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La pagina con cui san Giovanni illustra il senso della sofferenza

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 16/07/20
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«Questo dolore ti purificherà», ci diciamo talvolta nei momenti di fatica, ma su quali basi? Chiaramente è il sacrificio di Cristo che rende strumento di redenzione quel che sarebbe di per sé solo mutilazione esistenziale, e per descrivere questa mistica dinamica il Messia e il suo evangelista più alto hanno utilizzato e trasmesso l’immagine della vite e dei tralci.

Vi è mai capitato di leggere tutto di seguito (senza neanche badare alla divisione in capitoli e ai titolini rossi – entrambi redazionali) il Vangelo secondo Giovanni? Se sì, non avete mai avuto un sobbalzo nel passaggio da Gv 14,31 a 15,1 – che per l’appunto sono frasi immediatamente attigue, che nei manoscritti antichi sono cioè disposte una di seguito all’altra senza alcuna interruzione (spesso neanche lo spazio, figuriamoci il punto o l’interruzione di linea e di paragrafo!)?

…ma perché il mondo sappia che io amo il Padre e che come il Padre mi ha ordinato così io faccio. Alzatevi, andiamocene di qui. Io sono la vera vite e il mio Padre è il contadino…

Non vi sembra strano? Gesù ha appena finito un lungo monologo sull’amore del Padre e sull’obbedienza, cominciato nel contesto della lavanda dei piedi (la quale avviene «a cena terminata», stando a 13,2) e che occupa quasi interamente le diverse pagine che costituiscono (oggi) i due capitoli 13 e 14; torna dunque a dare un’ingiunzione – «alzatevi, andiamocene di qui» – che sembra dover restituire la parola al narratore… E invece subito Gesù torna a parlare, aprendo un altro lungo discorso: «Io sono la vera vite…». Mi viene spontaneo immaginarmi i discepoli che già si stavano alzando e che si guardano sorpresi, incerti sulla condotta più opportuna da tenere: «Che facciamo? – si saranno chiesti con occhiate perplesse – Ci risediamo?». Del resto il narratore non ci assicurerà del cambio di scena fino a 18,1, quando sapremo che «Gesù passò coi suoi discepoli oltre il torrente Kedron» (Loisy e Lagrange, tra gli altri, avrebbero pensato che Giovanni rimandasse a 2Sam 15,14.23): dunque dov’è che fu pronunciato il “discorso della vera vite”? In assenza di ulteriori informazioni, nulla ci vieta di immaginare che quelle parole siano state dette da Gesù lungo la strada dal centro di Gerusalemme al fondo del fosso (che in primavera doveva essere a secco o quasi), e che proprio quelle siano il collante del dramma sacro nel variare degli scenarî: del resto non solo Giovanni non ci narra dell’agonia di Gesù nel giardino, ma neppure della sua preghiera e del sonno degli apostoli, e in tal senso la “preghiera sacerdotale” del Messia sembra da un lato completare “l’ultima cena” (che l’evangelista non riporta), dall’altro surrogare al momento di preghiera di gruppo di cui sappiamo dai sinottici (e infatti qui Giuda arriva immediatamente, in 18,2, appena Gesù e gli altri arrivano nel podere).


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Insomma, questa lunga sezione ha caratteri di un “lungo periodo” – è cioè quel che gli esegeti definiscono “una macrosezione” –, e mi ha fatto piacere ripercorrere questi passi e questi passaggi nella riflessione biblica su Connessione e Compassione offerta dal professore gesuita Pino Di Luccio sul prossimo numero de La Civiltà Cattolica, che sarà pubblicato domani.

Di Luccio si concentra su due concetti mutuamente implicati benché non ugualmente estrinsecati nel Quarto Vangelo: di connessione si parla molto, soprattutto in Gv 15 appunto, ma sarebbe frustrante cercare una rispondenza testuale di “compassione” nell’opera teologica che definisce “Ora della Gloria” la stessa Passione di Gesù. Certo che se sciogliessimo questa terminologia mistica dalla sua necessaria concretezza il tutto potrebbe sembrare poco più di un vaneggiamento di sacro furore. E invece

Gesù ha osservato i comandamenti del Padre (e l’amore del nemico), e rimane nel suo amore, in una specialissima e unica relazione di amore reciproco che il Vangelo di Giovanni chiama “glorificazione”.

Pino Di Luccio, Connessione e compassione in La Civiltà Cattolica 4082, 133-139, 135

Poiché poi «in ebraico l’amicizia e l’amico sono espressi con un termine che vuol dire “legare”» (ibid.) ci si dà presto conto di come il rapporto amicale di Gesù con i suoi li inviti ipso facto a condividere il destino di “glorificazione” di Gesù, che consiste in un dono di gratuito amore e che implica in cambio l’essere odiati gratuitamente.



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Tutto ciò rimanda al gesto inusitato della lavanda dei piedi e al “comandamento nuovo”, che però in Giovanni sono l’espressione sia del già noto e menzionato battesimo sia dell’apparentemente assente tema eucaristico. “Apparentemente” perché non solo tutto il capitolo 6 di Giovanni è dedicato al “discorso del pane di vita”, ma la stessa Ora della Gloria e i suoi lunghi discorsi ne sono illustrazione faconda. Non si nomina il calice più volte al centro dell’attenzione dei sinottici, ma si eleva a parabola ciò che quel calice può di fatto riempire, ossia la vite coi suoi tralci, lumeggiando il senso della sofferenza che prepara “il vino nuovo” anticipato misticamente a Cana (Gv 2):

Per i Taragumîm (le traduzioni aramaiche della Bibbia ebraica), il calice nella Bibbia contiene un riferimento alla passione e alla morte. […]

Questo aspetto di passione e di prova, contenuto nel significato del calice […], viene ripreso da Gesù nella similitudine della vite e dei tralci. Il Padre, che è il contadino, toglie dalla vite i rami che non portano frutto, e quelli che portano frutto li “pulisce” perché portino più frutto.

Ivi, 137

Con poche parole, già sostenute dalla densità degli immani e imminenti atti della Teo-Drammatica, la sofferenza umana smette di essere un nonsenso per risultare accolta e trasfigurata nella Gloria:

La similitudine della vite e dei tralci richiama così un significato – quello sacramentale – della lavanda dei piedi, ed è un modo con il quale nel quarto Vangelo viene spiegato il significato (battesimale) delle parole di Gesù sul calice durante l’Ultima Cena dei Sinottici, con la comunione alla sua vita mediante l’unione alla sua passione e alla sua morte.

Ivi, 139

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