Da piccoli amavamo scegliere uno spazio tutto nostro da “arredare” con fantasia per giocare “alla casa”. Ma c’è purtroppo chi vive sul serio così, accampato in strada tra l’afa e le mosche…Da bambina era uno dei miei giochi preferiti, “la casa”. In montagna mi ero ricavata uno spazio tutto mio sotto il balcone della cucina. Mia mamma, giustamente, non capiva per qual motivo trascorressi delle ore sotto un balcone quando c’era un intero prato per giocare. Aveva ragione, naturalmente; ma ricordo anche quanto mi piacesse avere quell’angolino tutto per me, “arredato” con quello che ero riuscita a trovare, e in cui trascorrevo ore a leggere, scrivere, pregare e sognare.
Domenica scorsa, qui a Francoforte, si moriva di caldo. Un’afa insopportabile, temperature tropicali, e la prospettiva di trascorrere una giornata in una cameretta del sottotetto cercando di studiare la sintassi tedesca. No, decisamente non si può. Cerco su internet, e scopro che c’è – nonostante sia una domenica d’agosto – una biblioteca aperta. Deciso. Ci vado.
All’ingresso della biblioteca c’è un bambino molto cresciuto che evidentemente gioca a sua volta “alla casa”. Ha raccolto sei o sette ombrelli e li ha uniti insieme, facendone un igloo. Da un pertugio si affaccia il suo volto: rugoso, stanco, con uno sguardo penetrante ma forse anche un po’ folle. Ciò che più colpisce sono i nugoli di mosche che circondano la sua “casa”.
E mi chiedo che responsabilità abbia una società (cioè io, te, noi tutti) che permette che i suoi figli “giochino alla casa” in un igloo di ombrelli rotti circondato da un’aureola di mosche mentre l’agosto delle ferie e del relax si affaccia alla porta.
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