Due articoli pubblicati sul numero de La Civiltà Cattolica oggi in uscita, rifacendosi ad anniversari più o meno remoti o noti della storia nazionale ed ecclesiale, pongono da differenti prospettive il tema della presenza (e della rilevanza) dei cattolici nella società.
Il 20 settembre ricorrono i 150 anni dalla Presa di Porta Pia, cioè dall’episodio militare che – anche complice il concomitante crollo di Napoleone III a Sedan – demoliva l’ultimo baluardo degli “Stati Pontificî” e simultaneamente conquistava al giovanissimo Regno d’Italia la possibilità (perfezionata di lì a poco per via parlamentaria) di avere per capitale l’Urbe, con tutto (o quasi) quel che ciò comportava.
Se per esplorare in una accurata carrellata il grande carosello politico-religioso che dal tardo Medioevo transitò sulla scena della Città Eterna si può leggere con gusto Roma Romae di Marina Formica (Laterza), si trova invece sul numero de La Civiltà Cattolica oggi in uscita un articolo di Giovanni Sale sulla “festa nazionale della presa di Roma e [sul]la sua abolizione”: il Gesuita mira a proporre una considerazione sul
valore politico e culturale delle celebrazioni delle cosiddette “feste civili” o nazionali nel contesto italiano e dell’uso strumentale che ne fecero storicamente le autorità sia politiche sia religiose, anche se, a volte, con motivazioni legittime.
Giovanni Sale, La “festa nazionale” della presa di Roma e la sua abolizione in La Civiltà Cattolica 4086, 449-457, 449
Per fare questo, però, egli parte dal richiamo dell’intenso dibattito storiografico che poco meno di un secolo fa vide contrapposti Gioacchino Volpe e Benedetto Croce, le cui tracce sono state cancellate dalla memoria collettiva a partire dalla “rivoluzione culturale marxista” diventata egemone negli anni ’70 del XX secolo. Senza qui dilungarci su di un tema che non è quello che ci interessa direttamente, vale la pena richiamare come uno degli aspetti di quel dibattito valuti se l’Italia – come entità socio-politica – sia nata durante il Risorgimento (come sosteneva Croce) o se essa abbia prodromi pluricentenari rapidamente raccolti nel corso dell’Ottocento: la questione è funzionale a quella sui simboli e sulle “liturgie” che il popolo poteva adottare come «momenti di rigenerazione della coscienza nazionale» (Emilio Gentile), dal momento che
in realtà molti, anche nella sinistra, erano convinti che la società laica fosse incapace di produrre simboli o valori autonomi che non venissero in qualche modo mutuati dal linguaggio o dalla pratica religiosa.
Ivi, 456
Per cui a più ondate registriamo l’introduzione della “festa civile” del 20 settembre (Francesco Crispi, 1895), subito venata di profonde striature anticlericali e pertanto destinata a diventare imbarazzante e cadere in disuso dopo il Concordato del 1929; a quel punto il fascismo avrebbe introdotto la “festa dell’11 febbraio”, «anniversario della pace religiosa tra Chiesa e Stato italiano» (ivi, 453), ma si trattava di un calendario veramente troppo “da storici” e “da borghesi” perché le sue solennità potessero diventare popolari. Così nel dopoguerra l’Italia Repubblicana canonizzò nelle proprie liturgie i (ben più fortunati) 25 aprile e 1º maggio, prontamente rincorsi e “crismati” (parola di Papa Pacelli!) da Schuster a Milano e da Pio XII a Roma: anche queste feste assunsero presto, tuttavia, una connotazione così partigiana da riuscire male come momenti di aggregazione popolare universale, e questo porterebbe a tornare sulle posizioni crociane scuotendo il capo sul «volgo disperso che nome non ha» (Manzoni). In realtà una nota positiva viene offerta da Sale proprio laddove egli osserva:
Nella lotta contro il coronavirus, questi simboli [la bandiera e l’inno nazionale] sono stati rivalutati spontaneamente dagli italiani come segno di impegno collettivo e di solidarietà nazionale. In tale dolorosa vicenda i simboli civili si sono “concordemente” uniti, quasi confusi, a quelli religiosi (basti pensare alle suggestive e intense liturgie papali della Settimana Santa), al fine di ritrovare forza e coraggio nella comune lotta contro “il virus globale”.
Ivi, 456
Senza scomodare Freud e Girard, evidentemente i momenti di dolore collettivo hanno da sempre un altissimo potenziale di coesione sociale, anche perché davanti alla sofferenza il mistero dell’esistenza umana riemerge prepotente nella sua datità originaria, previa a ogni struttura interpretativa e/o ideologica (ragion per cui non pochi risorgimentali si erano spontaneamente rispecchiati nel Nabucco di Verdi e avevano adottato il Va’ pensiero a loro mistico inno). Il giudizio di Sale è tutto sommato positivo: a suo modo di vedere, il fatto che in Italia sia il 20 settembre sia l’11 febbraio non siano più feste nazionali significa che
le ferite del passato, aperte dal lungo e doloroso processo risorgimentale, con tutto ciò che questo ha comportato, sono sta|te finalmente risanate. Così è stata ricucita la frattura tra mondo cattolico […] e mondo politico […].
Ivi, 456-457
Nessuna pace però dura per sempre, in hac lacrymarum valle, e soprattutto nessuno schieramento è tanto compatto da non suddividersi a sua volta in correnti, e talvolta da frastagliarsi in gruppuscoli e frange. È quanto emerge da un altro pezzo importante comparso sul medesimo numero 4086 de La Civiltà Cattolica, anch’esso relativo a un significativo (benché meno noto) anniversario: in “Quando la Chiesa italiana ebbe il coraggio di osare” Giuseppe De Rita, intervistato da Antonio Spadaro, ripercorre la distanza (non solo cronologica) che separa la nostra cronaca ecclesiale nazionale dal primo grande Convegno nazionale della Chiesa italiana, convenuto in Laterano dal 30 ottobre al 4 novembre 1976 sul tema “Evangelizzazione e promozione umana”. Una pagina di cronaca, si direbbe guardando di primo acchito la data, mentre l’economia degli eventi la rende assai storica e non poco remota:
Credo che avvenne – considera De Rita nelle penultime battute dell’intervista – essenzialmente perché i vertici della Cei si ritrovarono senza molto ardore, senza molta benzina nel motore: mons. Bartoletti, che era stato il vero artefice del Convegno, era morto; i suoi più diretti collaboratori o erano andati altrove o si erano adattati all’inevitabile riflusso nella quotidianità; il papato di Paolo VI era vicino al compimento e non aveva più la forza propulsiva che aveva “protetto” alle spalle la spinta di Bartoletti; e poi arrivò il 1978, con lo sconvolgimento, anche ecclesiale, provocato dalla vicenda Modo. Così i pensieri di tutti furono rivolti altrove, nessuno si azzardava a riprendere il filo del lungo cammino progettato nel Convegno del 1976. Ma soprattutto avvenne l’arrivo di Ruini, prima come segretario e poi come presidente della Cei…
Antonio Spadaro, Quando la Chiesa italiana ebbe il coraggio di osare, in La Civiltà Cattolica 4086, 513-523, 521
Se pure i laicissimi Modena City Ramblers descrissero la notte in cui veniva “riconsegnato” il cadavere di Aldo Moro come «la notte buia dello Stato italiano […]: l’alba dei funerali di uno Stato», è noto che quella vicenda segnò particolarmente la vicenda umana del Pontefice amico dello statista democristiano (forse dandogli il colpo di grazia): per gli ormai tanti italiani e cattolici nati già sotto la stella di Giovanni Paolo II è difficile immaginarsi un “prima” del ’78, ma fra gli altri pregi dell’intervista al fondatore e presidente del Censis sta nel nutrire «una memoria che guarda al futuro» (ivi, 513) perché
quello che Francesco ha definito un “probabile sinodo” della Chiesa italiana dovrà, in ogni caso, rifarsi a quella prima forte esperienza.
Ibid.
Quando si sente De Rita inneggiare agli anni ’70 (non senza accennare a «tensioni, contraddizioni, conflitti sociali e dialettiche culturali»), si può avere l’impressione dell’anziano nostalgico che vagheggia i bei tempi andati, ma questo condurrebbe a travisare gravemente sia l’intervista sia lo stesso sociologo, il quale ai tempi era già «padre di otto figli» (anzi fu con questa qualifica che il cardinal Poletti lo accreditò presso Paolo VI!) e che si presenta lucidissimo nell’ammonire in clausola:
Non ci salveranno ambizioni progressiste, ma rituali; e non ci preserverà dal maligno il rinserramento nella deresponsabilizzata delega ai nostri vertici. Solo il vigore delle diverse realtà socioculturali, da troppo tempo in letargo, può chiamare le Chiese che vivono in Italia a farsi loro carico del faticoso cammino che dobbiamo intraprendere.
Ivi, 523
Ma dunque di che cosa si trattava, in questo importantissimo convegno di cui forse soltanto oggi sentiamo parlare per la prima volta? Tutto cominciò in realtà nel 1974, perché tra il 13 e il 15 febbraio di quell’anno si era tenuto nell’Urbe il Convegno su “I mali di Roma”.
In origine – racconta in prima persona De Rita –, il Convegno doveva essere un appuntamento quasi di routine, giacché era previsto come un incontro indetto dal Servizio degli assistenti sociali del Pontefice, dedicato alle povertà relazionali della città. Il cardinale Poletti nominò invece un gruppo di lavoro del tutto incoerente con una tale impostazione: con lui e il vescovo ausiliare, mons. Giulio Salimei, c’erano don Luigi Di Liegro, il prototipo di quello che sarebbe stato definito “prete di strada”; don Clemente Riva, un rosminiano noto per il suo lavoro sulle “cinque piaghe della Chiesa”; Luciano Tavazza, grande animatore degli ambienti del volontariato sia romano sia nazionale; e il sottoscritto, segretario del Censis e imprenditore privato nel campo della ricerca sociale. […]
Diciamo che la specifica e voluta eterogeneità del gruppo era garanzia che non avremmo fatto un Convegno di assistenti sociali.
Ivi, 516
Non voleva dunque essere «un “convegnetto” di studi come ce ne sono centinaia ogni anno in ogni realtà ecclesiale, ma doveva puntare a far parlare la gente»: a Roma si scelse di ambientare il momento plenario nel vasto spazio della Basilica Lateranense, che accolse seimila persone ben consapevoli della straordinarietà del momento; poi furono scelti dodici sale di riunione, limitrofe alla Chiesa-madre, perché su tutti i contenuti si potessero avere riscontri quanto più possibile capillari.
Che cosa avvenne di questa meravigliosa primavera? Ci si divise, ovviamente:
Una parte di noi, me compreso, voleva continuare il lavoro di mobilitazione collettiva; un’altra parte – ad esempio, Scoppola e Pietrobelli – voleva andare verso un lavoro tendenzialmente culturale […].
Ivi, 518
Il Convegno del 1976 fu preparato con molti pre-convegni locali, organizzati dalle diocesi, e spesso di livello assai apprezzabile: se da una parte la dispersione delle energie cominciò dunque quando si volle scegliere tra “il lavoro culturale” e il “lavoro di mobilitazione collettiva”, la dissipazione decisiva sopraggiunse quando nel secondo gruppo si distinsero quelli che intendevano operare sì su un piano socio-politico, ma avviando processi per periodi medio-lunghi, da quanti cercarono di incassare immediati crediti partitici.
In particolare, una lettura quasi da “sinistra democristiana” o da “cattolici del no”, che ebbe subito risonanza sulla stampa, in qualche modo spostando l’attenzione collettiva dalle motivazioni di lungo periodo, e di “lunga durata”, a cui puntavamo, alle diatribe di cronaca. Personalmente – lo confesso a 44 anni di distanza – provai sconcerto e rabbia – e con me anche p. Sorge, che gestiva la presidenza dei lavori – di fronte all’appiattimento a cronaca politica di un’operazione pensata e curata come avvio di un lungo cammino della Chiesa italiana; ma fra noi cattolici c’è sempre chi ama più la cronaca che i cammini lunghi.
Ivi, 520
De Rita racconta poi di un episodio personale legato al card. Ruini (i due sono legati da sincera e pluridecennale amicizia): una frase rivoltagli in confidenza dal Porporato – «siamo qui non per cambiare la società, ma per predicare il Vangelo» – è dal Sociologo assunta a spiegazione della «fine di un periodo, di quegli anni Settanta in cui la Chiesa ebbe il coraggio di osare» (ivi, 521).
“Osare” cosa? Ma incidere, evidentemente, e in senso lato e pieno: tentare di fare in modo che l’evangelizzazione non si riduca a parole e gesti apposti asetticamente sulle persone, bensì all’induzione di uno stile di vita bello e giusto, sensibile alle tematiche grandi e piccole e desideroso di dare a tutte il proprio contributo.
Un compito sospeso, anzi di fatto un sentiero interrotto, ma purtuttavia ineludibile: le domande di allora non hanno smesso di essere pertinenti, anzi in alcuni casi sono aumentate d’intensità. La deriva paradossale è che, se si rinuncia a questo difficile cammino, lo stesso “lavoro culturale” si riduce a “convegnetti” sempre più angusti e asfittici:
[…] credo fermamente che la maggiore criticità fra quelle indicate sia venuta dalla tendenza a chiudersi nel recinto del mondo cattolico – i preti e la loro “gente” – senza avere il senso della complessità esterna, concentrandosi ad “affermare” (verità, valori, intenti, indicazioni programmatiche), senza mai avere il coraggio di entrare nella dialettica sociale quotidiana, mediandone aspettative e conflitti.
Ivi, 522
Insomma, quel che Andreotti chiamava “la maledizione del non expedit”, ovvero una larvata riedizione della tentazione di andare a riparare la breccia di Porta Pia.