie in zone dell’impero divenute da tempo periferiche ed esposte alle incursioni di “barbari” generalmente desiderosi di integrazione con l’impero romano ma progressivamente incattiviti dalla politica di temporeggiamento che i romani avevano adottato nei loro confronti. L’influenza culturale comunque era già forte nel nome del giovane “Lupetto” (nome gotico che ci risulta essere stato il suo da sempre, dunque scelto da genitori romani di lingua greca), e la stessa condizione servile non precluse a Wulfila né la “carriera ecclesiastica” né l’ardore missionario proprio presso i popoli che avevano rapito la sua intera famiglia: per la loro lingua Wulfila modificò l’alfabeto, e così facendo egli aprì ai Goti le porte della letteratura gotica; le sue scelte ermeneutiche rifletterono una sensibilità culturale mista, e se è troppo semplicistico affermare che Wulfila e i Goti furono ariani perché l’Impero fu anti-ariano (l’azione di Wulfila si colloca infatti in una fase ancora acerba della crisi ariana, quando né il nicenismo era maturato in neonicenismo né lo stesso Impero aveva deciso una volta per tutte di opporsi all’arianesimo senza più ambiguità), bisogna perlomeno tenere in considerazione che la dialettica culturale potè giocare un qualche ruolo nelle sopraddette scelte.


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Ma quali furono quelle scelte? Le traduzioni dei passi cristologici, fondamentalmente, vennero rese in modo da esaltare la subordinazione di Cristo e del Logos rispetto al Padre, che veniva di fatto a essere considerato l’unico vero Dio, laddove il Figlio era sì “Dio”, ma “un Dio” e non “il Dio” non «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero».


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Wulfila tradusse la Bibbia in gotico circa mezzo secolo prima che Girolamo imponesse la propria vulgata sulle veteres latinæ, ma se anche si volesse ipotizzare un orizzonte analogo in campo gotico (cioè qualche “pezzo di Bibbia” tradotto qua e là, magari scritto con alfabeti provvisori, destinati ad essere cancellati dalle precisazioni di Wulfila), il tutto resterebbe nel campo nella pura – benché in qualche misura plausibile – ipotesi: è vero che il cristianesimo (forse già con una preferenziale tendenza subordinazionista) cominciò a diffondersi tra i Goti già prima dell’attività di Wulfila; non lo è meno che se ci è giunta unicamente la tradizione che intesta a lui il merito dell’evangelizzazione della Gothia un motivo ci sarà.

Wulfila_bibel.jpg

Carta 292 v del Codex Argenteus (VI secolo). Vi si legge Mc 3,26-32 secondo la versione gotica di Wulfila.

Arianesimo e ariani nella testimonianza di Salviano di Marsiglia

Non parla di lui, tuttavia, ma “solo” dell’arianesimo dei Goti, Salviano di Marsiglia, che un secolo dopo la giovinezza di Wulfila avrebbe scritto delle importantissime considerazioni sul quanto e come la versione gotica della Bibbia (era quella di Wulfila o all’epoca se ne conoscevano ancora delle eventuali altre? Chissà…) abbia influito sull’ordinamento religioso dei Goti:

Essi leggono gli stessi libri nostri. Gli stessi libri? Ma come è possibile se, tempo fa, sono stati malamente interpolati e malamente trasmessi da traduttori in cattiva fede? Non sono più gli stessi, perciò, poiché non si può assolutamente dire “gli stessi” quando certi passi sono stati alterati. Non sono più intatti, se hanno perso la loro integrità! Non sono più per niente quelli che erano, se gli hanno tolto il loro potere sacramentale. Siamo soltanto noi, perciò, a conservare la sacra Scrittura completa, inviolata, integra, poiché noi la beviamo nella sua autentica sorgente o per lo meno l’attingiamo da una fonte purissima grazie a chi ce l’ha tramandata intatta. Siamo soltanto noi a leggerla così come è.

Salviano, De gubernatione Dei V,6

A chi non conosca Salviano e la sua opera potrà sembrare che l’autore dia addosso ai “barbari” per lodare i romani/cattolici: è vero il contrario, e se in passi come questo il monaco germanico tesse le lodi delle migliori condizioni offerte dalla tradizione cattolica egli lo fa unicamente per enfatizzare la tanto più grave colpevolezza che i romani cattolici hanno nel non seguire i precetti divini.


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Dei “barbari”, invece, Salviano fa l’elogio opposto: partono da condizioni svantaggiose, quanto alla conoscenza della retta fede, eppure si santificano meglio dei cattolici aderendo con maggiore impegno alla proposta del Redentore.



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Sviluppando questi pensieri, Salviano arriva a compilare uno dei passaggi più acuti e duttili che la patristica annoveri in merito al concetto stesso di “eresia”:

Sono eretici, insomma, senza rendersene conto. Ebbene, sono eretici per noi, ma per loro non lo sono; anzi, si ritengono talmente cattolici che appioppano proprio a noi la qualifica infamante di eretici. E cos’, ciò che essi sono per noi, noi lo siamo per loro. Noi siamo convinti che sono loro a offendere la filiazione divina affermando che il Figlio è inferiore al Padre; essi ritengono invece che siamo noi a offendere il Padre credendoli uguali. La verità ce l’abbiamo noi, ma essi la rivendicano a sé stessi. Siamo noi a onorare Dio, ma a loro giudizio è quello che essi credono che dà onore a Dio. Sono incuranti dei loro doveri verso Dio [Salviano intende qui “onorare la Trinità”, N.d.R.], ma per essi è proprio questo il massimo dovere religioso. Sono empi, ma pensano che sia proprio questa l’autentica pietà. Sono perciò fuori strada, ma lo sono in buona fede, non per odio bensì per amore di Dio, convinti di venerare e amare il Signore. È vero che la loro fede non è pienamente ortodossa, ma essi pensano che sia espressione del perfetto amore a Dio. Quale punizione dovranno subire nel giorno del giudizio per questa loro credenza falsa ed erronea, nessuno lo può sapere all’infuori del Giudice.

Penso perciò che Dio, nel frattempo, usa con essi pazienza, perché vede che, malgrado la loro fede non sia ortodossa, il loro errore è dovuto però all’adesione a una credenza comunque coscienziosa; Dio sa perfettamente che essi agiscono in quel modo per ignoranza, mentre i nostri scientemente; che essi mettono in pratica ciò che ritengono giusto, mentre i nostri ciò che sanno essere sbagliato.

Ivi, V,9-10

Le traduzioni insomma sono fin dall’antichità luoghi d’incontro di nuovi credenti… e al contempo occasione di scandalo e di allontanamento da altri… Nonché, prima o poi, terreno di memoria e di riconciliazione per una Chiesa che parla molte lingue ma che ha «un cuore solo e un’anima sola».

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