È da oggi nelle librerie un’edizione della terza enciclica di Papa Francesco preceduta da una degna introduzione di Bruno Forte e corredata da dieci brevi commenti di pensatori specializzati ciascuno in un diverso ambito culturale. Una lettura stimolante che ha il pregio di porre (anche) “domande scomode”.
Esce oggi (12 ottobre 2020) dalle rotative bresciane di Morcelliana, per il catalogo Scholé, un’edizione di Fratelli tutti coronata da una decade di commenti eccellenti. I commentatori sono, nell’ordine, Piero Stefani, Massimo Giuliani, Massimo Campanini, Roberto Rusconi, Chiara Frugoni, Fulvio De Giorgi, Salvatore Natoli, Mauro Ceruti, Pier Cesare Rivoltella e Arnoldo Mosca Mondadori. Agili e non invasivi, i commenti occupano insieme le ultime ottanta pagine del libro, mentre le centocinquanta precedenti sono canonicamente prese dal testo completo dell’enciclica bergogliana.
Un libro per spiegarne un altro?
Un posto a parte merita (e ha) l’Introduzione di mons. Bruno Forte, che impegna il lettore per diciotto pagine offrendo la propria lettura del testo magisteriale e anzi accompagnando il lettore nello svolgere la propria:
[…] [il suo] carattere ricapitolativo – spiega il Vescovo di Chieti – costituisce una possibile difficoltà per il lettore, non solo e non tanto per la lunghezza materiale del testo […], quanto per l’abbondanza delle questioni toccate e dei motivi approfonditi, pur raccolti intorno al filo rosso dell’idea della fraternità e dell’amicizia sociale. Un consiglio per un lettore meno addentro alle tematiche affrontate potrebbe essere – almeno in un primo momento – quello di scegliere nell’Indice i paragrafi da cui possa sentirsi più attratto, per poi procedere a una lettura più sistematica e completa. Per meglio recepire il messaggio, inoltre, può essere utile raccogliere le idee intorno ad alcuni nuclei tematici: è quanto a mo’ di esempio tentano le riflessioni seguenti, provando a rispondere alla luce dell’enciclica a tre domande fra le molte da essa sollevate. Gli interrogativi riguardano l’origine dall’alto della fraternità cristiana, quale segno, dono e profezia per la fraternità di tutti gli uomini; gli effetti storici del dono della fraternità in Cristo per la comprensione dell’identità del popolo di Dio nella sua comunione e nella missione che è chiamato a vivere; le conseguenze che è possibile trarre dal testo riguardo alle idee di giustizia, pace e salvaguardia del creato.
Bruno Forte, Introduzione in Papa Francesco, Fratelli tutti (con commenti di AA.VV.), Morcelliana, Brescia 2020, p. 18
Forte ha evidentemente la consegna di presentare tanto l’enciclica quanto il libro, sebbene non tanto il pensiero dei commentatori quanto quello del Papa. È tuttavia molto interessante quest’insieme di commenti che, pur necessariamente limitato dal bacino intellettuale cui attinge (quello italofono e italiano), rappresenta nient’affatto male il target universale dell’enciclica. In alcune encicliche, a cominciare dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963), gli “uomini di buona volontà” sono stati espressamente menzionati fin dalla titolazione, ove si esplicitava il destinatario dell’enciclica (o altro tipo di documento magisteriale). In Fratelli tutti, curiosamente, Francesco non ha espresso un destinatario, ma agli uomini “di buona volontà” (cioè ai non credenti) si fa cenno per almeno cinque volte nel corso del documento.
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La disposizione segue una ratio ben ordinata e comprensibile: Stefani offre una panoramica biblica tra i due testamenti; Giuliani propone invece un excursus nelle tradizioni giudaiche e Campanini completa il quadro abramitico con una panoramica nel mondo islamico. Dopo questa prima sezione vengono Rusconi e Frugoni, con due contenuti di contestualizzazione sul Poverello di Assisi (il primo sui lebbrosi, il secondo sul “non giudicare”. A seguire una proposta sul portato pedagogico-politico dell’enciclica (De Giorgi) e una su quello etico. Ceruti e Rivoltella propongono due riflessioni variamente articolate sul contesto socio-culturale, mentre Mosca Mondadori invita a considerazioni contemplative sul Mistero della compassione di Cristo per il mondo.
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Una sorta di “composizione circolare”, se si vuole sottolineare il criterio della disposizione: dalla Rivelazione al vasto mondo per poi tornare al cuore della Rivelazione – che è la passione di Cristo per gli uomini, elevati alla dignità di suoi fratelli e resi con-fratelli fra loro.
Un “progetto veramente per tutti”
La fraternità è senza dubbio uno dei distintivi del cristianesimo, ma questo basta a farne anche la lingua franca con gli “uomini di buona volontà”? Una domanda simile mi poneva, qualche giorno fa, un amico che, non avendo ancora letto il testo, chiedeva:
Per quello che vivo io riesco ad essere fratello davvero solo con la grazia, qualche volta, implorando lo Spirito Santo. Essere tutti fratelli è un dono supremo per Grazia da implorare senza interruzione. Questo secondo te emerge dall’Enciclica?
Al che avevo agio di rispondere che almeno la nota 203 e il n. 272 rispondono esattamente alla sua domanda, e in modo assai netto:
Come cristiani crediamo, inoltre, che Dio dona la sua grazia affinché sia possibile agire come fratelli.
[…]
Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi». Perché «la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità».
Nella sua Introduzione, Bruno Forte ricorda come il tema sia stato studiato già nel 1960 dal giovanissimo Joseph Ratzinger, il quale
proponeva la sua riflessione come uno sforzo di superamento di due concezioni, da una parte quella dell’universalismo della fraternità, proposto dalla Rivoluzione francese come corollario e conseguenza della pari libertà e dell’uguaglianza fra tutte le componenti della società (liberté, egalité, fraternité) e ripreso dalle ideologie rivoluzionarie della modernità, dall’altra quella di un’interpretazione ristretta ed “elitaria” della fraternità, come se essa fosse possibile soltanto in gruppi limitati, consapevoli della propria identità in alternativa ad altre.
Bruno Forte, Introduzione, cit., 5
Il Vescovo e teologo entra nel merito dell’enciclica osservando:
Le ragioni della crisi secondo l’analisi di papa Francesco risiedono nel fatto che si trattava spesso di visioni prive di un progetto veramente per tutti, segnate da una logica dello “scarto”, in base alla quale i diritti umani non erano affermati in maniera adeguatamente universale.
Ivi, 9
Il fatto è che l’unico “progetto veramente per tutti” che sia noto nella storia umana è quello di Dio. Difatti:
Il fondamento teologico della fraternità è dunque indicato in maniera chiara ed esplicita e va sviluppato col riferimento alle missioni del Figlio e dello Spirito, richiamate in molti modi nel testo. […] È, dunque, frutto dello Spirito quell’atteggiamento di ricerca del bene altrui che è alla base dei vincoli di fraternità, e che li rende autenticamente evangelici e fecondi in ordine alla salvezza.
Ivi, 19
Una parola chiarificatrice sulla “teologia del popolo”
Merito peculiare dell’Introduzione di Forte è poi la precisazione sulle ascendenze intellettuali della teologia del popolo nel testo pontificio:
Riprendendo motivi della “teologia della liberazione” essi [Lucio Gera, Rafael Tello, Jan Carlos Scannone, N.d.R.] hanno preso le distanze dalle categorie marxiste, in essa spesso richiamate, come la lotta di classe, per affermare la centralità dell’opzione preferenziale per gli esclusi e l’attenzione al popolo come categoria “poliedrica”, in cui ogni cultura deve essere rispettata nel suo potenziale contributo all’umanità intera, mentre le differenze sono valorizzate nel dialogo e nella condivisione.
Ivi, 22
Il meraviglioso “oltraggio” del Poverello
Planando repentinamente dalle altezze teoretiche alla talvolta ruvida vita pratica (e già l’accenno alla teologia della liberazione ha costituito un passaggio de-pressurizzante), l’apprezzatissima medievista Chiara Frugoni ha voluto sottolineare un elemento della rivoluzione del Poverello non sempre evidenziato – anche perché esso resta necessariamente e permanentemente in contrasto con il suo stesso ordine religioso:
[Francesco infatti] volle vestire da povero contadino rifiutando d’essere inquadrato in una categoria sociale circondata di stima come quella degli eremiti.
In una società molto gerarchizzata nella quale ciascuno aveva uno statuto preciso, Francesco mostrò di volere essere fra coloro che non ne avevano alcuno. Così facendo, rifiutò la possibilità di essere identificato come colui che, facendo parte di un preciso gruppo religioso di appartenenza, si volgesse quasi per professione caritativa ad una parte della società nei cui confronti poteva vantare un ruolo privilegiato.
Chiara Frugoni, Comprendere e non giudicare. Un aspetto della fratellanza in san Francesco in Papa Francesco, Fratelli tutti (con commenti di AA.VV.), Morcelliana, Brescia 2020, p. 206
Memore del suo precetto “non pretendere che siano cristiani migliori”, iIl Santo non insistette perché i suoi compagni vivessero con la sua medesima e rigorosa austerità (anche sociale, non solo materiale!), ma
racconta ancora la Leggenda dei tre compagni (cap. XIV, 5): Francesco «insisteva perché i fratelli non giudicassero nessuno, e non guardassero con disprezzo quelli che vivono nel lusso e vestono con ricercatezza esagerata e fasto, poiché Dio è il Signore nostro e loro, e ha il potere di chiamarli a sé e di renderli giusti. Prescriveva anzi che riverissero costoro come fratelli e padroni: fratelli, perché ricevono vita dall’unico Creatore; padroni, perché aiutano i buoni a far penitenza, sovvenendo alle necessità materiali di questi. E aggiungeva: “Tale dovrebbe essere il comportamento dei frati in mezzo alla gente, che chiunque li ascolti e li veda, sia indotto a glorificare e lodare il padre celeste”».
Ivi, 208
Trapela da queste fonti francescane non soltanto la “società gerarchizzata” giustamente ricordata dalla storica, ma pure l’aspro contesto di frizioni ecclesiali in merito alla povertà: Francesco si schierò con gli ultimi, ma non volle mai che questa “opzione preferenziale” (nel suo caso piuttosto “oblazione assoluta”) diventasse sintomo di polemica, su nessun piano. Qui sta, se si vuole, l’aspetto più radicalmente dialettico della proposta cristiano-francescana: essere ultimi con gli ultimi ma non per cambiare il mondo, bensì perché chi osserva lodi Dio – come è proponibile un tanto estremo paradigma di abnegazione?
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Non un dilemma, ma un paradosso
E speravo che, da pensatore non credente e anzi paganeggiante qual è e rivendica di essere, fosse Salvatore Natoli – che da decenni si tormenta su temi limitrofi – a rispondere a questa domanda. Egli osserva correttamente, infatti, un innegabile cambiamento di temperatura socio-spirituale dal tramonto della modernità nella postmodernità:
[…] il conflitto sull’esistenza di Dio dimostrava chiaramente che Dio era la questione centrale di quella cultura, sia per i negatori, sia per quelli che lo sostenevano. Era il tema dominante, non si poteva tacere di quello. Ad un certo punto Dio è svanito, non ha costituito più problema perché non lo si sentiva più necessario. Oggi argomentare sull’esistenza di Dio è un problema che non ha nessuno, neppure i cristiani. A caratterizzare il cristianesimo è sempre di più la dimensione della caritas e sempre meno quella della Trascendenza: Fratelli tutti mi pare lo testimoni con coerenza. E questo è un grande fenomeno dilemmatico dentro il cristianesimo, del quale si fa carico in actu exercito papa Francesco. La Trascendenza non è negata, ma sempre meno nominata.
Salvatore Natoli, Cristianesimo come etica universale? in Papa Francesco, Fratelli tutti (con commenti di AA.VV.), Morcelliana, Brescia 2020, p. 228
Come accade non di rado ai pensatori di mestiere, anche Natoli sembra partire da elementi difficilmente controvertibili per giungere a considerazioni difficilmente dimostrabili: poste come “domande” nel suo commento, esse dicono sì il lecito dubitare di un pensatore non credente eppure tormentato dal cristianesimo, ma tradiscono pure alcuni difetti di prospettiva (curiosamente coincidenti con quelli di certi “nemici interni” dell’attuale pontificato). Il preteso “fenomeno dilemmatico”, infatti, è molto più affermato che dimostrato, laddove il (di nuovo) preteso cambiamento illustrato da Natoli non consta affatto:
La promessa cristiana – scrive il filosofo – era: «Non ci saranno più né dolore né morte, non ci sarà più il male»; mentre adesso pare che il cristianesimo dia per scontato che il dolore accompagnerà sempre gli uomini ed in questo stato essere cristiani vuol dire sostenersi reciprocamente.
Ivi, 229
Chiunque può vedere come i versetti apocalittici siano sempre stati pronunciati e intesi, nella Tradizione cristiana, in riferimento agli ultimi tempi (anzi, i segmenti teologici che tentarono di anticiparli a “questo evo” vennero rapidamente tacciati di “millenarismo” ed emarginati); allo stesso modo, la carità ha sempre contraddistinto la proposta cristiana per “questo evo”, anzi fin dalla prima Lettera ai Corinzi di Paolo essa è stata indicata come l’unico tratto dell’esistenza terrena che sopravvivrà nell’éschaton (1Cor 13). Né fa eccezione Fratelli tutti, come Forte (vecchia conoscenza di Natoli…) aveva già premesso in Introduzione. La domanda del filosofo tradisce dunque i propri fantasmi, come si è detto, però rispecchia in certa misura anche un atavico intorpidimento del senso religioso dell’uomo che Cristo stesso, storicamente avulso da qualunque influsso di modernità, presentì e vaticinò: «Ma il figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Dunque Natoli pone una questione impertinente ma nient’affatto immatura:
Ora, non so quanto per i cristiani sia ancora rilevante la fede nell’avvento di un mondo senza più dolore e morte e per di più – questo mi pareva fosse decisivo – in un finale di partita in cui gli uomini saranno risarciti da tutto il dolore patito. Ma dico di più: quanto credono ancora in un’eternità beata, in un eterno presente dove non vi sarà più nulla da attendere, ma sarà redento per intero il passato? Non entro poi nella vexata quæstio se tutto questo sia solo una mitografia che il processo di secolarizzazione ha avuto il merito di decantare o sia essenziale all’essere cristiani.
Ibid.
La “vexata quæstio” è tale solo sulle labbra dell’Anticristo di Solov’ëv: in realtà i cristiani (almeno il loro “piccolo resto”) hanno sempre saputo, fino ad oggi, che cosa sia essenziale al loro essere cristiani, ma la questione precedente è giustamente «un dilemma che da non credente pongo, ai credenti, ai cattolici» (ivi, 230).
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Dove il pensatore non credente, però, vede un dilemma, il papa e tutti i cristiani vedono semmai un paradosso: è vero cioè che la fraternità tra gli uomini è concepibile solo in Dio, ma non lo è meno che i cristiani possono sensatamente proporla a tutti gli uomini “di buona volontà”. L’ultimo paragrafo del commento di Natoli mi pare preziosa per chiarire meglio il concetto:
La solidarietà, al suo fondo, è fraternità. È interessante osservare che la parola “solidarietà” è entrata nel lessico sociale e politico come succedaneo della fraternità. Ma sono uguali solidarietà e fraternità? Dal mio punto di vista no, e in tal senso mi pare vadano i paragrafi nn. 101-111, “Andare oltre un mondo di soci”, “Libertà, uguaglianza e fraternità”. Perché nella solidarietà c’è la componente egoistica, sebbene nel senso alto della parola; invece la fraternità suppone (quando i fratelli sono tali) una libera disposizione all’aiuto, senza alcuna contropartita. Il fatto che la parola solidarietà abbia preso il posto di fraternità si può leggere allora come un segno di decadenza; perché significa che nelle pieghe della società il sentimento egoistico (di assicurazione di sé) è diventato prevalente su quello donativo. La dimensione fraterna ha due caratteristiche che la distinguono dalla solidarietà: la prima è che la fraternità è prossimale e locale, mentre la solidarietà può essere espressa anche a distanza (es. facendo una donazione). La seconda caratteristica è che la fraternità non è surrogabile dal denaro, perché è un farsi carico | delle istanze dell’altro mediante una relazione di aiuto diretta e corporea.
Ivi, 230-231
Abbiamo già ricordato altrove come una nota dell’Eliseo renda conto delle istanze di quanti chiedono di sostituire “fraternità” con “solidarietà”, nel motto della Repubblica Francese, e precisamente adducendo a ragione il fatto che “fraternità” sarebbe un lemma dal troppo forte portato cristiano. La distinzione di Natoli – che stigmatizza la solidarietà come un abbassamento di tiro rispetto alla fraternità – conferma indirettamente quella del Papa e rende ragione del paradosso.
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Resta un punto da chiarire, ci pare: come possono i cristiani proporre la fraternità al mondo intero se essa appare agli altri uomini non il paradosso di cui essi vedono il senso ma un cieco paralogismo? La risposta è proprio nell’“insostenibile fraternità del Poverello”, che trasforma il mondo proprio schermendosi dalla proposta di volerlo cambiare: la fraternità è più-che-ragionevole ma nient’affatto utopistica; è una cosa che si può vivere e che in molti vivono, dietro ai passi di Gesù (come Francesco). E quando uno che non la vive incontra uno che la vive di solito non è colpito da un assurdo, ma da un prodigio: e paradossalmente si accende in lui il desiderio di vivere così. Di questo già Ireneo, nel II secolo, scrisse che «la gloria di Dio è l’uomo che vive». E non era “un umanista ateo”, lui.