L’orso è presente anche nello stemma di papa Benedetto XVI, a ricordo di una lunga storia di belve ammansite dai santi: miracoli di ferocia trasformata in docilità e anche protezione.
Joseph Ratzinger, insospettabile fan degli orsacchiotti, ha reso celebre la leggenda dell’orso di san Corbiniano.
L’animale che campeggia nel suo stemma è, infatti, un riferimento alla leggenda che vede protagonista san Corbiniano, protovescovo di Monaco. In viaggio per Roma, il santo subisce l’attacco di un orso bruno che sbrana il suo cavallo, impedendogli – teoricamente – di proseguire il viaggio. Ma Corbiniano è un santo che non si dà per vinto: decide che, se è stato l’orso a metterlo nei guai, dovrà essere l’orso a risolvere il problema. Ergo: con la massima nonchalance gli carica in spalla il suo bagaglio e riprende il cammino verso Roma, accompagnato non più dal suo fido destriero ma bensì da un orso miracolosamente ammansito.
La leggenda, per l’appunto, è abbastanza nota grazie al modo in cui Ratzinger l’ha divulgata.
Tuttavia, potreste stupirvi nello scoprire che l’amicizia tra san Corbiniano e l’orso non è un unicum nel panorama delle agiografie medievali. Del resto, basterebbe fare una vacanza in Trentino e visitare il santuario di san Romedio per sentirsi raccontare una leggenda quasi identica: in questo caso, l’anziano Romedio si stava dirigendo a Trento per incontrare il suo vescovo, quand’ecco un gigantesco orso sbucare dai cespugli e uccidere il cavallo del sant’uomo. Evidentemente, Romedio doveva aver letto da qualche parte l’escamotage adottato da san Corbiniano, perché fece esattamente la stessa orsa: ordinò all’orso di fargli da destriero – e fu così che si presentò alle porte dell’arcivescovado.
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Se si comincia a collezionare le leggende dei santi che riescono ad ammansire orsi, si rischia di non terminare mai. In molti casi si ha davvero la sensazione che, per mancanza di fantasia o per la volontà di nobilitare una biografia, o, ancora, per fedele obbedienza a una moda religiosa, il “miracolo dell’orso” non potesse mancare nella agiografia di un santo.
Il che in effetti capita e capita di frequente, nelle agiografie antiche e medievali: potremmo tranquillamente dire che l’amicizia tra il santo e l’orso è, a buon diritto, un “topos agiografico”.
Ma i topoi agiografici non si sviluppano per caso: se un certo tema si ripete ricorrente, c’è un motivo per cui gli agiografi decidono di inserirlo a mani basse.
Quale mai possa essere la funzione pedagogica dell’infarcire le agiografie con storie d’orsi ammansiti, cerca giustappunto di spiegarcelo Franchini. Il quale, innanzi tutto, ci tiene a precisare che, nell’immaginario antico e medievale, l’orso non era affatto quell’animale goloso e goffo che noi moderni siamo portati a guardare con simpatia. Al contrario, l’orso era considerato uno dei predatori più famelici e spietati del regno animale. Insomma: dimentichiamoci Winnie Pooh e pure il puccioso Knut – l’orso, nel Medioevo, era un animale che non suscitava alcun tipo di simpatia.
E infatti, i primi santi ad avere a che fare con gli orsi sono proprio i martiri che da quegli stessi orsi avrebbero dovuto essere uccisi.
Nella Chiesa dei martiri, che lottava per affermare la propria esistenza, nasce la prima versione di quello che abbiamo scherzosamente definito il format del “santo e dell’orso”. In origine, i martiri lottavano e morivano per difendere il diritto alla vita della Chiesa e, dunque, l’ammansimento delle belve feroci, in particolare dell’orso (maschio o femmina che fosse) era una pura autotutela dell’esistenza. Forse era anche un agiografico simbolo della supremazia cristiana sulla ferocia naturale delle belve selvatiche e su quella innaturale della grande civiltà romana.
È ad esempio il caso di san Cerbone.
Vescovo toscano del VI secolo, Cerbone fu oggetto di persecuzione da parte del re pagano Totila. Entrato in lotta contro i Goti, che proprio in quel periodo saccheggiavano le terre affidate alla sua custodia, il santo vescovo fu catturato e condannato ad essere sbranato dalle belve.
Dagli orsi, nello specifico.
Ché nel nostro immaginario s’è impressa la scena dei martiri sbranati dai leoni, ma in realtà erano gli orsi ad andar per la maggiore (se non altro per ragioni di… reperibilità).
Ebbene: liberato nell’arena, l’orso si avvicinò quietamente a san Cerbone e cominciò a leccargli affettuosamente i piedi, “per far capire chiaramente a tutti” – commenta Gregorio Magno, “che, verso quell’uomo di Dio, i cuori degli uomini erano feroci e i cuori delle fiere erano invece quasi umani”.
Ma Cerbone non è l’unico santo ad aver scampato il martirio grazie a un orso singolarmente premuroso.
Santa Colomba di Sens viene condannata ad essere violentata nel bel mezzo di un anfiteatro, ma un’orsa interviene per proteggerla mostrando una pietà che evidentemente mancava ai torturatori umani.
Faustino e Giovita moriranno effettivamente, ma dopo svariati tentativi di martirio andati a vuoto. In quello andato peggio di tutti (a volerlo guardare dal punto di vista del persecutore), i due santi ammansiscono gli orsi e altre belve feroci che l’imperatore aveva ordinato di far lanciare contro di loro, sconvolgendo i presenti al punto tale da provocare la conversione di molti – e di santa Afra in particolare.
Non dissimile la sorte dei santi Abdon e Sennen, che, gettati tra le fiere, domano quietamente orsi e leoni. Alla fine, anche loro saranno uccisi, ma non da una belva feroce: a finirli sarà la ferocia, tutta umana, di un gladiatore senza cuore.
E dopo questa breve rassegna, direi che è piuttosto chiara la funzione pedagogica del topos agiografico dell’orso che rifiuta di attaccare un cristiano perseguitato. “Neppure un animale feroce per sua natura era in grado di tollerare un simile abominio”, sembrano dirci in coro gli agiografi. “La natura stessa rifiutò di partecipare all’eccidio dei cristiani; per compierlo, fu l’uomo a doversi abbassare a una ferocia addirittura superiore a quella delle belve”.
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Ma, come Dio vuole, le persecuzioni a un certo punto finirono.
Il Cristianesimo divenne religione ufficiale e passò con decisione al contrattacco, nel tentativo di convertire le masse. Da Roma, l’azione evangelizzatrice dei cristiani si spostò nell’Italia settentrionale e nelle antiche Gallie – e sono proprio queste le aree geografiche in cui il topos agiografico del santo amico dell’orso gode di maggior diffusione.
In assenza di persecutori pronti a scagliare orsi contro i poveri santi, in questo caso sono gli orsi stessi a diventare, involontariamente, “disturbatori”.
Nell’agiografia di san Colombano si legge ad esempio come il pio abate avesse deciso di vivere in una grotta per concedersi un periodo di isolamento. Ma ahilui: la grotta in cui aveva deciso di stabilirsi risultava occupata da un orso.
Lungi dal fare ciò che avrebbe probabilmente fatto qualsiasi persona sana di mente (e cioè: cercarsi un’altra grotta), Colombano prende da parte l’orso e gli ordina di sloggiare. Cosa che l’orso fa senza fiatare, senza importunare oltre il santo monaco.
Vogliamo definirla una metafora di una religione che si afferma in territori barbari e selvaggi? Probabilmente sì, soprattutto se ci soffermiamo su un particolare non di poco conto: per i popoli barbarici stanziati a nord delle Alpi, l’orso era una sorta di “animale totemico” (se mi passate il termine improprio), simbolo di forza e di potenza. Una potenza che, tuttavia, si piega dolcilmente di fronte a un monaco inerme.
Un aneddoto simile a quello di san Colombano si ritrova anche nell’agiografia di san Gallo. In questo caso, il religioso sta costruendo un eremo in un territorio che – ahinoi – si rivela essere terra di caccia di un orso tra i più feroci. Senza lasciarsi minimamente intimorire, san Gallo ordina all’orso di andare a cacciare da un’altra parte (o addirittura – secondo testi più tardi – lo trasforma in bestia da soma, caricandogli sulla schiena il legname che serviva per la costruzione). Esclama uno dei suoi discepoli, assistendo alla scena: “ora so che il Signore è davvero al tuo fianco, se persino gli animali della foresta obbediscono alla tua parola!”.
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Lo stupore del discepolo ci introduce alla terza sfumatura che assume, col passar del tempo, l’amicizia tra il santo e l’orso.
Nel momento in cui le persecuzioni sono solamente un ricordo lontano – e nel momento in cui l’evangelizzazione d’Europa si è compiuta – l’innaturale mansuetudine di un animale selvatico, normalmente noto per la sua voracità, assume il valore di miracolo puro e semplice.
Ad esempio, è indubbiamente miracoloso l’episodio occorso ai pellegrini che si erano smarriti nei boschi tentando di raggiungere l’abitazione di san Severino l’eremita. D’un tratto, un orso maestoso balza di fronte a loro: potrebbe essere l’incipit di una tragedia e invece è un segno della celeste benevolenza. L’orso, docile, guida i pellegrini fino alla casa del religioso, per poi sparire.
Legato a un eremita da rapporti di buon vicinato è anche l’orso che prende in simpatia san Serafino da Sarov (vissuto peraltro in epoche a noi vicine: è morto nel 1833!). Eppure, anche questa agiografia tarda si sofferma sulla innaturale benevolenza che le feroci belve del bosco avevano sempre mostrato verso l’eremita che lì viveva. Come non interpretarlo come un segno di particolare grazia?
Ma torniamo ad epoche più antiche. Spostiamoci dalle parti della Repubblica di San Marino, nella quale san Marino si sta giustappunto affaticando per gettare le fondamenta della città. Aridanghete: un orso uccide il mulo che Marino usava per trasportare i mattoni.
Per nulla impressionato dagli eventi, il santo ordina all’orso di prendere il posto del mulo. Grossomodo, lo stesso ordine che san Rustico, in un’altra agiografia, rivolgerà al bestione che aveva sbranato un bue al quale occorreva far trasportare il carro funebre del defunto san Vincenziano. E fu così che il santo fu trasportato al suo luogo di sepoltura da un orso legato al basto, mortificato per la malefatta.
Esecrabile la situazione vissuta dai santi Martino e Massimino, nel corso di un viaggio verso Roma. Esecrabile, ma non nuova alle nostre orecchie: alzandosi un bel dì, i due santi uomini scoprono che un orso ha sbranato i loro destrieri. Niente affatto intenzionati a rinunciare al viaggio, i due costringono l’orso a trasportare i bagagli fino alla Città Eterna. E – come nota Roberto Franchini –
nasce proprio con Martino di Tours e Massimino di Treviri, nel IV secolo, un modulo narrativo che Corbiniano renderà tanto famoso. Ma solo quattro secoli dopo.
Anche se, tra tutti gli esempi che ci consegnano le agiografie, l’amicizia santo-orso che io preferisco è quella che lega sant’Aredio di Gap al suo orso da compagnia.
L’incontro iniziale è turbolento come da copione: il vescovo è in viaggio per Roma; l’orso sbrana la sua cavalcatura; il santo lo costringe a portare il suo bagaglio e poi si fa pure riaccompagnare a casa nel viaggio di ritorno, giusto per chiarire chi comanda.
Sennonché, tra il vescovo e l’animale deve scattare un certo feeling. Racconta l’agiografia che l’orso resterà al fianco del suo amico fino alla morte del santo, comparendo persino davanti alla chiesa nel giorno del suo funerale: una specie di Hachiko ante litteram. E come se non bastasse, l’orso si presenterà di fronte alla chiesa ogni anno nel giorno dell’anniversario della morte del santo, per onorare la memoria del suo amico tanto amato.
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Scherzando, io amo dire che l’orso di sant’Aredio è stato il primo orsacchiotto da compagnia di cui la Storia abbia memoria.
Ovviamente non è vero, ma mi piace crederci: se gli orsi del 2000 si sono trasformati in animaletti pucciosi che cullano nel sonno i nostri bimbi e regalano cioccolatini a San Valentino, ciò è chiaramente merito delle generazioni di santi che li hanno pian piano evangelizzati rendendoli animali migliori.
Il mio orso-Papa dice di trovarla una teoria plausibile, per quel che vale. Anche se forse lui è un po’ di parte.
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