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“La vita di nostro Signore”: Gesù secondo Charles Dickens

CHARLES DICKENS
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Manuel Ballester - pubblicato il 15/10/20
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Un'opera poco nota dell'autore di Oliver Twist: scritta per i suoi figli e proibita finché questi non sono morti

Un’opera poco nota dell’autore di Oliver Twist: scritta per i suoi figli e proibita finché questi non sono morti

Charles Dickens (1812-1870) ha scritto molte opere celebri, come Oliver Twist, David Copperfield e il celeberrimo Canto di Natale.

Pochi, però, conoscono la sua La vita di nostro Signore, scritta per i suoi figli tra il 1846 e il 1849. Dickens proibì che il testo venisse pubblicato mentre questi erano ancora in vita, e quindi per la prima edizione si è dovuto attendere fino alla morte del minore dei suoi dieci figli, Henry Dickens, nel 1933.

Scritta con la maestria di un autore consacrato e con la tenerezza di un padre che cerca di fare ai suoi figli il dono più bello di cui è capace, ci offre paragrafi come quello che dà inizio al testo:

“Cari figli miei,

sono molto impaziente di farvi sapere qualcosa della storia di Gesù, perché tutti dovrebbero conoscerla. Non è mai esistito nessuno come Lui, così buono, così gentile, dolce di carattere e compassionevole con i malvagi, i malati o i miserabili. E stando ora in Cielo, dove speriamo di andare […], non potrete mai immaginare che luogo splendido sia il cielo senza sapere che è stato Lui a farlo”.

L’opera contiene la vita, gli insegnamenti, la morte e la resurrezione di Cristo raccontate da un padre ai suoi figli. La penna di Dickens scrive pensando ai suoi primi destinatari, e per questo a volte chiarisce e altre volte approfitta per sottolineare gli insegnamenti che ritiene che i suoi figli debbano assimilare.

Vi si trovano infatti le tipiche digressioni di qualsiasi padre quando racconta una storia ai propri figli, ad esempio: “Le creature più miserabili, brutte, deformi e disgraziate saranno angeli splendenti in cielo, a patto che sulla Terra siano state buone. Non ve ne dimenticate mai, crescendo. Non siate mai orgogliosi né scortesi, cari miei, nei confronti di nessun povero”. Dopo aver raccontato la lode di Gesù nei confronti della vedova povera che ha gettato nel tesoro del tempio solo due monetine dice ai suoi figli dice: “Quando ci crediamo caritatevoli non dimentichiamo mai quello che ha fatto la vedova povera”.


VIRGIN MARY, CHARLES DICKENS
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Il padre e autore illustra anche alcuni dettagli che permettono ai figli di seguire il racconto. Così, ad esempio, parlando della nascita di Cristo dice che “non c’era lì una culla né nulla che le assomigliasse, e quindi Maria pose il suo bellissimo piccolo in quella che si chiama mangiatoia, che è il luogo in cui mangiano i cavalli. E lì si addormentò”. Dopo aver raccontato e spiegato varie parabole, dice che Gesù “insegnò ai suoi discepoli attraverso queste narrazioni, perché sapeva che la gente amava ascoltarle e così avrebbe ricordato meglio le cose che diceva. Questi racconti si chiamavano parabole […], e vorrei che ricordaste questo termine, perché presto dovrò raccontarvene qualcun’altra”.

Dickens stabiliva poi paragoni utili per i bambini: “Il luogo più importante di tutto quel Paese era Gerusalemme – come Londra è la grande città dell’Inghilterra”.

L’autore usa un tono infantile ma non sciocco, e un linguaggio corrispondente alla sensibilità infantile – Erode è il re cattivo e invidioso, i malvagi sono cattivi e i buoni santi, anche se prima sono stati grandi peccatori – o adatta il racconto, come quando si riferisce all’adultera che vogliono lapidare e dice che è “una donna colpevole di qualcosa che veniva punito dalla Legge”.

Non è un trattato di cristologia, né un’opera pensata per promuovere la pietà. Per questo gli amanti dell’ortodossia e i teologi si astengono dal leggerlo, a meno che non siano capaci di rendersi bambini e si lascino meravigliare dalla grandezza di quanto viene narrato.

È un libro non molto lungo, di facile lettura, scritto con maestria e tenerezza.

Ed è importante, perché si sa che la tenerezza è uno dei nomi più belli dell’amore. Così sembra intendere Péguy quando afferma che “la tenerezza è né più né meno che il midollo del cattolicesimo”.



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