Uccisa giovanissima perché pregava mentre lavorava: una beata molto vicina a tutti, ci ha testimoniato che un’intensa vita di fede non è per i pochi eletti che possono concedersi il lusso di pregare perché non hanno niente da fare.
Che vergogna! Nonostante sia vissuta e sia venerata a così poca distanza dal luogo in cui abito, non avevo mai sentito parlare della beata Panacea di Ghemme.
E infatti, sarei stata tentata di presentarla come una “oscura santa medievale”, se non fosse che una ricerca su Google fa franare tutte le mie certezze, restituendomi tracce di una devozione assai vitale nei confronti di questa santa, che è oggetto di feste popolari, rappresentazioni teatrali e santini di ogni tipo.
A titolo di curiosità: esiste una santa dedicata a Panacea nel bel mezzo di Quarona, il paesino in provincia di Novara che ha dato i natali alla vergine. A titolo di curiosità nella curiosità: nel bel mezzo del lockdown, qualche devoto premuroso ha pensato bene di dotare di mascherina anche la statua della santa, in un gesto che ha fatto sorridere persino il parroco.
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E niente, devo arrendermi all’evidenza: Panacea è famosa e l’ignorante sono io.
Eppure, la sua storia offre tanti spunti di studio e di riflessione… quindi vediamo se riesco a raccontare qualcosa che non sapevate.
André Vauchez, uno dei più affermati esperti in fatto di santità medievale, la definisce in un suo saggio “Cenerentola in paradiso”: e in effetti la vicenda di Panacea sembra uscire dritta dritta da una raccolta di fiabe per bambini.
La protagonista della nostra storia è una giovane ragazza di età imprecisata (diciamo, adolescente? Pre-adolescente?) che, purtroppo, rimane orfana di madre per le alterne vicende della vita.
Come in ogni fiaba che si rispetti, il padre addolorato si risposa – ma, come in ogni fiaba che si rispetti, la matrigna prende in odio la povera figliastra.
In questo caso specifico, la causa del contendere era l’eccessiva devozione della fanciulla. Una figlia casa-e-chiesa fa piacere a tutti, ma in questo caso Panacea esagerava: i suoi costanti atti di carità nei confronti dei medicanti impensierivano (e non poco!) la matrigna, che temeva che la ragazzina finisse col depauperare i beni di famiglia.
Perdipiù, Panacea (forse, vocata a una vita di contemplazione?) se ne stava sempre con la testa tra le nuvole, pensando al Cielo più che al suo lavoro.
La goccia che fece traboccare il vaso fu quel fattaccio brutto che ebbe luogo l’8 maggio del 1383. La ragazzina, che aveva portato al pascolo le pecore, sembrava essere sparita nel nulla. Era già abbondantemente passato l’orario in cui avrebbe dovuto tornare a casa – e invece niente, di lei non c’era traccia.
Irritata come ‘na biscia (e forse anche legittimamente allarmata) la matrigna uscì per andarla a cercare: dove diavolo era finita?
Magari si era fatta male? Magari un predone aveva rubato le pecore e le aveva fatto violenza?
Ecco, no. La matrigna scoprì che Panacea stava banalmente passando il tempo a pregare in prossimità della chiesa di San Giovanni al Monte, che sovrasta il villaggio di Quarona. Tranquillissima lei, inconsapevole del passar del tempo; tranquillissime le pecore, che brucavano l’erba allo stato brado.
La matrigna, per usare un eufemismo, non la prese bene. E devo ammettere che pure io farei una pesante lavata di capo a ‘na ragazzina che mi trascura il gregge per affaccendarsi in altre cose.
Ma ahimè, la matrigna fu meno pacata nell’esprimere alla giovane la suddetta perplessità. “Meno pacata” vuol dire che la corcò di botte fino ad ammazzarla (dopodiché – dicono alcune fonti – si uccise a sua volta, presa dai sensi di colpa).
Subito dopo il tragico assassinio (… o “martirio”, direbbe qualcheduno) la giovane vittima divenne oggetto di culto da parte degli abitanti di Quarona e Ghemme, paesino situato a 25 km di distanza ove riposano oggi le sue spoglie.
Ma ci fu bisogno di far passare qualche secolo per ridare nuovo lustro a una devozione popolare che, per lunghi anni, restò fortemente circoscritta. A diffonderla in tutto il territorio diocesano fu, a inizio Seicento, il vescovo di Novara Carlo Bascapé, che aveva conosciuto la storia di Panacea nel corso delle sue visite pastorali.
Il prelato intuì – non a torto – che la devozione popolare nei confronti della pastorella aveva tutte le carte in regola per poter essere riletta e rilanciata alla luce dei “nuovi” modelli di santità che la Controriforma voleva proporre ai suoi fedeli. Il vescovo ordinò che la Vita della giovane fosse messa per iscritto (fino a quel momento, la devozione era stata tramandata dalla memoria popolare e da alcuni cicli pittorici) e da quel momento in poi il culto dedicato alla “beata” Panacea conobbe un successo crescente, culminato nel 1868 con il suo riconoscimento ufficiale da parte della Congregazione dei Riti.
Ma perché ‘sta pastorella strana piacque così tanto?
Voglio dire: tra tutti i personaggi che, a inizio Seicento, erano oggetto di venerazione in quelle lande, perché proprio la beata Panacea fu proposta come modello di santità? In fin dei conti, cosa aveva da insegnare ai fedeli, a parte l’aureo “quando rimani vedovo, pensaci bene prima di metterti in casa una seconda moglie con tendenze omicide”?
Secondo Vauchez, la beata Panacea aveva una caratteristica che la rendeva particolarmente preziosa agli occhi del clero della Controriforma.
E cioè era una laica, una donna come tante, che forniva ai fedeli un modello di santità decisamente concreto… e decisamente replicabile.
Perché – diciamolo – la maggior parte dei santi medievali aveva ben poco a che vedere con l’esperienza di fede del cittadino-medio.
Mica per altro! Ma, con l’esclusione dei martiri dei primi secoli (…ma, grazie a Dio, nell’Europa medievale le persecuzioni erano finite già da mo’), i martirologi erano (quasi esclusivamente) pieni di santi monaci e di santi re.
E un contadino medievale se ne faceva relativamente poco, di leggere le Vite di chi è diventato santo macerandosi nei digiuni o governando rettamente. Son belle cose da sapere, per carità… ma uno che può governare tutt’al più i suoi figli e deve lavorare per guadagnarsi il pane quotidiano, concretamente cosa deve fare per santificarsi?
O meglio ancora: cosa può fare per santificarsi? Quali sono le attività con cui può guadagnarsi il Paradiso, nei limiti di una vita che non concede chissà quali grandi imprese?
Ecco: Panacea e altri santi come lei piacquero così tanto ai sacerdoti della Controriforma perché trasmettevano un messaggio importante: ragazzi, la devozione è alla portata di tutti. Non bisogna essere ricchi (o consacrati, che spesso è sinonimo) per poter avere una vita di preghiera intensa.
Certo: la storia di Panacea finisce in modo tragico: a causa della sua devozione, la ragazza muore (e qualcuno potrebbe persino dire che se l’è cercata, in effetti non si trascura il lavoro per pregare). Ma, a ben vedere, Panacea è solamente una (povera jellata) nel più ampio filone dei devoti lavoratori – cioè, santi come tutti noi, impiegati nel lavoro manuale, che però non permettono alle fatiche quotidiane di distoglierli dalla vita di preghiera.
Vauchez, a questo punto, traccia un interessante parallelismo con la figura di sant’Isidoro l’agricoltore, il cui culto si diffonde vigorosamente in Spagna a partire dal secolo XII. Uno dei più celebri episodi della sua Vita è dedicato a un miracolo decisamente non comune.
Forse per invidia, forse per comprensibile irritazione, alcuni colleghi di Isidoro riferiscono al datore di lavoro (un latifondista che dava impiego a tutti loro) che il santo, effettivamente, è uno di quelli che battono la fiacca.
Non è che lavori lentamente, dicono i contadini al capo stupefatto: è che ogni tanto s’impunta e smette di lavorare proprio. Mentre noi ci ammazziamo di fatica, lui si inginocchia in mezzo al campo e si mette a pregare come se niente fosse.
Comprensibilmente irritato alla ferale notizia, il datore di lavoro si reca sul campo per una visita a sorpresa… scoprendo che, in effetti, sì: quella faccia di tolla di Isidoro se ne sta inginocchiato in un cantuccio, tutto preso dalle sue orazioni.
Ma c’è un “ma” grosso come una casa. Nonostante il contadino si stesse facendo i fatti suoi, i buoi continuavano ad arare il campo. Guidati da un angelo del cielo, gli animali spingevano docilmente il loro giogo, compiendo da soli quel lavoro che Isidoro stava trascurando… ma solo all’apparenza.
Che dire?
Non so nemmeno da dove cominciare per elencare tutti i motivi per cui questa storia mi stona terribilmente. Eppure (in un modo decisamente rudimentale) (e in un contesto in cui non esisteva la giornata di lavoro con orario fisso e cartellino da bollare…) le agiografie riconducibili a questo filone intendevano passare un messaggio ben preciso. Per dirla con le parole di Vauchez,
agli occhi della gente comune (incarnata nella vicenda di Isidoro dal proprietario fondiario e in quella di Panacea dalla matrigna) la devozione è un lusso che i poveri non possono permettersi, essendo troppo dipendenti dal loro lavoro nella vita quotidiana e, dunque, impossibilitati ad astrarsi per un solo istante dal tempo deputato a questo scopo.
Per aver trasgredito la regola non scritta che riservava la contemplazione agli uomini di chiesa, il «contadino» spagnolo aveva suscitato la collera del suo padrone – dissipatasi alla vista del miracolo – mentre la pastorella era incorsa nelle ire della matrigna.
Ma la storia di Isidoro (e persino la storia tragica di Panacea) riuscivano a
dimostrare ai semplici fedeli […] che la preghiera, lungi dall’essere appannaggio di un’élite, poteva, anzi addirittura doveva, conciliarsi con il lavoro.
Certo, Panacea morì a causa della sua devozione.
Ma certamente nessuno potrebbe dire che la sua fu una morte meritata.
Panacea morì ingiustamente, semplicemente più sfortunata di altri suoi “colleghi” devoti. Peggio ancora: Panacea morì martire per mano di un… “datore di lavoro” che non accettava distrazioni da parte dei suoi dipendenti.
Oh cielo. Poco devotamente, se io ti pago per ararmi i campi e poi scopro che tu passi il giorno a far tutt’altro, mi pigliano i cinque minuti a prescindere, anche se per (un letterale) miracolo non mi hai provocato perdite. Ma insomma, non sottilizziamo e facciamoci andar bene il concetto di base che queste agiografie cercavano, un po’ grossolanamente, di far passare. E cioè, che una intensa vita di fede non è appannaggio dei pochi eletti che possono concedersi il lusso di pregare perché non hanno niente da fare da mane a sera. Anzi, la preghiera può (e deve!) trovare spazio anche nelle giornate di chi non ha mai abbastanza tempo per fare tutto (…ma a guardare bene, magari qualche intervallo di tempo in cui recitare un’Ave lo può trovare, sforzandosi).
E insomma: ridi e scherza, mi sembra che la triste storia di Panacea abbia qualcosa da insegnarci per davvero. Soprattutto, mi sembra che possa dare una lezione importante a quanti di noi, dopo la lunga pausa della quarantena, si accingono a riprendere il tran-tran di sempre.
“Non lasciate che il tran-tran vi travolga” sembra dire la nostra giovane amica. “Tra i mille impegni e le mille preoccupazioni, non dimenticate di lasciare un po’ di spazio per ciò che veramente conta”.
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