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La nostra cultura usa peccato come sinonimo di piacere e bellezza

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PEPEONLINE - pubblicato il 14/07/20
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Da quando abbiamo peccato nei nostri progenitori viviamo una frattura tra materia e spirito e tra apparenza e vera bellezza. Nella presenza di Cristo soltanto avviene la definitiva ricomposizione e il compimento di questa unità: ciò che è bene è bello, ma passando attraverso lo scandalo della croce.Di Giovanna Jacob

Una volta il peccato in tutte le sue forme appariva scandaloso (non a caso, “dare scandalo” significa letteralmente esibire in pubblico determinati peccati, in primo luogo quelli di carattere sessuale). Invece, oggi è il concetto stesso di “peccato” a suscitare scandalo. Per la cultura contemporanea niente può essere considerato peccato in quanto nulla può essere vietato all’uomo.  Più in generale, la cultura contemporanea ammette il termine “peccato” solo come sinonimo di piacere e perfino di bellezza. Ad esempio, nel linguaggio pubblicitario le espressioni “peccati della gola” e “peccati della carne” hanno tutto fuorché una connotazione negativa. Per quanto riguarda l’arte, oggi l’aggettivo “scandalosa” riferito ad un’opera d’arte (cinematografica, letteraria, teatrale eccetera) è quasi sempre sinonimo di “bella”. Evito di fare l’elenco dei film semi-pornografici che hanno entusiasmato critica e pubblico dei festival cinematografici perché sarebbe troppo lungo.

Se la cultura contemporanea associa il concetto di peccato al concetto di piacere, invece una certa cultura cattolica associa il concetto di virtù al concetto di dovere senza piacere ed inoltre separa il concetto di bene dal concetto di bello. Ma siamo seri: chi preferisce il dovere al piacere? Chi preferirebbe una virtù intesa come puro dovere ad un peccato inteso come fonte di piacere?  Quindi, una debole cultura cattolica incentrata su un astratto dovere ha poche possibilità di contrastare efficacemente la diffusione di una cultura edonista, che esalta specialmente i peccati della carne.



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La condizione fondamentale per combattere contro la cultura edonista e permissiva è ricomporre la frattura culturale fra etica ed estetica ed anche fra etica ed edonismo. Si tratta infatti di fratture dolorose, che contraddicono la natura profonda dell’essere. A livello spirituale, il bello è l’apparire del bene e il brutto è l’apparire del male. Parallelamente, per quanto possa sembrare scandaloso a certi cattolici, inconsapevolmente impregnati di anti-edonismo puritano, a livello spirituale il bene è intrinsecamente piacevole, dal momento che è orientato al “sommo piacere” (Paradiso XXXIII, 33). Come il bello è l’apparire del bene, così il brutto è l’apparire del male. Contrariamente alle apparenza, nel male non c’è nulla di bello e di piacevole. Peccare non significa semplicemente contraddire una norma astratta ma distruggere qualcosa di bello. E’ come appiccare il fuoco in un giardino meraviglioso oppure fare a pezzi con l’accetta una grande opera d’arte. Anzi, peccare è come sfregiare il proprio volto, rendersi brutti e ripugnanti. Purtroppo, basta una parola cattiva per rendersi brutti. Per fortuna, basta pentirsi davanti al confessore per tornare belli.

Dunque, a livello spirituale il bene è bello e piacevole mentre il male è brutto e spiacevole. Ma abitiamo nel mondo materiale, non nel cielo dello spirito. Certamente non possiamo accogliere l’idea gnostica e catara che la materia sia intrinsecamente “cattiva” e fonte di ogni male. Per chiarirci, la radice ultima del male è tutt’altro che materiale: il diavolo è puro spirito. Tuttavia, sappiamo che il peccato originale ha prodotto una frattura fra spirito e materia. Pure non essendo intrinsecamente cattiva, la materia in qualche misura offusca, “disturba” – come le interferenze disturbano un segnale radio – la manifestazione del vero, del bene e del bello, che sono realtà spirituali (“universali” nel linguaggio tomista).  Ad esempio, la bellezza di un dipinto antico può essere offuscata dalla sporcizia dei secoli e dal degrado dei materiali. Più prosaicamente, le macchie possono imbruttire irrimediabilmente un bel vestito. Analogamente, anche se conosciamo perfettamente l’unica e immutabile idea di bene, non è mai facile capire che cosa è giusto fare in ogni circostanza materiale, dal momento che ogni circostanza è diversa dall’altra.

Dunque, la materia non ostacola ma comunque offusca in qualche misura l’apparire degli “universali”. Ma consideriamo soltanto l’universale bene. Oltre a non manifestarsi sempre chiaramente in ogni materiale circostanza, il bene non appare sempre come bellezza. Cristo, Dio fatto uomo, non può che essere “il più bello dei figli dell’uomo”. Ma il profeta Isaia ci avverte: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere» (53,2). Cristo è bellissimo ma la sua bellezza non appare mai in tutto il suo splendore. Durante la Passione, appare addirittura sfigurata. Il corpo di Cristo appare devastato dalle ferite e dai segni delle percosse, le espressioni di sofferenza tolgono grazia al suo viso.

La Passione e la Morte di Cristo insegnano che la sofferenza è la condizione misteriosa dell’amore. Non può esserci amore senza sacrificio e non può esserci sacrificio senza dolore. Non ama veramente chi non è pronto a compiere qualche sacrificio per il bene della persona amata. In generale, fare il bene costa sempre una certa quantità di fatica e sacrificio, ora piccola o piccolissima e ora grande. Come dunque il più bello dei figli dell’uomo diventa “simile a verme” durante la Passione (Cfr. Samo 21 22: «Ma io sono un verme e non un uomo, \ rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. \ Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, \ storcono le labbra, scuotono il capo.»), analogamente i comportamenti virtuosi e le opere buone possono apparire poco piacevoli se non del tutto spiacevoli, quando non gravose. Senza dubbio, usare un po’ del proprio tempo libero per soccorrere i bisognosi non è entusiasmante come andare al cinema o allo stadio.

La fatica e il sacrificio sempre inevitabilmente connessi allo sforzo di fare il bene sono condizione non soltanto dell’amore ma anche della libertà. Se il bene apparisse sempre bello, se in altri termini fare le opere buone fosse sempre piacevole, tutti aderirebbero sempre irresistibilmente al bene e quindi nessuno ne avrebbe il merito. Invece, un atto buon è un atto meritevole proprio perché è difficile.

Dunque il bene può apparire poco attraente, in certi casi addirittura brutto. Simmetricamente, il male può apparire addirittura bello. Ad esempio, la fedeltà coniugale appare meno attraente del libertinaggio, la generosità appare meno seducente dell’avidità. Nel monte del Purgatorio il peccato si presenta a Dante pellegrino nella forma simbolica di una bellissima, seducente sirena. Ma in realtà la sirena è una pura apparenza, quasi una illusione ottica che nasconde una «femmina balba, \ ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta, \ con le man monche, e di colore scialba» (Purgatorio, XIX, vv. 7-9).

Peccare significa propriamente cedere alle lusinghe di una “sirena” ossia ad una apparenza di piacere e di bellezza. Il male può rivestirsi di una apparenza di bellezza, ma la bellezza non appartiene al male, è addirittura incompatibile col male. Il diavolo è “scimmia di Dio”: non può produrre un solo briciolo di bene e bello ma soltanto copie ingannevoli e distorte di essi. Per fare un solo esempio, il numero esorbitante di morti causato dal comunismo prova in maniera chiara e incontrovertibile che il concetto marxista di “giustizia sociale” è una imitazione menzognera, distorta, diabolica del vero concetto di giustizia. Per quanto possa apparire scandaloso ai non pochi cattolici divenuti inconsapevolmente puritani, neppure il piacere appartiene al male in quanto tale. Il tentatore può usare il piacere naturale come esca, ma non può produrlo. Il piacere del peccato è un uso distorto e un abuso del piacere in quanto tale. Ad esempio, la lussuria è un abuso del piacere sessuale, che ultimamente è un dono di Dio all’uomo. Sant’Agostino sottolinea che spesso dietro la lussuria c’è l’amore per la bellezza dei corpi, che come è noto sono ad immagine e somiglianza di Dio. Egli descrive la lussuria come una maniera sbagliata e fallimentare di godere della bellezza dei corpi, che ultimamente allude alla Bellezza assoluta, infinita.  Dal momento che dunque quel vizio deplorevole contiene due giusti amori (l’amore per il piacere sessuale e l’amore per la bellezza dei corpi) sant’Agostino si spinge addirittura a tessere un paradossale elogio della lussuria. Senza concedere la benché minima giustificazione al peccato, il santo elogia l’amore che i lussuriosi hanno per la bellezza dei corpi, invitandoli a liberare questo amore dal vizio carnale che lo imprigiona e a dirigerlo al suo vero oggetto, che è la bellezza di Dio. Analogamente, egli tesse un elogio paradossale della superbia, invitando i superbi a liberare il giusto amore di sé stessi dalla prigione della sopravvalutazione di sé stessi.

Abbiamo visto che su questa terra, paradossalmente, il bene può apparire brutto e il male può apparire bello. In altri termini, fare il male è nell’immediato (solo nell’immediato) più piacevole che fare il bene. Dunque per resistere alla seduzione del male occorre la capacità di riconoscere sempre immediatamente che, al di sotto delle sue seducenti apparenze, il male è brutto, spiacevole, ripugnante. Ma c’è qualcuno che è capace di provare una istintiva ripugnanza del male? Neppure il più integerrimo e fedele uomo sposato riuscirebbe a non sentirsi, suo malgrado, attratto dal peccato di adulterio. E quanto a lungo potrebbe resistere, se fosse tentato ogni giorno, ogni ora, da una donna di eccezionale bellezza? Non solo l’adulterio e la lussuria, ma ogni “vizio capitale” è seducente. Noi possiamo avere mille ottime ragioni per detestare ognuno dei sette vizi capitali, possiamo addirittura scrivere interi trattati contro il peccato, ma non per questo smetteremmo di provare una certa istintiva inclinazione verso uno o più vizi capitali. Questa nostra scarsa capacità di resistere alla seduzione del male ha una causa precisa: il peccato originale. Da momento che ogni uomo ha dentro la ferita del peccato originale, nessun uomo è capace di non commettere mai peccato. Per quanto sia faticoso da ammettere, noi siamo inevitabilmente peccatori. Ma non dobbiamo disperare: Dio ci offre il suo perdono e ci dona la sua grazia, che ci rende sempre meno incapaci di resistere alla seduzione del peccato.

Come si dice, errare è umano, perseverare è diabolico. In altri termini, cedere di tanto in tanto alla seduzione del peccato è inevitabile e quindi scusabile, cedervi sempre e consapevolmente, per partito preso, non solo è inescusabile dal punto di vista morale ma è sconveniente sul piano esistenziale. Infatti, il piacere offerto dal peccato è tanto immediato quanto effimero, non orientato alla vera felicità. Infatti, noi desideriamo certamente tanti piaceri particolari, ma più ancora desideriamo la felicità, che è l’infinito piacere. Dal momento che il peccato offre solo un piacere effimero e illusorio che allontana dalla vera felicità, amare il peccato in quanto tale, sapendolo peccato, è come amare l’illusione sapendola illusione. E’ come drogarsi: per quanto intense e appaganti, la straordinaria eccitazione e le favolose allucinazioni donate dalla droga si disperdono in fretta, lasciandoti più infelice e depresso di prima. Non a caso, Jacques Maritain diceva che la droga è “sacramento di Satana”.

In una scena significativa del film Matrix (fratelli Wachowski, fantascienza, Usa, 1999) il “traditore” Cypher dice all’agente Smith: «Io so che questa bistecca non esiste, so che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo nove anni, sa che cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene». Subito dopo, Cypher (il cui nome allude evidentemente a Lucypher: Lucifero) “vende” Neo (la cui figura allude chiaramente a Cristo) agli agenti di Matrix in cambio della illusione di una vita dorata. Riferimenti evangelici a parte, questa scena pone un quesito interessante: se si tratta di scegliere fra una illusione bella e una realtà triste, perché non bisognerebbe scegliere l’illusione? Per essere più concreti, se la nostra vita è dura, perché non dovremmo drogarci o in alternativa chiuderci per tutta la vita dentro un apparecchio che crea una stupenda realtà virtuale? Su un altro piano, se la pratica del bene è difficile a faticosa, perché non dovremmo preferire il piacere immediato fornito dal peccato? Non è meglio arricchirsi spropositatamente e disonestamente derubando i risparmiatori a Wall Street (in riferimento al film di Martin Scorzese The wolf of Wall Street) piuttosto che vivere onestamente con 2000 euro al mese?

In effetti, a giudicare dall’incremento esponenziale del consumo mondiale del “sacramento di Satana”, al giorno d’oggi molti scelgono l’illusione. Ma l’illusione ha le gambe corte. Per quanto belle e appaganti, i piaceri illusori generati dalla droga o dalla vita dissoluta non ti fanno avvicinare di un centimetro alla vera felicità. Per quanto possa essere dura e spiacevole, è nella realtà che si gioca la partita della felicità. Per “vincerla”, bisogna fare il bene. Ma il Bene, il Vero e il Bello assoluti non sono rimasti in cielo. Dio si è incarnato in Cristo, che entra nella realtà per aiutarci a giocare questa partita. Come si è detto, paradossalmente in questa terra il bene appare spesso meno seducente del male e la bellezza stessa di Cristo non appare subito in tutto il suo splendore. Ma appunto, si tratta solo di apparenze. A lungo andare, se lo si segue portando la propria croce, la presenza di Cristo, che si manifesta attraverso le persone che compongono la sua Chiesa, appare più attraente di qualunque altra cosa o persona al mondo. Capisci che tutto il mondo anzi tutto l’universo è nulla in confronto a lui e allo stesso tempo ti accorgi che la sua presenza illumina ogni cosa che è nell’universo. In sua compagnia, ogni cosa diventa più interessante. Anche un boccone di carne “succosa e deliziosa”, se lo mangi in sua compagnia è più buono.

 

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