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«Sono stato io, li ho uccisi perché erano troppo felici»

DE SANTIS, MANTA,
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Annalisa Teggi - pubblicato il 30/09/20
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L’invidia per la felicità altrui, questa la confessione di Antonio De Marco per il duplice omicidio di Lecce. Il movente di questo orrendo delitto ci interroga. È arrivata la svolta –  si dice così in gergo giornalistico – nel caso dei fidanzati uccisi a Lecce. Ma non è una svolta, cioé una di quelle curve stradali che allarga l’orizzonte e permette una visione chiara, ampia. È una voragine. Antonio De Marco, 21 anni, ha confessato il duplice omicidio di Eleonora Manta e Daniele De Santis con parole che campeggiano su tutti i titoli:

“Ho fatto una cavolata  – ha dichiarato –  so di aver sbagliato. Li ho uccisi perché erano troppi felici e per questo mi è montata la rabbia“. Sarebbero queste le parole con le quali Antonio De Marco avrebbe motivato agli investigatori l’assassinio di Daniele De Santis ed Eleonora Manta. Lo si apprende da fonti investigative. Lo stesso comandante provinciale dell’arma dei carabinieri Paolo Dembech ha escluso il movente passionale “che al momento non si evidenzia” spiegando ai giornalisti che le ragioni andavano a ricercarsi nel periodo di convivenza con la coppia la cui felicità potrebbe avrebbe avere infastidito il presunto omicida, che è un ragazzo “introverso, chiuso, con poche amicizie”. (da Ansa)


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Violenza senza sponde

La furia è esplosa alle 21.30 di sera del 21 settembre in via Montello 2 a Lecce: nell’appartamento di proprietà di Daniele De Santis, arbitro 30enne di serie C e B, ha fatto irruzione il giovane Antonio De Marco e ne è nata una mattanza di cui è stata vittima, oltre a De Santis, anche la fidanzata Eleonora. Lei uccisa tra le mura dell’appartamento, lui finito sulle scale mentre, già ferito, cercava aiuto. Coltellate efferare, una serie di colpi ben più numerosi dello “stretto necessario” per togliere la vita, una violenza senza sponde di contenimento.

Nel giro di dodici minuti, dalle 20.45 alle 20.57 del 21 settembre, arrivano alle forze dell’ordine 10 telefonate che descrivono quello che sta accadendo nel palazzo di via Montello a Lecce. Uno dei testimoni chiave è Luixhi Hasanaj, un uomo di origini albanesi che ha visto De Marco fuggire dal palazzo subito dopo l’omicidio e che lo ha riconosciuto in un video registrato da una sistema di videosorveglianza. (Idib)

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© Santi

Ed emerge che il piano premeditato da De Marco avrebbe dovuto contenere anche una serie di torture.

Andrea Laudisa, un altro testimone che abita nello stesso palazzo, racconta di aver sentito la voce di Eleonora implorare l’assassino: “Che stai facendo? Ci stai ammazzando”. Da questi e altri dettagli gli inquirenti cominciano a ipotizzare che l’assassino fosse un conoscente delle vittime, altri indizi si aggiungono al quadro atroce fino ad arrivare a un arresto, ma il nodo sulle domande decisive e irrisolte del caso si scioglie solo quando Antonio De Marco confessa davanti al Procuratore Leonardo Leone De Castris e tira fuori quella frase «erano troppo felici». Da cronaca nera – è questa l’impressione – si fa un salto in una zona umanamente più esposta, quasi un’altra coltellata che scuote il torpore dell’opinione pubblica.

Fuori casa

Originario di Casarano, Antonio De Marco si era iscritto al corso di Scienze Infermieristiche a Lecce, era uno studente fuori sede. De Santis, la vittima, era il proprietario dell’appartamento all’origine della violenza che ha portato all’evento tragico:

Daniele e Antonio si sono conosciuti il 29 ottobre 2019, quando l’infermiere ha chiesto all’arbitro di prendere in affitto una stanza nel suo appartamento, comodo per raggiungere l’ospedale Vito Fazzi di Lecce dove frequentava Scienze infermieristiche. La convivenza è durata appena un mese, fino al 30 novembre. Da quel momento i due non hanno più avuto contatti, fino al 6 luglio 2020, quando il 21enne ha mandato un messaggio all’arbitro per chiedere nuovamente la camera in affitto. (da Tgcom24)

In quell’appartamento è entrata anche Eleonora Manta, fidanzata di Daniele e quando i due hanno deciso di convivere ad Antonio non è stato più rinnovato l’affitto della stanza. Il movente scaturisce da questo rifiuto di una «casa» dove si vede prendere forma la felicità condivisa tra due persone che si amano; e, dunque, l’invidia per non averla.

E’ stato un innesco che ha toccato corde nevralgiche per Antonio De Marco, la rabbia ha cominciato a montare e assumere la forma di un piano diabolico nei dettagli e maniacale nelle ipotesi di una violenza vendicativa. Sulla via di fuga dal duplice omicidio sono stati ritrovati dei foglietti in cui De Marco aveva preso appunti per organizzare un piano meticoloso: c’erano indicazioni su come sistemare l’area dell’aggressione (‘pulizia, acqua bollente, candeggina, soda, ecc.’) e c’era una mappa con il percorso da seguire per evitare le telecamere.

Vendetta

Non solo premeditato, ma addirittura costruito nelle sue fondamenta emotive. Il 3 luglio, infatti, (all’indomani del rifiuto del rinnovo del contratto d’affitto e più di due mesi prima dell’omicidio) De Marco aveva letto e condiviso un documento sulla vendetta:

«Il desiderio di vendetta — dice il post che attira l’attenzione di Antonio De Marco — è una emozione che fa parte dei nostri impulsi più elementari quando siamo vittime di un’aggressione o di un’ingiustizia. Non è però utile ad alleviare le sofferenze: se da una parte fantasticare la vendetta può essere liberatorio, non si deve esagerare perché rischia di esagerare le cose». (da Ansa)

L’ingiustizia percepita era quella di essere stato escluso da una «casa», qualcosa più di quattro mura e forse l’ipotesi di un rapporto di amicizia foriero di quella felicità condivisa che davvero è più preziosa dell’oro. Perché sto male? Perché provo vendetta? Antonio De Marco non ha posto queste domande a un essere umano (genitore, amico), ha trovato un appiglio solo in quelle “voci” che sembrano parlarci personalmente quando cerchiamo certe risposte su Internet, e – guarda caso – troviamo proprio quel che rafforza i nostri borbottii. Un documento può arrivare al massimo a dire che la vendetta rischia di esagerare le cose, ma non sarà mai la mano che ti dà un benedetto ceffone per trattenerti dalle spire del male.

Dov’è quella mano? Sì, me lo chiedo anche riguardo a un assassino. Antonio l’ha rifiutata? Nessuno gliel’ha offerta? Non so. A noi resta il dato tremendo che senza quella mano, viva, umana, incontrabile si precipita in un abisso disumano – anche senza arrivare all’epilogo orrendo di Lecce.

“L’azione è stata realizzata con spietatezza e totale assenza di ogni sentimento di pietà verso il prossimo”. E’ quanto si legge nel provvedimento di fermo nei confronti di De Marco. “Nonostante le ripetute invocazioni a fermarsi urlate dalle vittime l’indagato proseguiva nell’azione meticolosamente programmata inseguendole per casa , raggiungendole all’esterno senza mai fermarsi. La condotta criminosa, estrinsecatasi nell’inflizione di un notevole numero di colpi inferti anche in parti non vitali (il volto di De Santis) e quindi non necessari per la consumazione del reato, appare sintomatico di un’indole particolarmente violenta, insensibile ad ogni richiamo umanitario”. (da Ansa)

Ignoto

Ora tutti lo fissano, è lui la macabra star alla ribalta della cronaca nera: Antonio De Marco, l’assassino reo confesso. Gli psicologi da talk show & articoli di fondo sono bravissimi a dirci chi era, hanno già sfornato interviste e paginoni pieni di diagnosi: disturbato, escluso. E giù papiri sulla fragilità e sull’invidia, sulla vendetta e sulla solitudine. Strano, ora che ha commesso un delitto indicibilmente cruento, sanno tutto di lui, della sua anima e dei suoi problemi. Abbiamo tutto chiaro, a posteriori. E noi leggiamo ammirati queste analisi e la catarsi avviene grazie un ragionamento basico: mi spiegano il male, il male spiegato fa meno paura, il male c’è stato perché lui che aveva problemi così gravi, il male è l’altro.

(Il male è anche mio, perché l’invidia io la conosco bene ed è una presenza così permeante nel quotidiano che questa tragica vicenda di cronaca mi ha fatto pensare che da troppo tempo non ne parlo quando mi confesso. Quasi fosse diventata così presente da essere autogiustificata, ed è grave).

Inutile illudersi che una volta spiegato dai compententi l’abisso umano di Antonio De Marco sia chiaro, basterebbe fermarsi a bocca chiusa a pensare che faceva l’infermiere e le sue mani si sono sporcate di una violenza che forse avrebbe mosso qualche sussulto anche in un algido anaffettivo come Hannibal Lecter. C’è un vuoto che fa venire i brividi tra la premura dell’infermiere e la crudeltà di un coltello insanguinato di troppi colpi. Quel vuoto è lo spazio umano scomodo da abitare in silenzio.

Ora è sulle prime pagine, prima lui stesso era un vuoto, un nessuno. I compagni di palestra non si ricordano di lui e neppure i suoi colleghi d’ospedale:

Antonio è nato qui, a Casarano […]. Eppure nessuno lo conosce, nessuno ne sa nulla, nessuno lo ha mai visto. Di Antonio De Marco non sa nulla il sindaco di Casarano, Ottavio De Nuzzo, geometra, che tra i suoi clienti ha avuto i genitori e finanche i nonni di Antonio. Non ne sanno nulla gli amici di Salvatore De Marco, il padre di Antonio, quelli che andavano a caccia con lui e lo definiscono «un bravo falegname e un gran lavoratore, rispettosissimo delle regole, tutte, quasi un calvinista, e lo stesso vale per sua moglie Rosalba Cavalera». Ma di Antonio, nulla. Non ne sa niente il proprietario della palestra Gym Center, frequentata da Antonio fino a due anni fa, quando non si era ancora trasferito a Lecce. Non ne sanno nulla gli altri frequentatori della stessa palestra, e nemmeno i suoi colleghi di corso all’ospedale Vito Fazzi di Lecce. (da Corriere)

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Omertà? Può essere, ma non siamo di fronte a un boss mafioso. Questo «nessuno» è vertiginoso, anche perché di solito scatta nell’uomo comune intervistato dalle grandi TV l’istinto di dire quella frase: “Lo conoscevo e mi sembrava un bravo ragazzo”. Pare proprio che De Marco fosse un fantasma, di lui solo un ricordo lontano come chierichetto nella chiesa della Madonna della Campana.

Bestemmie omicide

La sera in cui ha commesso l’omicidio indossava in faccia una calza in nylon su cui era stato disegnato con il pennarello nero il contorno degli occhi e il profilo della bocca: una maschera, sopra un volto già non più umano. E lui stesso ha voluto dare un nome al suo abisso: esclusione dalla felicità che ad altri è possibile. Questa è l’ultima coltellata che Antonio De Marco ha inflitto a tutti noi, e ci colpisce dritto il nervo più scoperto possibile. Una volta che gli esimi esperti ci avranno squadernato ogni segreto di quest’anima omicida e avranno presunto di conoscerne antecedenti, componenti genetiche, aggravanti ambientali a sentirsi in pace sarà solo chi si sfrega le mani guardando l’audience dei programmi di nera.

Se l’occhio invece si sposta qui, oltre l’uscio di casa, trema e insieme freme. Perché accanto a noi siamo pieni di anime che, dal leggero malessere alla patologia più estrema, non sanno formulare altro che preghiere a rovescio, capaci poi di rotolare senza freno nel dirupo dove diventano bestemmie omicide. Sovrabbondiamo di diagnosi a posteriori, ma patiamo fin dalla culla di un grave abbandono all’analfabetismo spirituale e dunque nella terra riarsa che calpestiamo dobbiamo essere consapevoli che, anche per chi non arriverà a commettere nulla di lontanamente grave come un omicidio, diventerà sempre più facile e instintivo ringhiare vendetta che balbettare miserere di me.

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