Nel tragico pestaggio di Colleferro erano 4 contro 1, e il vero combattente non ha usato i muscoli ma il cuore. Il sacrificio di Willy costringe a chiederci: “E tu, per cosa vuoi dare la vita?”Fu come un fulmine a ciel sereno quando capii il senso della trama della Divina Commedia: un uomo vivo che va nel regno dei morti per chiedere a ciascun’anima “Tu, per cosa hai dato la vita?”. Dante è un uomo vivente, che per essere vivo davvero, ha bisogno di sentire dalla voce di chi è già nell’eternità questa risposta sulla libertà personale, che può dannare o salvare. C’è sempre un gesto supremo nella vita di ciascuno in cui si pronuncia un Sì eterno, per il bene o per il male.
Non posso non cominciare da qui per parlare di Willy Monteiro Duarte, perché altrimenti soffocherei nel recinto del «è morto perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato». È morto, e questo è infinitamente tragico; ma la sua prematura scomparsa non ha nulla a che fare con la fatalità crudele o il destino beffardo. O meglio, siamo di fronte a un’alternativa di sguardo: o la vita è una serie di circostanze casuali che ci sballottano in modo caotico tra botte di fortuna e incidenti, oppure ogni momento è parte di un cammino unitario in cui la nostra persona emerge nella sua totalità. Se, come Dante, oggi tutti i giornalisti potessero chiedere a Willy: “Tu, per cosa hai dato la vita?” forse ne otterremmo parole capaci di ridestare l’audacia del nostro compito educativo sul tema fecondo del sacrificio.
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Gli ultimi sviluppi
Il funerale di Willy Monteiro si è svolto nella mattina di sabato 12 settembre al campo sportivo “Piergiorgio Tintisona” di Paliano. Per desiderio della famiglia ai presenti è stato chiesto di indossare magliette o camicie bianche, come segno di purezza e gioventù.
Le indagini intanto hanno messo a fuoco nuovi elementi che hanno determinato un cambiamento nell’ipotesi di reato: per i quattro indagati (tre in carcere e uno agli arresti domiciliari) il capo di imputazione da omicidio preterintenzionale è diventato omicidio volontario.
A determinare il cambio, più grave, di ipotesi di reato è stata la relazione che il medico legale Saverio Potenza ha consegnato al magistrato. Nella consulenza autoptica, infatti, Potenza ha parlato senza mezzi termini di ‘colpi assestati e non casuali’. Willy, insomma, è deceduto per i violentissimi colpi inferti dagli aggressori che hanno agito – è questa adesso l’ipotesi di chi indaga – con la consapevolezza di provocare lesioni mortali. (da Agi)
Dal carcere i fratelli i fratelli Bianchi, al centro dell’ondata mediatica di sconcerto, hanno chiesto di essere spostati nella zona di isolamento del carcere di Rebibbia, per timore di ritorsioni. Molte minacce di morte sono arrivate a loro e ai loro familiari.
La polveriera
“Tutti siamo corresponsabili – denuncia il vescovo -. Da dove provengono i virus della prepotenza, della violenza, della vigliaccheria, del disprezzo della vita, della stupidità che generano queste tragedie e gettano nella disperazione intere famiglie e comunità? Siamo quotidianamente seduti su una polveriera, che può esplodere improvvisamente e di cui non abbiamo consapevolezza”. (da Avvenire)
È la denuncia del vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella, in seguito ai terribili eventi che hanno insanguinato la notte di Colleferro (in provincia di Roma) la notte dello scorso sabato, 5 settembre. In seguito a un pestaggio durato 20 interminabili minuti è morto il 20enne Willy Monteiro colpito a morte da quattro ragazzi più grandi di lui, inizialmente in stato di fermo a Rebibbia con l’accusa di omicidio preterintenzionale in concorso e ora accusati di omicidio volontario. Il fatto tragico ha ricalcato la trama degli incubi di molti abitanti della zona.
La banda dei quattro fermati era già nota alle forze dell’ordine, non si tratta di bulli ma di veri criminali conosciuti anche per l’attività di «recupero crediti», vale a dire mandati dagli spacciatori a recuperare i debiti di chi non paga la droga. Curioso, dunque, che uno di questi figuri fosse finito su Rai 3 come esempio di bravo lavoratore riuscito a tenere aperta la sua piccola attività di frutta e verdura durante il lockdown.
Cosa abbia generato l’aggressione che ha portato alla morte di Willy è chiaro nelle sue linee essenziali. Al termine di una giornata lavorativa, Willy si è trovato a bere qualcosa con un amico in un locale di Colleferro. E poi ha deciso di non rimanere spettatore inerte di ciò che è accaduto davanti ai suoi occhi:
Il ragazzo era intervenuto in difesa di un suo compagno di scuola durante una lite, forse per una ragazza, con uno degli arrestati, dividendoli. Dopo qualche minuto sarebbe stato raggiunto dai quattro che lo hanno pestato. A rimanere feriti altri due coetanei che, assistendo alla scena, sono intervenuti e hanno riportato ferite giudicate guaribili in 10 giorni. Inutili purtroppo i soccorsi per Willy che è arrivato morto in ospedale. (da Ansa)
Figlio di una coppia di capoverdiani che da molti anni si era trasferita nella zona ed impegnata in una locale azienda agricola, Willy era perfettamente inserito nel suo paese, giocava nella locale squadra di calcio e frequentava l’Azione Cattolica; studiava all’istituto alberghiero di Fiuggi e lavorava come aiuto cuoco all’Hotel degli Amici di Artena.
Oltre alla vittima e al branco dei colpevoli, un’altra figura spicca in questa tragica vicenda: il maresciallo Carella che – fuori servizio – ha soccorso Willy e ha avuto l’intuizione giusta per catturare i responsabili.
A catturare il branco all’indomani dell’uccisione di Willy, l’intuizione di un maresciallo che ha convocato i 4 in caserma per accertamenti, dopo averli incontrati all’alba in un bar per un caffè. In questo modo ha potuto fermarli. “Ho subito capito di chi si trattava”, riferisce a La Repubblica Antonio Carella, comandante della stazione di Colleferro. Era fuori servizio, ma dopo aver sentito le urla è giunto sul posto e ha prima tentato di soccorrere Willy (“Gli ho stretto la mano e dato una carezza in attesa dei soccorsi, gli ho detto che sarebbe andato tutto bene”, ricorda a La Repubblica), poi si è messo a caccia dei suoi assassini. (da Tgcom24)
In molti manuali di letteratura ci viene spiegato che in ogni storia c’è il protagonista, l’antagonista, e poi gli aiutanti del protagonista e gli aiutanti dell’antagonista. Non sono etichette, ogni evento chiede alla nostra coscienza di scegliere una parte, nella contesa tra bene e male.
I picchiatori
Il profilo dei 4 ragazzi fermati e accusati di omicidio preterintenzionale sta facendo rabbrividire e infuriare l’opinione pubblica. Si tratta di due fratelli Gabriele e Marco Bianchi di 25 e 24 anni, di Francesco Belleggia, 23 anni, e di Mario Pincarelli, 22 anni. Le foto diffuse, che provengono dai loro profili social, ci mostrano lo sfoggio dei loro muscoli e tatuaggi, sono le pose dettate da un esibizionismo sfrontato e da un narcisismo che molto dovrebbe interrogare la nostra idolatria dell’apparenza. Non sono infatti tipiche solo di chi conduce una vita di eccessi, ma sempre più spesso sono l’atteggiamento che anche ragazzi poco aggressivi vengono indotti a mostrare. Addominale ergo sum. È la tassa, baby, tutt’altro che nascosta da pagare al mito delle visualizzazioni.
Non faccio questa considerazione per alleggerire la posizione degli indagati, tutt’altro. Ma forse dentro tutta l’ondata di indignazione che si è sollevata dovrebbe esserci spazio anche per un minuto di consapevolezza sulla nostra ipocrisia. Non facciamo finta che solo i supercattivi abbiano venduto l’anima all’idolo di una forza scolpita ed esibita, di un corpo «che parla». Di cosa parla poi? Tutti quei tatuaggi riescono a formare una frase di senso compiuto? Un muscolo così tonico ha lo scopo di schiacciare o di sostenere?
Uno dei tanti filoni di commenti sulla banda dei 4 picchiatori riguarda il fatto che alcuni di loro praticassero MMA (arti marziali miste, che comprendono sia discipline come muay thai e il judo sia la lotta libera e il combattimento). Che lo sport di contatto anche forte sia un incitamento alla violenza è un abbaglio enorme (lo dico da madre di un giovane rugbista che puntualmente si sente accusata “Ma tu mandi tuo figlio a essere menato?”), che le arti marziali vengano usate per compiere atti di sopruso è addirittura un abominio, a chi ne conosca anche solo un minimo la storia. Siamo dunque di fronte a una banda di criminali che praticando una certa disciplina non ha incontrato o voluto incontrare un’occasione di crescita, ma solo uno sfogo istintivo. Lo ha detto, meglio di me, sulla Gazzetta dello Sport Alessio Sakara, 39 anni e campione italiano di MMA:
Se hai un buon maestro, [le arti marziali miste – NdR] sono una grande scuola di vita. Nel nostro sport si affrontano prima i propri sacrifici e poi un avversario. E soprattutto quell’avversario è uno come te, che fa le stesse cose tue. Non combattiamo contro chi non è preparato. […] Anzi, nella vicenda il vero combattente, per mentalità, è stato Willy, che ha difeso un amico. E ci ha rimesso la vita perché contro di lui si sono scagliati in 4-5, e pesavano tutti di più. (da Gazzetta dello Sport)
«Non ti preoccupare, ci penso io a loro…»
Il vero combattente è Willy, dunque; ma perché ha spostato completamente il campo di gioco, e se non vogliamo rimanere con gli occhi fissi solo sulla sua pozza di sangue anche noi possiamo seguirlo lì dove ha veramente combattuto.
Ai campi scuola in diocesi si faceva notare, eccome. «Lui e i suoi amici richiedevano qualche attenzione in più, ma ti ripagavano ampiamente di tutto. Non l’abbiamo mai visto litigare con qualcuno. Riusciva a fare domande che ti mettevano in difficoltà e che ti costringevano ad alzare l’asticella del discorso». Lo dice chi l’ha seguito da bambino e ricorda bene che alle spalle, Willy, aveva una mamma che ci teneva alla vita interiore del figlio così come si tiene alla salute, alla scuola, all’educazione verso gli altri. (da Avvenire)
Lo descrivono così i conoscenti e gli amici, aggiungendo che era tipico della sua tempra dire «Non ti preoccupare, ci penso io a loro...» se capitavano degli screzi nei gruppi di amici che frequentava. Poteva essere un istinto buono non ancora pienamente formato nella sua piena consapevolezza, poteva essere quella baldanza che non pensa troppo alle conseguenze: era, ed è, quello slancio per cui tra il bene e il male, l’anima scatta verso il bene; era, ed è, l’evidenza che per stare dalla parte del debole non occorre nessuna legge scritta.
Willy è stato vittima di un’aggressione, ma ha spostato il suo campo di gioco altrove dal recinto della sopraffazione. Non passiamo forse, noi adulti, tanto tempo a lamentarci di quanto il mondo virtuale rovini i giovani (perché è vero che ci sono enormi pericoli e trappole)? Willy ci ha detto chiaramente che i giovani vogliono stare nella realtà, che «vogliono mettersi in mezzo alle cose che succedono». Ci sta ricordando che l’indifferenza può essere un ripiego inerte, ma non una scelta. Il suo non è il sacrificio dell’eroe maturo e consapevole, ma la corsa libera di un’anima sincera che preferisce stare nel posto dove il cuore è felice ed è pieno, dove sono gli amici e dove è chiesta la nostra presenza (non un emoji).