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Vi sentite molto umili? Potreste essere molto superbi!

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 22/07/20
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Talvolta ci viene da pensare che “a tutto c’è un limite, anche all’umiltà!” (di solito quando cerchiamo scuse per i nostri atti di superbia). Potremmo però scoprire che ci sono effettivamente importanti sfumature comprendenti perfino una “santa superbia” e una “falsa umiltà”. Ci lasciamo guidare da alcuni grandi cristiani dell’evo antico (Paolino di Nola), medievale (Tommaso d’Aquino) e moderno (Garrigou-Lagrange).

Per grazia di Dio, però,
sono quello che sono,
e la sua grazia in me non fu vana.

1Cor 15,10

Vi siete mai trovati spiazzati davanti alla questione dell’umiltà, cioè di cosa essa sia veramente, di come la si viva autenticamente e in pienezza; e poi se abbia dei limiti, se in certi casi sia opportuno non servirsene o meglio perseguirne la virtù secondo forme differenti (e quali siano tali casi)?

Le “litanie dell’umiltà” di Merry del Val: un testo estremo

Confesso che talvolta il trovarmi di fronte a scritti come le famose Litanie dell’umiltà mi ha posto il dilemma: se umiltà è “desiderare che gli altri siano più considerati di me”, e anzi perfino “desiderare che diventino più santi di me (purché io lo diventi quanto posso)”, chiaramente la strada è lunga e sto un bel pezzo indietro.


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In parte giova ricordare che Rafael Merry del Val, autore di quel testo estremo, nacque da un marchese e fu un ecclesiastico di altissimo rango, che giunse anzi a occupare il secondo posto nella gerarchia di giurisdizione della Chiesa Cattolica (quello del Segretario di Stato Vaticano): essere umano privilegiatissimo dalla natura, dalla grazia e dalla società, Merry del Val avvertiva il rischio di montare in superbia come uno tra i più costanti e tra i più virulenti della sua vita; donde si spiega la forza con cui egli si dava ad “agere contra”.


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Anche un altro ecclesiastico, parecchi secoli prima, era nato in una famiglia aristocratica e di lì era assurto tra i protagonisti assoluti della gerarchia ecclesiastica coeva: parlo di Paolino, figlio del prefetto di Aquitania che, giovanissimo senatore, si convertì per amore della moglie Therasia (di Barcellona) e approfondì la fede in seguito alla morte del figlio neonato, fu poi ordinato sacerdote a furor di popolo e allo stesso modo – quando con la moglie aveva fondato due monasteri a Nola – venne consacrato vescovo. In quello stesso anno (il 410), mentre i visigoti completavano la loro storica incursione in Italia, si offrì in riscatto per un ragazzo prigioniero e divenne schiavo, ottenendo tempo dopo il riscatto proprio e dei suoi fedeli.

Paolino da Nola tra “santa superbia” e “falsa umiltà”

Nella scarsa cinquantina di lettere che il suo epistolario ci conserva troviamo contatti con Ambrogio, Agostino e Girolamo, dei quali fu amico personale. C’è una lettera dell’epistolario, invece, che non è indirizzata a questi immensi personaggi, bensì al più oscuro “Amando”, un prete di cui si sa poco ma che tra le righe sembra essere stato il catechista o addirittura il padrino di battesimo di Paolino. Pare di poter capire, da quel che resta del carteggio, che Paolino avesse notificato ad Amando le proprie rimostranze perché – avendo ricevuto da Delfino (il vescovo che aveva battezzato Paolino) una lettera di consultazione teologica – il Nolano non si sentiva all’altezza di istruire chi lo aveva illuminato alla vita nuova: «Come potrò dare a lui il mio sale – scrive Paolino –, io che da lui l’ho ricevuto?».



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Mentre i due vescovi gareggiano in umiltà, insomma, alla fine il giovane cede alle richieste del vecchio ed espone i suoi pensieri. C’è un paragrafo assai bello di questa lettera che merita di essere riportato per intero, è il settimo.

[…] Per questa ragione veniamo istruiti dalla passione e dalla risurrezione del Signore non solo alla speranza e alla fede della risurrezione, ma veniamo resi capaci di morire non soltanto mediante la dissoluzione della carne, bensì anche per il volontario rigetto della mondanità, di modo che morendo nella fede a questo mondo veniamo vivificati da e per Dio.

Una vita amica di questo mondo, infatti, è la morte dell’anima. Perciò l’Apostolo ci dice: «Mortificate le vostre membra sulla terra» (Ef 2,14). Ogni giorno egli attesta di sé che sta morendo, «lasciando illividire il proprio corpo, dimentico delle cose che ha ormai alle spalle e protendendosi alle più importanti, che ha di fronte» (Rom 7,21). E così facendo ci ammaestra in ugual misura sull’umiltà e sull’onore: poiché non si può dominare il corpo senza l’umiltà dello spirito, né l’anima può elevarsi alle cose celesti senza la mortificazione delle membra. E tuttavia anche nella stessa umiltà occorre che manteniamo una misura, perché non ci umiliamo se non per il timore di Dio e davanti al solo Signore: «Adorerai – infatti – il Signore tuo Dio e soltanto a lui servirai» (Deut. 6,13.10,20).

E servire lui è la libertà: infatti a nessuno è soggetto colui che solo a Dio si sottomette (cf. Rom 8,20); al contrario è servo di ogni più piccola cosa – che siano entità spirituali o altre creature, o ancora i suoi vizî e le sue cupidigie – chi vuole affrancarsi dalla giustizia. Esiste infatti una santa superbia, così come esiste un’umiltà ingiusta: è infatti giustificata la superbia che si ritiene migliore della mondanità e la disprezza, e si dichiara indisponibile a tutti i potentati e ai magnati di questo mondo (cioè rifiuta di lasciarsi utilizzare), intenta com’è alle cose celesti e soggetta ai precetti divini; e per contro è condannata quell’umiltà che non viene dalla fede ma che s’insinua nelle anime degli uomini a partire dall’ignavia, e che si cura dei favori umani più che della propria salvezza – serva della menzogna, nemica della verità, ignara della libertà, rea d’iniquità per il suo mescolare l’acqua col vino, cioè annacquando nell’adulazione il vino puro della verità.

Mi pare che a siffatta umiltà si riferisca anche quella parola scritturistica che dice: «Guai a chi chiama male il bene e dolce l’amaro» (Is 5,20) e proclama giuste le cose ingiuste: tutta gente che anche mediante i libri sapienziali [nel testo “Salomone”], come sai, la Verità disprezza.

Paul. Nol., ep. XII,7 (PL 61, col. 204)

Garrigou-Lagrange e “la vera natura dell’orgoglio”

Sulla falsa umiltà c’è poi una pagina novecentesca che mi pare altrettanto degna di nota: scritta quindici secoli dopo la lettera di Paolino ad Amando, fa parte di una grande opera di ascetica del domenicano francese Réginald Garrigou-Lagrange (anch’egli, guarda caso, proveniente da famiglia aristocratica). Era il 1938 quando vedeva le stampe il primo volume de Le tre età della Vita Interiore (il secondo sarebbe stato pubblicato l’anno scorso). L’undicesimo capitolo della seconda parte di quel primo volume è dedicato a “Come guarire dall’orgoglio (ossia le sue differenti forme)”, e la sua prima pagina risulta luminosa in merito alla domanda che ci siamo proposti, perciò ne approntiamo una traduzione integrale.

Per conoscere la vera natura dell’orgoglio è anzitutto importante notare che si tratta di un peccato dello spirito, in sé meno vergognoso, meno avvilente, ma più grave – dice san Tommaso1 – dei peccati della carne, perché ci allontana maggiormente da Dio. I peccati della carne non troverebbero posto nel demonio, che s’è irrimediabilmente perduto a causa dell’orgoglio. La Scrittura dice a più riprese che «l’orgoglio è il principio di ogni peccato»2, perché evacua l’umile sottomissione e l’obbedienza della creatura a Dio. Il primo peccato del primo uomo fu un peccato di orgoglio3: il desiderio della conoscenza del bene e del male4, per potersi gestire da sé senza dover obbedire ad altri. Per san Tommaso5, l’orgoglio è più di un vizio capitale, è la fonte dei vizî capitali, e particolarmente della vanagloria, che ne è uno tra i primi effetti.

In diversi si sbagliano, almeno praticamente, sulla vera natura dell’orgoglio, e possono quindi approvare, anche senza volerlo, la falsa umiltà, che è una forma nascosta di orgoglio, più pericolosa di quando esso si manifesta e diventa ridicolo.

La difficoltà che si trova nel determinare con esattezza la vera natura dell’orgoglio viene dal fatto che esso si oppone non soltanto all’umiltà, ma anche alla magnanimità, che talvolta viene confusa con esso6. Dobbiamo essere attenti a non confondere sul piano pratico la magnanimità degli altri con la superbia, né la nostra pusillanimità o timidezza con la vera umiltà. E qualche volta è necessaria l’ispirazione del dono del Consiglio per discernere con cura queste cose sul piano pratico, per vedere come l’anima veramente umile deve essere magnanima, e in cosa la falsa umiltà si distingua da quella vera. I giansenisti videro una mancanza di umiltà nel desiderio di comunione frequente.

San Tommaso, che fu molto umile e magnanimo, determinò benissimo la definizione esatta di queste due virtù, che devono unirsi, e quella dei difetti che sono ad esse contrarie. Egli definisce l’orgoglio come “l’amore disordinato della nostra propria eccellenza”. Infatti il superbo vuole sembrare superiore rispetto a ciò che è realmente: c’è della falsità nella sua vita. Questo amore disordinato della propria eccellenza si trova in quella parte della sensibilità che si definisce irascibile, laddove esso verte su beni sensibili (come ad esempio in colui che s’inorgoglisce della propria forza fisica); esso è nella volontà quando verte su beni di ordini soprasensibile, come ad esempio l’orgoglio intellettuale e l’orgoglio spirituale. Questo difetto della volontà suppone che la nostra intelligenza consideri più del debito i nostri proprî meriti e le insufficienze altrui, che essa esageri per elevarci al di sopra degli altri.

Questo amore della nostra propria eccellenza è detto disordinato nel senso che esso è contrario alla retta ragione e alla legge divina. Esso si oppone direttamente all’umile sottomissione della creatura defettibile e difettosa davanti alla grandezza di Dio. Esso è molto differente dal legittimo desiderio di grandi cose conformi alla nostra vocazione. Un soldato magnanimo può e deve desiderare la vittoria per il proprio Paese senza che in questo ci sia dell’orgoglio. Mentre l’orgoglioso desidera immoderatamente la propria eccellenza, il magnanimo si consacra a una grande causa, superiore a lui, e accetta in anticipo tutte le umiliazioni per giungere a quel che per lui è il compimento di un grande compito.

L’orgoglio è quindi, come dice sant’Agostino7, un amore perverso della grandezza; esso ci porta a imitare Dio al contrario, non supportando l’uguaglianza dei nostri simili e volendo imporre loro il nostro dominio, invece di vivere con loro in un’umile sottomissione alla legge divina8.

La superbia si oppone così più direttamente all’umiltà che alla magnanimità; quanto alla pusillanimità, è alla grandezza d’animo che essa di oppone più direttamente.

Anzi, mentre l’umiltà e la magnanimità sono virtù connesse che si completano e si equilibrano come le due curve di un’ogiva, l’orgoglio e la pusillanimità sono vizî contrari fra loro, come la temerità e la viltà.

Stando a quanto abbiamo appena detto, si comprende che l’orgoglio è un velo, una benda stretta sugli occhi dello spirito. Esso ci impedisce di vedere la verità, soprattutto quella relativa alla grandezza di Dio e all’eccellenza di quanti ci sono superiori. Esso ci impedisce di voler essere istruiti da loro o ci porta a non accettare una direzione che discutendo. L’orgoglio depotenzia la nostra vita come si può depotenziare una molla: esso ci impedisce di chiedere luce a Dio che, da sempre, nasconde ai superbi la propria verità. L’orgoglio ci allontana quindi dalla conoscenza affettiva della verità divina, dalla contemplazione, alla quale invece l’umiltà dispone. Donde la parola del Salvatore: «Ti rendo grazie, o Padre, per il fatto che hai nascosto queste cose ai sapienti e agli scaltri e le hai rivelate ai piccoli». Quel che più allontana dalla contemplazione delle cose divine è l’orgoglio dello spirito. In questo senso san Paolo ha detto: «La conoscenza gonfia, la carità invece edifica».


1) S.Th. I’ II”, q. 73, a, 5.

2) Sir, 10,15.

3) S.Th. I’ 11″, q. 84, a.’s; 89, a. 3, ad 2, et q. 163, a. I.

4) Gen, 3,5-6.

5) S.Th. II’ 11″, g. ‘Ga, a. 8, ad C.

6) Ivi, a.

7) De Civitate Dei XIV,13: «Superbia est perversæ celsitudinis appetitus».

8) Ivi, XIX,12.

Non posso dire che padre Garrigou-Lagrange sia uno dei miei autori preferiti, se non altro perché una delle missioni che si diede fu proprio contrastare teologicamente alcuni dei miei autori preferiti: e tuttavia non ho mai letto una sua pagina senza restarne profondamente edificato, e lo stesso magistero di Giovanni Paolo II, che del domenicano francese fu allievo, testimonia come ancora una volta (si pensi all’antica rivalità fra Bonaventura e Tommaso) l’abbraccio della Chiesa sappia far convergere quel che in certi contesti sembrava divergere insanabilmente.

La mediocrità superba, novità dell’evo moderno

Questa pagina resta tra le più luminose a me note, almeno sul versante ascetico-spirituale: l’orgoglio è un virus dell’anima che si replica con una certa costanza – onde Paolino, Tommaso e Réginald ci offrono utili riscontri – ma che pure si adatta alle epoche assecondandone le temperie culturali. Far insuperbire un uomo dotto resta sempre, per il Nemico dell’umana natura, una grande occasione, perché un uomo dotto e superbo allontanerà molti dalle verità che conosce col suo tratto sgradevole e svierà quanti lo seguono dall’adesione intima alla verità (tolta la quale essa resta un vacuo flatus vocis).


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Il Nemico ha però agio, nel nostro «secol superbo e sciocco», a cui «argomento di riso e di trastullo / son dottrina e saper» (Leopardi), di praticare su scala globale un’attività finora difficilmente pensabile, ossia il disprezzo sistematico di ogni vera conoscenza e l’irrisione aprioristica di ogni autorità. Il che significa, alla lettera, di ogni possibilità di crescere. Gli uomini cercano allora i proprî guru tra degli influencer che ne sappiano appena un pelino più di loro, così da poter agevolmente proiettare la propria mediocrità su “quelli che ce l’hanno fatta” (a imporsi sugli altri), e al contempo rigettano come “cervellotici” e “superbi” quanti li soverchiano con una preparazione meno dozzinale. La ricaduta sul versante pratico a cui guardavano Tommaso e padre Réginald è uno spaventoso e necrotico regresso delle personalità e della civiltà.

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