Gli studiosi hanno documentato quanto gli abiti influenzino i nostri comportamenti e i comportamenti degli altri nei nostri confronti. E c’è in gioco più dell’apparenza.
Tra le tante cose che non sono, non sono nemmeno una psicologa.
Però so leggere. E ho trovato veramente interessante la lettura di L’abito non mente, un agile saggio che la dottoressa Gaia Vicenzi ha dedicato a Il ruolo dell’abbigliamento nel definire chi siamo, cosa facciamo e come pensiamo.
Un libro interessante per davvero, fra parentesi. L’autrice è una psicoterapeuta, ma il suo saggio (pur rigoroso e documentatissimo) è assolutamente alla portata di tutti. Se vi piace il genere, la definirei una buona lettura estiva: impegnata, ma non troppo impegnativa.
Ambeh: nell’ambito della sua professione, la dottoressa Vicenzi ha dedicato particolare attenzione all’abbigliamento come strumento di lavoro psicologico. Il che, di per sé, non è niente di così strano: scopro ad esempio che la fashion therapy può essere di grande aiuto alle donne che vedono il loro corpo cambiare a seguito di cure oncologiche. I pazienti affetti da demenza sembrano trarre beneficio dal continuare a indossare abiti curati – e, del resto, chi di noi non sceglie con attenzione l’abito “giusto”, nel tentativo di controllare l’ansia causata da eventi stressanti (primo giorno di lavoro; andare a conoscere i futuri suoceri, etc.)?
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Insomma: un libro ricco di spunti, che consiglio a tutti coloro i quali si interessano di moda – e soprattutto a coloro i quali si interessano di modest fashion. Il libro della Vicenzi, di per sé, non parla di modestia nel vestire (parla di abbigliamento in generale), ma offre spunti di riflessione che potrebbero essere davvero interessanti in un discorso dedicato al pudore.
Ad esempio?
C’è poco da farci: l’abbigliamento influenza l’idea che gli sconosciuti si fanno di noi
Chiamatelo “pregiudizio”, se volete, ma possibilmente senza dare al termine una accezione negativa. È normale, succede ogni giorno, sarebbe allarmante se non succedesse: di fronte a un individuo che non conosciamo e che vediamo per la prima volta, ognuno di noi formula, in meno di mezzo secondo, valutazioni anche molto complesse (Olovola e Todorov, 2010). L’aspetto fisico, la postura, il tipo di abito indossato e il modo in cui l’abito si adatta al corpo sono gli elementi che, più di tutti, ci permettono di formulare un primo giudizio sulla persona (Gurney et al., 2016), permettendoci ad esempio di immaginarne la personalità e il suo “ruolo” nel mondo (clochard? Manager in carriera? Neomamma stressata? Studentessa universitaria?).
Può piacere o non piacere, ma è un dato di fatto – assodato il quale, diventa chiara la necessità di prendere consapevolezza del messaggio che i nostri abiti mandano al resto del mondo.
Nel 1991, Behling e Williams hanno condotto un esperimento sociale tra gli studenti di una scuola. I ragazzi (maschi e femmine) sono stati divisi in due gruppi: al primo gruppo è stato chiesto di indossare un paio di jeans corti e una maglietta; al secondo gruppo è stato chiesto un look un po’ più formale. Ogni studente è stato fotografato, dopodiché la fotografia è stata mostrata a un gruppo di insegnanti e agli altri ragazzi che partecipavano all’esperimento.
Non solo gli insegnanti, ma addirittura i coetanei!, tendevano a giudicare più intelligenti e con miglior rendimento scolastico i ragazzi che indossavano il look più serio.
Nel 2005, un esperimento simile (Glick et al.) ha visto protagoniste delle donne in carriera con posizioni manageriali: anche in questo caso, le professioniste sono state fotografate e gli scatti sono stati mostrati a un campione eterogeneo di volontari, con la richiesta di valutare la professionalità delle lavoratrici. Le donne che indossavano un abito provocante tendevano ad essere ritenute meno competenti rispetto alle colleghe che indossavano abiti più coprenti (non necessariamente più formali). Un pre-giudizio che ritroviamo anche nel lavoro di Griffiths (2009): l’esperimento, in questo caso, riguardava le musiciste – rivelando che le violiniste che si esibiscono indossando un abito elegante da concerto tendono ad essere ritenute “più brave” (cioè: più abili e più tecnicamente preparate) rispetto alle violiniste che salgono sul palco indossando un abito da nightclub.
E non è un problema esclusivamente femminile! Bell (1991) e Howlett et al. (2013) hanno dimostrato che un uomo che indossa un completo formale tende ad essere ritenuto intelligente, sicuro di sé e capace di ottenere uno stipendio alto – tutte caratteristiche che non gli vengono attribuite se quello stesso uomo si spoglia dei suoi abiti da ufficio mostrandosi in un completo casual da tutti i giorni.
A proposito di maschi e femmine, pare sia noto agli studiosi un grosso problema di fondo.
Un abito sexy, va da sé, NON può in alcun modo giustificare la molestia, ma molti esperimenti (es. Lennon et al., 1999; Grafh, 2012) evidenziano un marcato stacco tra il messaggio che le donne credono di mandare con un certo look (es. “io sono una donna moderna, al passo con i trend della moda”) e il messaggio che gli uomini effettivamente ricevono (es. “quella dev’essere una donna audace, alla ricerca di avventure”).
Mi spiace, ma è così che stanno le cose.
Quando scegliamo i nostri vestiti, stiamo ben attente (anzi, attenti: maschi inclusi) a non trasmettere messaggi che non vorremmo dare.
È scientificamente mostrato che i nostri abiti influenzano il comportamento che gli altri hanno verso di noi
Non si tratta solo di pre-giudizi che rimangono lì, a livello di pensiero, nella testa degli sconosciuti. La psicologia dimostra che, in molti casi, il pensiero si concretizza in opere (o omissioni) vere e proprie.
Un esempio innocente? Nel 1977, Nash ha dimostrato che i runner vestiti in modo simile tendono a interagire tra di loro più di quanto non interagiscano con i runner che indossano abiti diversi.
Un altro esempio? Chaiken et al., nel 1974, hanno notato che, durante una raccolta firme (per petizioni, referendum etc.) i volontari tendono a ricevere un maggior numero di adesioni da parte dei passanti che vestono secondo il loro stesso stile.
Nel 2007, Johnson e colleghi hanno condotto una analisi sulla (sterminata) letteratura scientifica dedicata all’influenza che l’abbigliamento di un individuo esercita su coloro i quali lo circondano. Passando in rassegna tutta la letteratura sul tema, Johnson ha notato che l’abbigliamento modifica in maniera significativa il comportamento altrui nell’85,3% dei casi, influenzando sentimenti come: onestà, istinto di aiuto, disponibilità all’ascolto.
Ma non solo: vengono influenzati dagli abiti anche il comportamento dei pazienti di fronte a un medico; l’erogazione di un servizio di assistenza ai clienti più o meno curato; la tendenza, da parte di estranei, a “invadere il territorio” già occupato da uno o più individui.
A mio giudizio, questi dati dovrebbero costituire un enorme campanello di allarme per tutti i giovani (e i giovani credenti) che stanno cercando una relazione.
Non lasciamoci ingannare dalla frottola per cui bisogna essere seducenti per trovare un partner (e che bisogna essere sessualmente provocanti per affascinare). Ovviamente, un abito provocante non può e non deve giustificare mancanze di rispetto – epperò, è probabile che un abito provocante porti alcuni bravi ragazzi a giudicare negativamente la signorina che hanno di fronte (“oh no, ma che è questa bagascia? Non è certamente il tipo di donna che mi interessa”).
Che ci piaccia o no: ecco un’altra cosa da sapere. Soprattutto se siamo alla ricerca di un partner, vestiamoci in un modo che possa ben disporre quel tipo di persona che speriamo di attirare. Sennò finiremo col passare messaggi sbagliati e attrarre persone diverse da quelle che stiamo cercando.
Incredibile ma vero, i vestiti che indossiamo influenzano anche il nostro comportamento
I primi esperimenti di psicologia sociale che hanno messo in luce questo aspetto sono stati condotti nel 1969 dal professor Zimbardo e poi replicati nel 1979 da Johson e Downing.
E tenetevi forte perché sono ‘na roba inquietantissima, davvero ai livelli di manipolazione mentale: ai volontari che avevano accettato di sottoporsi all’esperimento era stato chiesto di somministrare scariche elettriche di intensità crescente a un povero malcapitato, qualora lui avesse commesso degli errori nello svolgimento di un compito prestabilito. Il malcapitato era, in realtà, un attore complice dello sperimentatore, che a un certo punto avrebbe dovuto cominciare a lamentarsi per il dolore, millantando addirittura problemi cardiaci.
I soggetti incaricati di somministrare le scosse erano stati divisi in due gruppi. Nell’esperimento del 1969, i due gruppi si dividevano tra gente vestita normale e gente a cui era stata fatta indossare una lunga cappa nera simile a quella dei bad guy dei film. Nell’esperimento del 1979, i due gruppi erano composti da gente vestita normale e gente a cui era stato fatto indossare un camice da infermiere.
Ci credereste? Rispetto ai soggetti vestiti normalmente, i soggetti con la cappa da bad guy risultarono più propensi a infliggere scariche elettriche, persino quando il finto torturato iniziava a chiedere pietà. Rispetto ai soggetti vestiti normalmente, i soggetti con il camice da infermiere mostrarono un disagio maggiore nel compiere la stessa operazione.
Questo esperimento è inquietantissimo, ma non è l’unico a giungere a conclusioni simili. Per esempio, Fredrickson et al. (1998) hanno scoperto che le donne che indossano un bikini tendono a mangiare di meno rispetto alle donne che indossano un copricostume ampio. Ma non solo! Dolorosamente, tendono addirittura a commettere più errori se viene chiesto loro di risolvere un esercizio di matematica.
Curiosissimo, a mio giudizio, l’esperimento condotto nel 2009 da Lohmus. A venticinque ragazze è stato chiesto di indossare, in rapida successione, tre outfit radicalmente diversi: un abito da sera elegante e sexy; un completo casual da tutti i giorni; un tutone dimesso e un po’ trasandato. A ogni cambio look, le ragazze sono state fotografate, con la raccomandazione di adottare sempre la stessa posa e di mantenere un’espressione neutra.
Dopodiché, Lohmus ha ritagliato le fotografie per isolare solamente i volti delle ragazze e ha mostrato il set di tre scatti a un campione di uomini, chiedendo loro di indovinare in quale scatto la ragazza indossasse cosa.
Incredibile ma vero, la maggior parte degli uomini fu in grado di accoppiare correttamente le tre fotografie, intuendo che – in questo caso – la ragazza indossava un abito sexy nel primo scatto, un completo casual nel secondo, un abito dimesso nel terzo.
Per la cronaca, anche io mi sono divertita a proporre lo stesso esperimento sui miei canali Facebook e Instagram, nei giorni scorsi, e posso confermare che anche in questo caso le accoppiate sono state indovinate a grande maggioranza (addirittura da bambine di otto anni!!!)
Secondo Lohmous, ciò dimostra che le donne fotografate avevano (involontariamente, inconsapevolmente) modificato la loro postura e la loro mimica facciale per rispecchiare il tipo di abito che indossavano in quel momento (o meglio: le emozioni che trasmetteva loro l’abito che avevano indosso). Sicché, ad esempio, indossare un abito trasandato le portava inconsapevolmente ad avere un’espressione più dimessa, mentre l’abito da sexy le spingeva a sorridere in modo seducente.
Chiaramente non saranno una minigonna e un toppino in latex a trasformare in femme fatale una timida fanciulla – ma potrebbe essere un vestito romantico a fiorellini (o qualsiasi cosa suggerisca il suo personale gusto, evidentemente) a ricordare a una giovane qual è il modello di donna cui vuole tendere.
Sì: L’abito non mente è un libro che ho trovato sommamente interessante.
Di per sé – ripeto – non sfiora neanche di lontano il tema della modest fashion. Eppure, a suo modo, mi ha aiutata a elaborare un concetto che vagava nella mia testa già da molto tempo. E cioè che la modest fashion – per come la vedo io – non è solamente una questione di centimetri di pelle scoperta e di tentazione sessuale.
Non è solo questo: è molto di più. Per me, è anche e soprattutto una questione di rappresentazione. Cristianamente, potremmo dire: “di testimonianza”.
Un abito “modesto” e selezionato con cura ci mostra al mondo per ciò che siamo e ricorda a noi per primi ciò che aspiriamo ad essere.
Che non è mica poco, per un vestito!
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