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RU486: l’ultimo no (di una lunga serie) alla vita che nasce.

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Annalisa Teggi - pubblicato il 10/08/20
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Annunciate dal Ministro della Salute Speranza le nuove linee guida sull’aborto farmacologico: possibile fino alla nona settimana e senza ricovero. In un paese con un agghiacciante calo demografico, questo impegno a rendere l’aborto sempre più “facile” è un segnale amarissimo. In alcuni giornali compare nella sezione News, in altri in quella Diritti, in altri ancora nelle pagine femminili: è la notizia sull’aggiornamento delle nuove linee guida in tema di aborto farmacologico che il Ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato con queste parole:

Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana.
È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese.

Dunque? Non sarà più obbligatorio il ricovero di 3 giorni per chi vorrà sottoporsi all’aborto sinteticamente definito con la pillola Ru486. Il trattamento potrà essere effettuato in day hospital e la Ru486 si potrà quindi assumere senza ricovero, fino alla nona settimana di gravidanza prorogando il termine delle sette settimane previsto finora.



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A corredo della dichiarazione, il Ministro ha inserito sulla sua pagina Facebook la foto del titolo messo in prima pagina da Repubblica: «Aborto, cade l’ultimo no». Infatti, a fronte delle tantissime reazioni in ambito politico, sociale e religioso, va detto che non siamo di fronte a una rivoluzione epocale, bensì alla triste caduta di un altro tassello nel domino dell’aborto. Riconoscere questo non significa svilire il peso della notizia, bensì collocarla nel quadro di una trincea in difesa della vita che è già da tempo aggredita e minata alle radici e di cui questo è un ulteriore colpo.

Una solitudine (già da tempo) annunciata

Sulla pillola abortiva, dunque, si sono volute aggiornare direttive vecchie di 10 anni, ma già in quelle direttive era previsto che ogni Regione avesse un margine di libertà per valutare se trattenere in ricovero la paziente o eseguire la procedura in regime di day hospital:

Le direttive approvate già dieci anni fa dal ministero consigliavano infatti tre giorni di ricovero per la paziente che assumeva la pillola abortiva, lasciando però la scelta alle Regioni che nella maggior parte dei casi hanno optato per la somministrazione ambulatoriale. (da Corriere)

Con tutta la spavalda fierezza da grande attivista dell’aborto, il dottor Silvio Viale del Sant’Anna di Torino ha dichiarato a Open:

Il Piemonte ha il 47% di aborti farmacologici, siamo leader – se così si può dire – in questa pratica. Dopo di noi solo Liguria ed Emilia Romagna. Io, personalmente, sono 10 anni che pratico aborti farmacologici e da sei lo faccio in day hospital, quindi senza ricovero.

Sì, ha un sussulto anche lui nel pronunciare le parole «siamo leader nel settore», ma il contenuto non cambia: già da tempo il viaggio solitario della donna nella battaglia della sua – presunta – libera scelta è stato assecondato anche a livello sanitario e medico (oltre che essere molto urlato nella propaganda sociale) proprio come un viaggio da fare in solitaria, sia nell’accezione di un’eroina imperatrice della sua volontà, sia nell’evidenza di una creatura sempre più isolata a fare i conti con le sue ferite profonde.

Se in Piemonte (e altre regioni) era già possibile eseguire un aborto farmacologico in ospedale e in regime di day hospital, lo scorso giugno la Toscana è stata la prima regione in Italia a permettere l’IVG in ambulatori fuori dagli ospedali. Enrico Rossi, presidente della Regione, applaudì la scelta con questa dichiarazione:

Fummo i primi a partire acquistando la Ru486 all’estero, ritenendola più sicura dell’aborto chirurgico. Poi nel 2014 il Consiglio sanitario regionale adottò un parere, dichiarando non necessario il ricovero ospedaliero, ed ecco l’evoluzione che era tanto attesa. (da Rainews)

Dunque, il titolo di Repubblica è azzeccato per sintetizzare questa «evoluzione»: con l’aggiornamento avvallato dal Ministero della Salute sulla RU 486 non siamo di fronte a una clamorosa novità, bensì all’ennesima botta per piegare le gambe fino in fondo nell’inchino a una cultura di morte. Cade l’ultimo no. Ma a chi lo stiamo dicendo questo no? Abbiamo messo in fila l’ultimo di una lunga serie di no alla vita che nasce.

Il sassolino dell’Umbria, la fionda della pandemia

Per completare il quadro che ha come ultimo vistoso elemento l’annuncio del Ministro Speranza, bisogna fare riferimento al caso dell’Umbria. E’ stata proprio la scelta in controtendenza di questa regione in merito all’aborto in day hospital a suscitare le reazioni forti di chi si batte per i cosiddetti diritti delle donne. A metà dello scorso giugno la giunta umbra, a guida centrodestra, decise di ripristinare l’obbligo di ricovero per 3 giorni a chi si sottoponeva alla procedura di aborto farmacologico. Tra le molte proteste in ambito femminista, Elsa Viora, la Presidente dell’ Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (Aogoi) insieme alla rete Pro choice aveva dichiarato:

Nel pieno della pandemia, anche approfittando un po’ della situazione, avevamo cercato di evidenziare una questione importante che era caduta nel vuoto, al di là di dichiarazioni a voce di sensibilità al problema. (da Il Fatto quotidiano)

E colpisce il candore forse inconsapevole di questa frase: “nel pieno della pandemia, anche approfittando un po’ della situazione“. Lascia attoniti pensare che mentre il paese viveva l’emergenza tragica del Covid-19 qualcuno pensasse di usare la pandemia come grimaldello per vincere un’altra battaglia. A prescindere dal valore morale di ogni causa sociale, perseguirne gli obbiettivi approfittando di debolezze, eventi luttuosi o drammatici appare in ogni caso una logica cinica, e in ultima analisi perdente (a dispetto dei traguardi che ci si illude di raggiungere).

Ma quali erano le richieste gridate da questa nuova ondata di reazioni pro aborto? Ampliare l’uso del farmaco RU486 da 7 settimane a 9 di gravidanza e di ampliare anche l’uso fuori dal regime ospedaliero. In seguito a ciò, il ministro della Salute Roberto Speranza ha richiesto un parere al Consiglio superiore di sanità (Css) e due giorni fa è stato convalidato l’aggiornamento delle direttive, che puntualmente segue le due indicazioni citate.

Le reazioni: risparmiare sulla pelle delle donne

Essendo un tema vitale – sia concesso per una volta usare quest’aggettivo in senso letterale e non metaforico – l’esplosione delle reazioni, nell’esultanza da una parte e nella dura presa di posizione dall’altra, è stata incandescente. E questo di per sé è un segnale che già esprime un giudizio chiaro sulla cosa: potrai anche fare mille leggi per far diventare l’aborto un evento silenzio e irrisorio, ma non lo sarà mai – per chi lo vive sulla sua pelle innanzitutto.

Un passo avanti per la civiltà, applaude il coro pro-choice. Ma a voler fare davvero un passo in avanti in questo mondo di pillole e donne libere l’orizzonte non si tinge di rosa, ma di un grigio tendente al nero. Tratteggia bene questo scenario Assuntina Morresi su Avvenire:

Probabilmente non aumenteranno gli aborti per questo: è facile che continueranno a calare di numero perché il problema è a monte, nel crollo dei concepimenti e delle nascite. L’aborto tenderà a sparire dall’orizzonte perché non lo vedremo più, nascosto fra le mura di casa, e in ospedale quando non ce la si fa più a reggere la procedura.

Ecco uno sguardo paradossale: in un paese con un agghiacciante calo demografico, lo Stato e una fetta di opinione pubblica applaudono un’ulteriore passo in avanti sulla via poco luminosa che volta le spalle alla vita. Anche a occhi inesperti si direbbe una visione economica non molto lungimirante. Ci argomenti esposti della Chiesa e della ben più ampia fetta di popolo che, al di là del credo religioso, difende la vita che non sono puramente emotivi; la visione morale si accompagna a un discernimento ben spalancato sulla realtà.

E il primo soggetto che si mette a fuoco è la donna, quella che in un momento cruciale della propria vita fa i conti con una gravidanza. Una propaganda fatta di parole più che di fatti la vuole blandire con l’idea che una pillola è molto meglio di un’operazione chirurgica. Ma cosa accade di fatto nell’esperienza? Lo ha spiegato la presidente nazionale del Movimento per la Vita Marina Casini al microfono di Vatican News:

Si tratta di un aborto vero e proprio, che non è meno aborto perché non avviene con gli strumenti chirurgici. […] Siamo di fronte a una provocazione che ha uno scopo squisitamente ideologico: quello di rendere l’aborto un fatto tanto banale – “basta in fondo bere un bicchier d’acqua”- da far dimenticare che c’è in gioco la distruzione di un essere umano che si trova nella fase prenatale della sua vita. (da Vatican News)

Sempre la Casini aggiunge un elemento sanitario che è bene tenere a mente. Riguarda proprio la tutela della donna: la procedura farmacologica di IVG prevede l’assunzione di un primo farmaco (il mifepristone) che provoca la morte dell’embrione e di un secondo (la prostaglandina) che stimola le contrazioni nella donna e l’espulsione dell’embrione. Le stesse direttive dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) del 2009 stabilirono che alla donna doveva essere garantito il ricovero fino all’esplusione del feto, perché non si tratta solo di ingerire pillole, ma di indurre nel corpo delle reazioni significativamente forti e dolorose. E che ci sia del personale medico ad assistere la donna in questo processo è palesemente giusto e necessario. Ecco perché non è solo un ritornello ripetere che prendere la RU486 «non è come un’aspirina».

Nausea, vomito, emorragie sono tra gli effetti collaterali più documentati (naturalmente, il vero effetto nocivo è la morte dell’embrione). Ma soprattutto è la «procedura» in sé a non essere facile quanto viene dipinta dagli slogan femministi «prendi una pillola, e dopo mezz’ora vai a casa». La ricostruisce  il ginecologo Giuseppe Noia, ginecologo e docente di Medicina prenatale al Policlinico Gemelli di Roma:

La Ru486 genera una serie di contrazioni dolorosissime. A sette-nove settimane la placenta è ancora più coesa con l’utero, e quindi l’entità emorragica è maggiore. Il figlio è formato in maniera incredibile, anche nei suoi movimenti, perché ha il sistema nervoso, un peso importante, ha occhi, orecchie, gambe, braccia e bocca, dita di mani e piedi visibil. […] Se la donna viene operata non vede nulla. In questo caso [con la RU486 – NdR] l’evento abortivo avviene sotto i suoi occhi, aggravando non solo il dolore ma anche minando per sempre la sua sicurezza psicologica e c’è un dato non sconfessato, quello delle morti da aborto farmacologico: l’aborto chirurgico è 10 volte meno pericoloso. (da Il Giornale)

Un altro paradosso emerge in queste parole: con due pillole e la libertà di poter tornare a casa propria si vorrebbe alleggerire il peso di un aborto, renderlo un’esperienza irrisoria, ed invece ci ritroviamo con una donna che, da sola con le proprie ansie e paure, vive l’intero processo abortivo sotto i propri occhi e senza nessuno accanto.

E dunque qual è il vero grande vantaggio che tutti possiamo senza dubbio riconoscere (disperandocene al contempo) in questo ulteriore ruggito a suon di legge sull’aborto? Che avere una donna che si autogestisce nell’aborto e a cui deve solo essere spiegata una procedura e messe in mano un paio di pillole fa risparmiare molto. Si risparmiano posti letto, anestesie, medici e operatori sanitari. E, da che ciascuno di noi abbia memoria, il capitolo delle spese sanitarie nel bilancio di uno Stato è sempre stato un disastro, il ritornello “riduzione delle spese” è un mantra senza colore politico. Allora chiamiamo le cose col loro nome; non prendiamo in giro le donne, non usiamole e apra davvero gli occhi anche chi sostiene di difendere i loro diritti.

Niente di nuovo

Di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di uccidere una vita che cresce nel grembo. Lo si deve scrivere anche se lo sanno tutti, e non mi riferisco ai cattolici fissati con la vita, ma a ogni essere umano. Se la narrazione sull’aborto richiede tanti giri linguistici (interruzione-volontaria-di-gravidanza; libertà-di-scelta; il-corpo-delle-donne-non-si-tocca) è perché non c’è modo per nessuno di evitare il confronto diretto. Dunque ci fai lo stesso i conti, anche quando fingi di parlare d’altro.

La battaglia in merito al diritto all’aborto esiste da tanto, quello a cui abbiamo assistito in questi giorni è un’ulteriore medaglia che alcuni si appuntano sul petto. L’alpinista sa che non è l’ultimo passo ad avergli fatto conquistare la cima, allo stesso modo noi sappiamo che non è quest’ultimo aggiornamento in merito all’aborto farmacologico ad essere così clamoroso. Clamorosa è la vita, semmai. La sconfitta umana è sempre quella, è l’aborto; e qualsiasi aggettivo (chirurgico, farmacologico) e qualsiasi ulteriore suffragio legale e qualsiasi nuova sofisticata procedura medica non altererà di nulla il tragico dato di partenza. I passi in avanti di certa presunta civiltà, non ci dicono che sta progredendo, ma che la terra brucia sotto i suoi piedi.

In effetti, in questo caso, chi cammina sempre in avanti, e non sta mai fermo, è chi deve difendere la propria scelta in favore della morte; a questa gente è necessario modificare, aggiungere, cambiare, mescolare … insomma, indaffararsi per tentare -invano- di allontanare e de-sensibilizzare il rovello che è il rifiuto della vita. Perché tutti continuano inevitabilmente a farci i conti.

Non ci sono barricate rispetto a questo; ci sono esseri umani che semplicemente stanno fermi a osservare e lodare il dato oggettivo che è la generazione della vita (e dichiararne il valore è dichiarare il valore di noi stessi, anche del nostro peggior nemico) ed esseri umani che cercano sistemi talmente perfetti – direbbe Eliot – per raccontarsi a voce ciò che l’anima non accetterà mai.

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