Una meditazione sul momento storico che stiamo vivendo: la pandemia ha segnato la nostra vita sociale e comunitaria, ma Dio ci dona tanti segni di speranza.
Di Massimo Camisasca
La pandemia causata dalla diffusione del Covid-19 è piombata su di noi come una realtà imprevista, imprevedibile e generalizzata che ha trasformato dal profondo tutte le nostre giornate e le abitudini della nostra vita, fino a toccare alcuni aspetti del nostro rapporto con Dio.
La storia personale dell’uomo e la vita quotidiana generalmente sembrano procedere più o meno allo stesso modo. Ma ad un certo punto un evento, grande o infinitesimale, può cambiare completamente tutto e determinare una trasformazione che può necessitare anche di anni per essere compresa e metabolizzata.
Il Coronavirus ha fatto emergere con forza la paura che già da tempo dominava il nostro clima spirituale e sociale. La crisi economica iniziata nel 2008 aveva già disseminato molte tensioni, così come la grande trasformazione antropologica avvenuta soprattutto negli ultimi tre decenni ha messo in discussione l’essere uomo e l’essere donna, la vita delle famiglie, il valore stesso del “far famiglia”. La profonda incertezza su ciò che è bene e ciò che è male è stata evidenziata ed accentuata dal diffondersi esponenziale della pratica dell’aborto e dalle numerose considerazioni a favore dell’eutanasia provenienti da più parti. In tutto questo clima di crisi profonda, penetrata perfino dentro la Chiesa, l’epidemia giunge come un nuovo e definitivo tramonto o come un’occasione di rinascita.
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Ciò che sta accadendo rappresenta un richiamo molto forte da parte di Dio a una rilettura della nostra storia personale e collettiva. Egli si mantiene sempre fedele all’alleanza stipulata una volta per sempre nel sangue di suo Figlio. Ma in questi mesi, così come in ogni tornante difficile della storia, Egli ci invita a rispondere al suo amore con una consapevolezza diversa, più profonda. Ciascuno di noi personalmente, ma anche insieme ai propri famigliari e ai membri della propria comunità, è chiamato a rinnovare la propria adesione all’alleanza che Dio sempre ci offre.
Siamo ancora nello stordimento, ancora dobbiamo renderci bene conto di che cosa sia accaduto. Anche la vita ordinaria della comunità cristiana è stata segnata fortemente dall’epidemia. Abbiamo dovuto rinunciare ai nostri incontri e soprattutto alle celebrazioni liturgiche comunitarie che costituiscono il tessuto fondamentale della vita della Chiesa. Abbiamo purtroppo anche assistito a una manifestazione di laicismo da parte di chi ci governa: la giusta preoccupazione di dare ordini rapidi e di ottenere obbedienza ha fatto dimenticare quanto sia importante, proprio in momenti come questi, il legame della popolazione con ciò in cui crede e con coloro che si riconoscono come fratelli. Sono temi su cui dovremo tornare molto presto, anche perché il Coronavirus ci obbligherà a ripensare molte delle espressioni pastorali delle nostre comunità, almeno per i prossimi tempi.
Assieme a tutto ciò non posso però trascurare un elemento assolutamente positivo: le nostre comunità hanno dato prova di un’immensa creatività di carità e di comunicazione. Le persone, soprattutto quelle più sole, sono state cercate sia per rispondere ai loro bisogni materiali che a quelli spirituali. Si sono annodate reti di preghiera quotidiana e festiva, sono state create consuetudini di supporto spirituale attraverso l’espressività dei social. Questi ultimi hanno vissuto una conversione significativa nel loro uso. Dobbiamo comunque sempre ricordare che la Chiesa è un fatto materiale e spirituale, e non potrà mai essere un fatto virtuale. Ma soprattutto, ciò che mi ha impressionato è stato il riapparire della preghiera pubblica, in questo momento paradossalmente così privato. Pensiamo all’eco che ha avuto la preghiera del papa nella piazza San Pietro deserta. E il risorgere della preghiera può essere l’inizio del risorgere di una comunità.
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