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Il manifesto dei liberal contro il politicamente corretto: “Non privateci di un dibattito libero e di un’opposizione anche caustica”

CHOMSKY, ROWLING, RUSHDIE
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Annalisa Teggi - pubblicato il 09/07/20
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“Le cattive idee si sconfiggono con l’esposizione, non mettendole a tacere”: l’esame di coscienza di 150 intellettuali angloamericani, tra cui Noam Chomsky, J. K. Rowling e Salman Rushdie, sulla nuova intolleranza di chi impone il pensiero unico. Una chiara voce di dissenso proprio tra le fila del pensiero culturalmente dominante.Si intitola Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto un documento a firma di 150 prestigiosi intellettuali e pubblicato su Harper’s Magazine. Di cosa si tratta? Lasciamolo dire al testo:

Il libero scambio di informazioni e idee, la linfa vitale di una società liberale, viene sempre più soffocato di giorno in giorno. (da Harper’s Magazine)

Il tema è quello ampio e profondo della libertà di parola, o meglio del valore di un dibattito aperto in una società democratica. Anche se i firmatari hanno provenienze geografiche diverse, il contesto sociale in cui nasce questa lettera è l’America e più precisamente l’orizzonte degli eventi che si è generato, ed è degenerato, in seguito ai movimenti di protesta per la morte di George Floyd. Giuste rivendicazioni sul tema caldissimo del razzismo hanno mostrato il volto violento di una protesta che per le strade riversa la sua furia contro le statue e nei luoghi della cultura esercita una censura cieca (vietato citare certe opere letterarie, messa al bando di film).



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In un paese come gli Stati Uniti questi eventi scuotono alle radici una nazione che fonda, per Costituizione, la propria identità su un atto di indipendenza e sui diritti inalienabili che la persona riceve direttamente dal Creatore («Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità»). È fondamentale ricordarlo perché, per quanto nel tempo possa essersi atrofizzata, questa coscienza che mette vita, libertà e felicità alla base della politica segna irrevocabilmente il volto degli Stati Uniti: il dibattito sulla libertà è e resta un nervo scoperto per il popolo americano, più che ad ogni altra latitudine.

Proprio per questo il documento in questione può, e dovrebbe, destare l’attenzione del nostro paese sul tema, anche da noi caldissimo, della conformità ideologica da cui siamo braccati:

[…] questa resa dei conti di cui c’era bisogno sta anche intensificando un nuovo approccio negli atteggiamenti morali e negli impegni politici che tende a indebolire le nostre norme sul dibattito aperto e sulla tolleranza delle differenze in favore di una conformità ideologica.

La resa dei conti a cui si fa riferimento riguarda gli interventi di riforma sul tema della giustizia razziale e sociale, la cui rivendicazione – giusta in partenza – sta degenerando: i tolleranti sono diventati molto intolleranti e si sono messi a esercitare quelle forme violente di aggressione e censura che essi stessi condannano. Chi ha sentito la necessità di mettere per iscritto questo memorandum? Proprio alcuni esponenti dell’ala democratica di sinistra che hanno sostenuto la protesta anti-razzista e ora si rendono conto di quanto sia pericoloso imporre un regime orientato al pensiero unico senza un’opposizione libera.

Un robusto e perfino caustico diritto di replica

Tra gli autori della lettera ci sono grossi nomi del mondo accademico e culturale: primo tra tutti il linguista Noam Chomsky, c’è poi la scrittrice e femminista Margaret Atwood (suo il romanzo The Handmaid’s Tale a cui si sono ispirate le paladine pro-aborto), c’è la “madre” di Harry Potter J. K. Rowling che di recente è stata sommersa di accuse per aver espresso la propria opionione sulle donne transgender e c’è, non da ultimo, Salman Rushdie il cui celeberrimo libro I versi satanici gli procurò una fatwā di Khomeini.

CHOMSKY, ROWLING, ATWOOD, RUSHDIE

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Nei 150 nomi dei firmatari si raccoglie un panorama vasto di sensibilità e appartenenze religiose e politiche, in gran parte si può dire che la voce dominante sia proprio espressione di quel pensiero democratico di sinistra che prevale nei media americani e vede in Donald Trump il grande e unico nemico. Su questo ci sarebbe quantomeno da discutere, ma non divaghiamo. È proprio interessante che l’esame di coscienza e l’allarme sulla dittatura del pensiero unico venga da queste voci:

Ma se ce lo saremmo aspettati dalla destra radicale, la censura si sta ampiamente diffondendo anche nella nostra cultura: una intolleranza alle visioni opposte, la moda di esporre al pubblico ludibrio o di ostracizzare, la tendenza a dissolvere complessi temi politici in una accecata certezza morale. Noi sosteniamo il valore di un robusto e anche caustico diritto di replica oppositiva da qualunque parte. Ma ora è fin troppo frequente imbattersi negli appelli a repentini e persino severi castighi come punizione per discorsi o pensieri percepiti come lesivi.

Qui è espressa la vera ferita aperta: punizioni severe a causa di pensieri percepiti dalla parte opposta come lesivi. È questo il terreno scivoloso per cui la libertà di espressione viene bandita in nome non di una trasgressione vera e propria, ma da una dittatura imposta dalla sensibilità di chi nell’arena di un dibattito sano si sente leso da un’argomentazione opposta alla propria. E questo è un vulnus profondo che parla di una forte regressione della nostra maturità umana, sempre più propensa a mettere a tacere alla svelta l’avversario usando l’arma subdola della lesione dei sentimenti personali.

E la descrizione di questo clima di caccia alle streghe prosegue con un minuzioso elenco di casi che non sono estranei anche alla cronaca del nostro paese:

Ci sono editor che vengono licenziati per aver pubblicato pezzi controversi; ci sono libri ritirati dal commercio per presunte inautenticità; ci sono giornalisti a cui viene impedito di scrivere su certi argomenti; ci sono professori che finiscono sotto accusa per aver letto brani di letteratura in classe; un ricercatore viene espulso per aver fatto circolare la revisione di uno studio accademico; e i capi delle organizzazioni vengono rimossi per ragioni che spesso non sono altro che maldestri errori. Qualunque siano le argomentazioni attinenti a ciascun caso, il risultato è stata una drastica riduzione dei limiti di ciò che può essere detto senza la minaccia di una rappresaglia. Stiamo già pagando un caro prezzo a causa dell’odio che si riversa su quegli scrittori, artisti e giornalisti che temono per la propria vita se osano prendere le distanze dal consenso o addirittura se mancano di sufficiente zelo nel manifestare il loro accordo.

Il re è nudo. Respiriamo questa oppressione da molto, vediamo quotidianamente il volto rapace di una cultura che urla a senso unico e non ospita altro che acclamazioni a se stessa secondo linee guida dei suoi dictat. Da tempo ci sentiamo un bavaglio sempre più stretto sulla bocca quando si tratta di esprimersi su temi cruciali come la famiglia, il diritto alla vita, l’eutanasia ed è notevole dunque prendere atto che proprio gli esponenti di quel pensiero dominante che imperversa sui giornali e nella cultura ora si renda conto del grande pericolo di ridurre «i limiti di ciò che può essere detto senza la minaccia di una rappresaglia».

Stanze di libertà

Ci sono segnali chiari che denunciano quanto sia difficile prendersi la responsabilità di dire ad alta voce queste verità scomode, eppure sacrosante. Uno dei firmatari della lettera ha dichiarato che molti suoi colleghi, pur condividendo appieno il contenuto, non se la sono sentita di apporre la firma per paura di ritorsioni (Haaretz). A maggior ragione c’è da auspicarsi che l’eco di questo documento susciti reazioni e si guadagni la luce dei riflettori. C’è un ultimo nodo cruciale da evidenziare e sottolineare, ed è contenuto nel passaggio finale della lettera:

Questa atmosfera soffocante colpirà a morte i temi più vitali che si dibattono nel nostro tempo. La restrizione del dibattito, che provenga da un governo repressivo o da una società intollerante, finisce inevitabilmente per far male coloro che non hanno potere e fanno sì che ciascuno perda la propria capacità di partecipazione democratica. Le cattive idee si sconfiggono con l’esposizione, le argomentazioni e con la persuasione, non mettendole a tacere o facendole scomparire. Noi rifiutiamo che ci venga imposta la falsa scelta tra giustizia e libertà, perché nessuna delle due esiste senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che abbia stanze per sperimentare, prenderci dei rischi, e anche commettere errori. Abbiamo bisogno di preservare la possibilità di un onesto dissenso senza tragiche conseguenze professionali.

Non esiste giustizia senza libertà, più un tema è vitale per la coscienza di un popolo più merita che il confronto umano sia ospitato in una stanza in cui si discute da veri uomini liberi e coraggiosi. Chesterton disse che «gli uomini litigano perché non sanno discutere», e in effetti siamo pervasi da questo abbaglio clamorosamente fallace per cui chi ha un opinione diversa è percepito come nemico (e dunque va soppresso). Niente di più falso; perché si è profondamente amici anche nel contendere: il dibattito dovrebbe essere la fucina in cui uno scambio autentico fino al midollo non tende a schiacciare l’avversario ma mira a spalancare la finestra della comprensione per entrambi. E l’aria fresca che entra da quella finestra non riempie di ossigeno le redazioni dei giornali, ma la vita dell’uomo comune che è – come ben scritto nel documento – la vera vittima di una cultura inchinata al mainstream e imbavagliata dai lacci stretti dei presunti tolleranti.

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