Un giovane a cui non bastava il suo piccolo paese e che in una grande città ha trovato solo solitudine. Incontrare amici cristiani è stato come vedere l‘alba che spunta al mattino. di
Sono nato a Los Mochis, nel nord del Messico. Una piccola cittadina che conta appena poco più di cento anni di vita, cresciuta nel cuore di un’immensa valle agricola, bagnata dal sole e dalla brezza dell’oceano. Dopo aver vissuto una infanzia tranquilla, negli anni del liceo ho sentito crescere in me un forte sentimento di insoddisfazione: non mi bastava più quel “mondo piccolo”, le cose di cui parlavo con gli amici, la musica e le tradizioni locali. Definivo tutto questo “mancanza d’orizzonte”. Quando è arrivato il momento di scegliere l’università, non ci ho pensato nemmeno un secondo. Avevo già deciso: volevo frequentare l’ateneo più importante dell’America Latina, l’università Nazionale Autonoma del Messico presso la cosmopolita Città del Messico. Volevo tutto: dialogare con grandi professori, avere amici interessanti, imparare da persone che conoscessero il mondo. Volevo vivere nel cuore del mio paese, per conoscerlo e amarlo fino in fondo. Con grande sorpresa dei miei genitori (perché non ero uno studente bravissimo…), sono stato accettato alla facoltà di Scienze politiche, centro di riferimento storico dei grandi intellettuali messicani e latinoamericani, per prendere la laurea in Sociologia.
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Durante i primi anni di università, dicevo spesso che avevo lasciato la mia terra come “esiliato”. Il mio passato, infatti, non aveva più niente a che fare con la vastità di esperienze e di volti con cui mi confrontavo ogni giorno.
Il primo anno è stato durissimo: ho assaporato il gusto amaro della solitudine. Ero diventato un vagabondo: studiavo, ma non sapevo cosa stessi costruendo, dove mi stesse portando l’università, a che cosa servissero quei pochi nuovi amici che avevo. Frequentavo gruppi e centri culturali di sinistra ma sentivo dentro di me che nessuno comprendeva a fondo quello che veramente desideravo. Tante serate passate a discutere fino a tardi del futuro del Messico, del senso delle cose, delle ingiustizie e di ciò che rende bella la vita! Ogni volta tornavo a casa sempre più malinconico.
Poi iniziò il secondo anno ed ecco, finalmente, l’incontro atteso da sempre, ecco l’abbraccio che desideravo: grazie a mio fratello e alla morosa, conosco don Javier de Haro, missionario della Fraternità, allora responsabile del movimento in Messico. Siamo subito diventati amici e attraverso di lui ho conosciuto la comunità di Cl. Mi ha abbracciato così com’ero. La vera rivoluzione, quella che Cristo attua nell’intelligenza e nel cuore dell’uomo, iniziava a spuntare in me come l’alba al mattino, portando con sé una luce che non sarebbe mai tramontata. Arrivano così anni di grazia totale in università, con gli amici e la comunità. Tutto diventa affascinante e prezioso: l’approfondimento della sociologia, il dialogo con i professori di sinistra, il desiderio di dare tutto il mio tempo e le energie alla comunità del movimento, il ritorno felice a Los Mochis per Natale. E ancora, l’incontro con gli amici del passato, la possibilità di abbracciarli e di godere della semplicità del mio paese, la familiarità con don Giussani e con la storia del movimento, i viaggi in Italia con il Clu, le équipe a La Thuile, il lavoro al Meeting.
E così arriva anche l’idea del sacerdozio, agli inizi del 2011. Perché non dare tutto a Cristo che mi ha dato tutto? Guardavo don Javier e gli altri sacerdoti della Fraternità in Messico e vedevo degli uomini veri, compiuti e felici di dare la vita per Cristo e per il movimento. Felici anche di vivere questo compito nella missione, insieme ad altri. Anch’io volevo vivere così, comunicando ciò che mi aveva cambiato la vita. Ed eccomi qua, oggi, dopo questi anni di formazione e il periodo del diaconato: posso dire che Dio dà tutto a coloro che vogliono vivere solo del suo abbraccio.
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