“Lavoro di squadra” non è solo una bella espressione, quando una persona vive dentro un vero tessuto di relazioni innesca nel cervello le connessioni per sfruttare al meglio tutte le risorse.Già Leopardi nel suo Zibaldone aveva avuto modo di osservare come
Dopo che l’eroismo è sparito dal mondo, e invece v’è entrato l’universale egoismo, amicizia vera e capace di far sacrificare l’uno amico all’altro, in persone che ancora abbiano interessi e desideri, è ben difficilissimo (vedi qui per la citazione completa).
Oggi le cose non sono certo migliorate e l’egoismo di cui parlava il poeta si è trasformato in un sentimento che appare molto simile, ma forse è ancora peggiore: l’egocentrismo. Ogni persona è concentrata solo su se stessa, pretende attenzioni solo per se stessa e fatica ad accorgersi di sentimenti e bisogni degli altri, se non addirittura della loro esistenza. Quasi che il mondo iniziasse e finisse con lui/lei!
Mons. Pierangelo Sequeri definisce questa impostazione narcisistica della vita come monoteismo del sé. E la “logica” conseguenza di questo modo di affrontare la vita è l’annullamento dell’altro. Nelle sue parole
la neutralizzazione emotiva della compassione per l’altro diviene un complemento necessario del culto della propria identità. (P. Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé, Milano, Vita e Pensiero, 2017, p. 13).
Nell’autoreferenzialità imperante perdiamo di vista il valore e la dignità dell’altro, diventiamo incapaci di provare compassione, di agire di fronte all’orrore che caratterizza vite che non sono le nostre. Non siamo più capaci di interagire positivamente con il diverso, con l’altro da noi, comunque si caratterizzi la sua diversità.
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Simili dinamiche spiegano quanto sta accadendo in questi giorni attorno a noi: basta aprire un qualsiasi giornale in un qualsiasi giorno per ritrovarsi di fronte a casi di cronaca che le riflettono perfettamente. L’odio immotivato verso “l’altro” dilaga senza argini. Moltissime persone motivano le proprie azioni in virtù della volontà di difendere i propri interessi, quasi che avessero un valore superiore a quelli degli altri. Abbiamo perso la capacità di provare empatia, ci stiamo richiudendo come monadi solitarie in una bolla in cui nessuno deve entrare.
Ma come ci siamo arrivati? E soprattutto di cosa ci priva tutto questo?
Lo illustro attraverso le idee di Pietro Andrea Cavaleri, in particolare quelle espresse nel libro scritto insieme ad Enrico Molinari, Il dono nel tempo della crisi. Per una psicologia del riconoscimento (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2015)
La cultura dell’individualismo
Prima dell’epoca moderna non esisteva l’individuo così come lo intendiamo oggi e nessuno aveva la consapevolezza di possedere una dignità individuale, perché a dominare era la cultura della comunità: a prevalere era l’interesse verso il benessere comunitario, non verso quello individuale. La strutturazione stessa della vita quotidiana presupponeva un’organizzazione comunitaria: ognuno aveva bisogno dell’altro per avere tutto ciò che era utile alla sopravvivenza e ciò rendeva l’altro importante. Nel XVI secolo, poi, ebbe inizio un cambiamento culturale che portò ad un profondo cambiamento del rapporto tra l’individuo e la comunità.
Un primo momento di questa svolta si ebbe quando l’economia diventò in grado di dare a ciascuno la possibilità di provvedere a se stesso senza il bisogno della comunità. Pagando si poteva avere tutto, senza necessità di un rapporto di alcun tipo con chi produceva i beni. Da questo momento si iniziò a vedere l’altro come un competitore, qualcuno di pericoloso per i propri interessi, ma tutto sommato ancora importante in quanto utile per realizzare i propri interessi. Quindi dell’altro non si poteva fare a meno.
Nell’Ottocento e ancor più nel Novecento, però, prese forma un nuovo tipo di uomo che delega alla persona che vota la risoluzione dei propri problemi e per questo sente di essere totalmente autonomo e profondamente autoreferenziale: un narcisista che ritiene di poter fare a meno dell’altro. Il risultato è un individuo ripiegato su di sé, nella convinzione di poter fare a meno della comunità e della relazione con l’altro. In quest’ottica, inoltre, l’altro diventa una presenza invasiva ed intollerabile, un’interferenza, una presenza inutile per la propria identità.
Cosa abbiamo perso?
Questa evoluzione (che da un certo punto di vista è stata un’involuzione) ha portato gli uomini ad adottare la logica dell’“homo homini lupus“. In realtà, però, l’essere umano ha dentro di sé l’impronta insopprimibile della passione comunitaria. Ciò deriva dalla consapevolezza dei propri limiti, dal sapere che le persone attorno sono ugualmente limitate e dal rendersi conto che sono proprio questi limiti a rendere necessaria l’esperienza sociale. Infatti io posso essere d’aiuto all’altro nel suo limite, così come l’altro può essere la soluzione ai miei di limiti, motivo per cui sono proprio essi ad unirci, a patto che sappiamo abbandonare la cultura del narcisismo, per condividere le nostre risorse e donarle all’altro che ne ha bisogno.
Anche le ricerche neurologiche più recenti hanno chiaramente mostrato che siamo fatti per le relazioni: persino il cervello è stato fatto per connetterci agli altri, prende forma nelle relazioni ed in esse dà il meglio di sé. Secondo la Teoria Polivagale, infatti, quando un essere umano non è connesso con altri esseri umani non sta bene. Nello specifico l’uomo ha bisogno di vivere in contesti sociali “sicuri”: se non vive in simili contesti, infatti, non ha modo di accedere alle sue funzioni cerebrali superiori, quelle corticali, che sono le più evolute. Per questo motivo il nostro organismo è capace di rendersi costantemente conto (in modo del tutto automatico ed al di fuori della consapevolezza, attraverso la neurocezione) se si trova in un contesto sicuro o insicuro, affidabile o inaffidabile.
Quando l’organismo percepisce che il contesto sociale è insicuro o inaffidabile, le persone faticano relazionarsi con i propri simili e il loro cervello non riesce ad attivare le connessioni tra le funzioni più arcaiche e quelle più evolute. Se invece la persona si trova in un contesto sicuro, in cui si sente riconosciuta ed accettata per ciò che è, allora sta bene con se stessa e con gli altri, oltre a riuscire ad utilizzare al meglio tutte le proprie risorse.
Vincendo l’egoismo e l’egocentrismo, superando quella barriera che ormai ci divide inesorabilmente dagli altri, è possibile costruire relazioni in cui le persone diventano reciprocamente fonte di sicurezza. E all’interno di questo contesto sociale è possibile lavorare al bene comune, ma anche esprimere tutta la propria creatività, apprendere in modo migliore, cooperare al meglio con gli altri. Se invece ci releghiamo nell’indifferenza e nel sospetto nei confronti degli altri, regrediamo.
In un mondo di persone narcisisticamente concentrate su se stesse non c’è fiducia, non c’è sicurezza, c’è maggior rischio di conflitto. Ma ci sono anche intelligenze bloccate e creatività inespressa. Le relazioni disumanizzate ci stanno privando di bellezza, di intelligenza, di salute. E gli effetti si vedono già!
Perché questo egocentrismo?
Mi sono chiesta da dove abbia origine un simile ripiegamento su se stessi. E mi è tornata in mente la Favola dei Caldomorbidi, con le sue ricadute, di cui ho parlato nel mio articolo.
L’egoismo ha origine laddove iniziamo a pensare che non ci sono abbastanza risorse (emotive o concrete) per tutti, quando iniziamo a pensare che l’altro vuole solo appropriarsi di ciò che è nostro e se, di conseguenza, sentiamo di doverci difendere dall’altro e di dover difendere quello che ci “appartiene”. Privandoci così di quanto di più prezioso la vita ci può offrire: una relazione sicura con l’altro.
E su questa paura fanno leva coloro che da un clima di insicurezza traggono vantaggio. Tanto è vero che sono proprio costoro ad enfatizzare le differenze esistenti tra “noi” e “loro”, a non perdere occasione per ribadire come “loro” ci privino di quello che ci spetta e per alimentare odio e sfiducia. Si tratta di persone che incarnano perfettamente il monoteismo del sé e che, pur proclamandosi difensori dei diritti di una certa categoria, guardano solo al proprio interesse.
Ma per fortuna c’è chi continua a tenere lo sguardo orientato sugli altri invece che su se stesso, chi lavora affinché tutti possano accedere alle risorse di cui hanno bisogno, chi tenta di mantenere un clima di fiducia e si impegna per creare un contesto di sicurezza tra gli esseri umani, chi non crede solo in se stesso e continua a sperare nella forza della comunità.
A questo atteggiamento dovremmo rifarci tutti, per il nostro stesso benessere e per realizzare pienamente il nostro potenziale.