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L’assoluzione di Cappato e Mina Welby, un escamotage per legalizzare l’eutanasia?

Davide Trentini nel 2017.

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Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 28/07/20
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Suicidio assistito di Davide Trentini: il mondo cattolico protesta per la sentenza della Corte d’Assise di Massa Carrara

Assoluzione come era già accaduto per dj Fabo. Anche se Davide Trentini, 53 anni, malato di sclerosi multipla da quanto ne aveva 27, non era tenuto in vita da macchinari come Fabiano Antoniani ma pur sempre, per la difesa, era sottoposto a trattamento di sostegno vitale per le cure farmacologiche che doveva seguire e per l’assistenza specifica di cui aveva bisogno per sopravvivere.

Marco Cappato e questa volta con lui anche Mina Welby, non commisero reato quando aiutarono – il primo economicamente attraverso l’associazione Sostegno civile, la seconda accompagnandolo in Svizzera a morire col suicidio assistito in una clinica di Basilea.

Era il 13 luglio 2017: il giorno dopo Cappato e Welby, rispettivamente tesoriere e copresidente dell’associazione Luca Coscioni, si presentarono ai carabinieri di Massa (Massa Carrara), la città di Trentini, per auodenunciarsi, facendo partire il procedimento penale che ha portato alla loro assoluzione, sia per l’accusa di istigazione al suicidio sia per quella di aiuto al suicidio, da parte della corte d’assise di Massa (Ansa, 27 luglio).

Marco_Cappato

Wikipedia

Marco Cappato.

La richiesta del pm

«Il fatto non costituisce reato». Non è stato «aiuto al suicidio». È stato qualcos’altro, che in Italia ancora non trova un nome e una via legale.

Nell’aula della Corte d’Assise di Massa Carrara, il pm Marco Mandi aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi. Ma l’aveva fatto, codice alla mano, pronunciando queste parole: «Chiedo la condanna con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare».

La tesi di Cappato

Prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, Marco Cappato aveva rilasciato una dichiarazione spontanea: «Abbiamo fornito un aiuto innegabile in assenza di qualunque parametro di legge. Abbiamo aiutato Trentini in base ad un dovere morale e lo rifarei esattamente nello stesso modo. Alla corte vorrei ricordare che, dalla morte di dj Fabo e di Trentini, altre decine di persone si sono recate in Svizzera per il suicidio assistito e le autorità italiane ne sono state informate da quelle elvetiche. Nessun procedimento penale, però, si è aperto. Quelle persone non hanno avuto bisogno di noi, perché avevano i soldi per farlo. Ma questo non può essere il discrimine tra malati che soffrono».

Non può esserci differenza fra chi si può permettere l’ultima scelta e chi no, questo sembra confermare la sentenza.

DJ FABO

associazionelucacoscioni.it

Dj Fabo, caso di "suicidio assistito", che ha diviso l'opinione pubblica.

Il pronunciamento della Corte Costituzionale

Su questa sentenza incide il pronunciamento della Corte Costituzionale del 2019, che così ha stabilito:

«Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (La Stampa, 27 luglio).

Le condizioni per l’assoluzione

Con questo provvedimento, l’assistenza al suicidio non può essere punita quando il malato che la chiede: è tenuto in vita da presidi di sostegno vitale, è affetto da una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche da lui ritenute intollerabili, ancora è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, e già è stato inserito in un ciclo di cure palliative. Condizioni tutte presenti in Trentini, a eccezione – almeno così sembrava – di una sostanziale: la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, come per esempio la ventilazione assistita.

Ed era proprio su questo aspetto che si era concentrato il consulente di parte, l’anestesista Mario Riccio, salito alla ribalta nel 2006, quando aveva staccato i macchinari a Piergiorgio Welby: per lui, la terapia farmacologica (contro i dolori e gli spasmi) e meccanica (per l’evacuazione delle feci) costituivano una terapia di sostegno vitale, in grado dunque di determinare l’assoluzione degli imputati (Avvenire, 27 luglio).

L’attacco di Tempi: questa giustizia fa paura

Il mondo cattolico come ha risposto alla sentenza Trentini? In modo più “timido” del solito. Ad eccezione di pochi giornali, per ora le reazioni sono centellinate.

Scrive Tempi.it (28 luglio): «Trentini non dipendeva da macchinari per vivere, ma è bastata la consulenza di parte dell’anestesista Mario Riccio (lo stesso implicato nel caso Welby) per affermare che terapia farmacologica e meccanica fossero terapie di sostegno vitale e così aggirare le limitazioni della Consulta. Voilà, il gioco è fatto e c’era da aspettarselo. Ma ciò che colpisce maggiormente è, ancora una volta, il superamento delle leggi in nome non del diritto, ma di un leggiadro e vaporoso riferimento a qualcosa di impalpabile: il “nobile intento”, appunto, che non è un atto, un fatto, ma un proponimento, un’aspirazione. Come si misura un intento? Chi è il giudice degli intenti? Di una giustizia così c’è da avere paura».

La fede del “secondo me” di Mina Welby

Il giornale cattolico interviene duramente anche su Mina Welby che aveva ribadito di aver agito in nome della propria fede cattolica.

«Non è la prima volta che Mina Welby fa riferimento alla sua fede cattolica per giustificare i suoi atti – ribatte Tempi – Anche la madre di Trentini in un’intervista al Corriere spiegò di essere «cattolica praticante» e di sostenere la scelta del figlio. Curioso. Curioso che in un mondo dove nessuno parla della propria fede per spiegare i propri atti, gli unici a rivendicarla sono coloro che compiono azioni in aperto contrasto con la fede che dicono di professare. Come la giustizia è diventato un “secondo me”, a prescindere da tutto, così anche la fede si è ridotta all’impeto dei propri soggettivi sentimenti, a prescindere da quel che recita il quinto comandamento, l’insegnamento della Chiesa, il catechismo. Anche di una fede così c’è da avere paura».

Avvenire: la smania di assolvere ad ogni costo

Per Avvenire (28 luglio) «le abbiamo chiamate così tante volte “sentenze creative” che la cosa sembra non avere più senso. Bisogna forse cominciare a parlare di strategia per la “creazione di sentenze” con stesso letale fine ideologico». Così pure nel caso Trentini.

«La legge – scrive il quotidiano della Cei – fissa un principio (qui che il suicidio è tragedia da non incentivare), la Consulta indica i limiti interpretativi della norma, eppure spunta sempre qualche giudice che svuota la legge e smonta anche i paletti della Corte costituzionale. La smania di condannare è madre di ingiustizia, come la smania di assolvere a ogni costo».



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