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«La carità non avrà fine…» (e neppure va in vacanza!)

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don Samuele Pinna - Breviarium - pubblicato il 14/08/20
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In un agosto afoso con un virus che non vuole mollare la presa, medito su quella carità cristiana che non si stanca di prodigarsi per coloro che non hanno il lusso di staccare dalla routine quotidiana per andare in vacanza. E penso soprattutto a quelle persone che per fede in Dio (e non solo per solidarietà umana) non si fermano nel donarsi nonostante la calura insopportabile. Guardo ammirato gli amici della Società San Vincenzo De Paoli della mia parrocchia e insieme immagino quelli di molte altre che instancabili al bene si dedicano ai più bisognosi.

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Ho avuto anch’io, infatti, la ventura di prendere parte alle Conferenze di Carità proprio a imitazione della prima, avvenuta il 23 aprile 1833 in Rue de Petit-Bourbon-Saint-Sulpice a Parigi, in cui si ritrovarono sotto la spinta di Antonio Federico Ozanam, Le Taillandier, Lamache, Lallier, Devaux, Clavè e Bailly. In un tempo in cui era vietata l’assistenza sociale da parte dei cattolici ecco degli incontri per dare senso caritativo all’essere credenti. La prima riunione si aprì significativamente con l’invocazione allo Spirito Santo e con la lettura di un brano dell’Imitazione di Cristo. Si stabilirono poi due punti fondamentali: quel ritrovarsi doveva possedere un carattere semplice e amichevole, oltre di scambievole confidenza tra i partecipanti e un fine pratico, “attivo”, di fede operante. Fu invitato anche un sacerdote – stessa mia sorte – per avere dei consigli e per mostrare il rispetto e l’obbedienza verso l’autorità della Chiesa di questo gruppo di laici animati dal desiderio di operare cristianamente.

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Ho potuto, quindi, osservare da vicino i benefici effetti di chi si spende senza risparmio per il prossimo a imitazione di quel san Vincenzo, il quale – aggiungendo iniziative a iniziative – aveva vissuto così tutta la vita, divenendo ispiratore di altri Santi (oltre al già citato beato Ozanam, basti ricordare la Piccola Casa della Divina Provvidenza che il Cottolengo pose sotto i suoi auspici).

Oggi si parla molto di povertà (e giustamente!), soprattutto nel magistero di papa Francesco, il quale nel IV Messaggio della Giornata mondiale dei poveri (2020) scrive a un certo punto:

Sono rimasto molto colpito da queste parole perché mi pare sintetizzino quanto abbiano fatto per secoli i missionari cristiani che, motivati e senza scadenze, si sono consumati in terre lontane, tenendo fede a dei propositi che sono evangelici e quindi indubbi. Hanno, pertanto, tentato con ogni sforzo di combattere il peggio, recando non solo mezzi necessari alla sopravvivenza di molti, ma una Parola di salvezza. Si rimane stupiti da certi racconti, davvero eroici, di chi si è ingegnato per portare l’amore di Dio in latitudini e longitudini avverse a un buon destino. Rimango sempre ammaliato quando ascolto (o leggo) il mio amico Giorgio Torelli, reporter speciale perché solo di “buone nuove”. Nella primavera del 1985, il giornale per cui lavorava (quello di Indro Montanelli, per intenderci) lo aveva inviato in Africa.

Queste intuizioni confermano una mia convinzione: l’amore cristiano è vivere della prossimità e non è solo “fare della carità”, intesa come elemosina, seppur anch’essa sia importantissima. Lo stesso san Cipriano di Cartagine, difatti, nel suo De opere et eleemosynis afferma che chi

Ciononostante, non basta fare della carità, ma bisogna vivere con carità, nell’Amore. E mi pare coincidere con l’invito che il Pontefice rivolge a tutto il popolo di Dio: l’amore cristiano si sperimenta anche in quella forma di carità che consente di entrare in comunione con il povero. Per non cadere in iniziative puramente sociali o filantropiche, che in sé non sono di certo un male, si deve avere la stessa intuizione antica di un san Vincenzo o di un san Giuseppe Benedetto (ribadita oggi, mi pare, dal Vicario di Cristo). Del resto, sappiamo dell’esistenza, grazie al sopracitato Emanuel Bailly, delle Conferenze di diritto e storia, che però non potevano bastare a un cuore cristiano, come quello del beato Ozaman, che le trasformò in qualcosa di differente. È a imitazione di quel nobile cuore ciò che dovrebbe animare l’intento evangelico di soccorrere i poveri: non solamente (anche) un aiuto materiale (la Lettera di Giacomo è chiara in proposito), ma un farsi prossimi a livello spirituale, farsi riconoscere come fratelli. Qui c’è un salto non immediato da compiere: è facile infatti dare, è più difficile darsi. Nulla, però, è più arricchente ed è quello che è capitato, nel mio piccolo, a me grazie al mio amico Rhami. Ci siamo conosciuti per una richiesta: lui aveva bisogno e io potevo corrispondere, seppur in minima misura. La Provvidenza volle, tra l’altro, che entrambi arrivassimo in una parrocchia milanese nello stesso periodo: io provenivo da una comunità pastorale di provincia e lui dal Marocco. Abbiamo – io e Rahmi – incominciato a conoscerci, parlando, discutendo delle realtà intorno a noi, volendoci bene con semplicità. Non ha mai desiderato una carità sbrigativa (che spesso noi sacerdoti, vista la mole di richieste, tante volte compiamo), l’ha poi sempre rifiutata da un amico. Accetta, invece, qualche spicciolo solo se può contraccambiare con un lavoretto o con un aiuto pratico. In lui rivedo l’autentica immagine del povero: colui a cui manca magari il necessario per vivere, ma non la dignità, mentre al mondo ci sono tanti miseri (c’è differenza tra miseria e povertà!) che pur essendo più o meno agiati hanno poco da offrire.

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Certo, è difficile poter instaurare un rapporto profondo con tutte le persone che gravitano attorno alla nostra esistenza, tuttavia percepisco sia questo il primario compito di un cristiano. E allora il cammello di stoffa portato dal Marocco e l’andare al ristorante insieme (lusso per il mio amico che lo riempie di un orgoglio gioioso) rendono, per chi dà e per chi riceve (e quante volte si scambiano i ruoli!), più positiva la vita. D’altronde, Rahmi, mi rammenta coi suoi discorsi una frase di Giovannino Guareschi:

A tal proposito, mi sorge un’ultima riflessione, che può apparire una provocazione, ma che – ne sono sicuro – può evitare tanti impacci legati insieme da ideologie di diversa fattura. Non è un pensiero mio, ma che ho fatto mio. L’ho imparato da un mio maestro, il cardinal Giacomo Biffi (1928-2015), il quale ha insegnato che la Chiesa (che noi spesso riduciamo a semplice istituzione umana, mentre è molto di più o almeno dovrebbe esserlo per i battezzati) non deve essere povera, ma ricca (e lo è già “custodendo” la realtà più preziosa al mondo, la Rivelazione divina). Mi ricordo ancora una battuta quando andavo a trovarlo nel suo luogo di riposo sui colli bolognesi: “Il denaro è lo sterco del diavolo!”, esclamava per poi chiedersi con il viso volutamente corrucciato: “E noi che ne facciamo?”. E, dopo una pausa ad effetto, la riposta liberatoria: “Concimiamo la vigna del Signore, che è la Chiesa!”.

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Si rideva con don Giacomo, perché era un fine umorista, capace cioè di far riflettere attraverso un racconto o un aneddoto, quasi sempre spassoso. Ripropongo la sua riflessione perché fa comprendere la differenza tra l’amore per la povertà e un becero pauperismo.

Anche nel mio libro letterario intitolato Dalle lettere di don Augusto. Come rimanere cattolici nonostante tutto, ho preso bonariamente in giro la (distorta) anima francescana,

Insomma si potrebbe dire di questa gente un po’ ideologica: amano la povertà perché non la possiedono!

Tutt’altra storia per chi sceglie, come san Francesco, a imitazione del Cristo, di sposare Madonna Povertà, non smettendo mai di amarla lungo tutta la sua vita fino al passaggio nell’eternità.

Siamo di fronte alla

Tuttavia, Dante, nella Divina Commedia, rileva l’aspetto successivo alla scherno di un primo momento: la scelta di povertà come offerta a Dio per il bene del prossimo diviene contagiosa.

La perfetta concordia (la lor concordia) tra Francesco e la Povertà e la letizia dei loro aspetti (lor lieti sembianti), dei loro volti sereni, unita all’amore e alla felice meraviglia (amore e maraviglia) che apparivano nel loro dolce guardarsi, quasi una sorta di contemplazione, erano motivo di santi pensieri in chiunque li vedesse (esser cagion di pensieri santi).

La povertà è bene, una grazia divina, solamente quando è cristianamente scelta, non quando è subita o proclamata come virtù che non si vive. I bisognosi vanno, quindi, soccorsi con le ricchezze (materiali e spirituali), ma per portarli a conoscere, nella libertà, quella più bella, buona e vera che coincide con la persona di Gesù Cristo.

Il mio amico Rhami, che cristiano non è, me l’ha insegnato attraverso la sua amicizia disinteressata (lui che poteva vantare interessi), conscio che in fondo – parafrasando la Sacra Scrittura – chi trova un amico trova un tesoro. Guarda caso – per me appassionato – questo è anche un titolo di un film di due miei paladini, Bud Spencer e Terence Hill. E nel lungometraggio si vede come il rapporto amicale non può mai essere idealizzato, ma bisogna sforzarsi di farlo crescere, perché l’amicizia è

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